sabato 22 dicembre 2012

La Vergona l’Umiliazione e l’Amarezza


 Egregio Signor Ministro all’Istruzione,

chi scrive è una Docente Precaria col nuovo anno quarantasettenne, pluri abilitata con il concorso pubblico del 1999 nelle classi di concorso A0/43- A0/50- A0/37- A0/36; ad oggi incaricata dall’ufficio scolastico della mia provincia fino alla fine delle attività didattiche; Esperto Esterno in Progetti Pon per interventi formativi di sviluppo delle competenze e delle eccellenze. 


Non mi rincresce doverle rivolgere questa mia come “spettacolarizzazione” di un dramma professionale e umano; bersaglio come tanti altri precari di un disattento e malato interesse. Mi turberebbe invece l’offensivo oltraggio del silenzio o della menzogna a cui Ella – Ministro sono certa saprà sottrarsi.


 Questo non è lo sfogo di una “sfortunata sfigata” che respinta dal “suo” concorsone, ha vanificato l’occasione della sua incerta stabilizzazione; ma è l’amara riflessione sul metodo scellerato di selezione concorsuale che sceglierebbe poche decine di docenti del sistema scolastico italiano, vantandosi del merito. E’ inoltre il sussulto di una docente alle dirette dipendenze del suo dicastero, cioè della scuola pubblica italiana e finanche delle scuole nelle carceri, per aver subito un’umiliazione cocente che francamente ho difficoltà a comprendere e spiegare. 


Questa prova preselettiva è stata un’offesa alla professionalità e all’onore dei miei quasi vent’anni d’esperienza nell’insegnamento in istituti d’istruzione di primo e di secondo grado, è un’offesa alla mia non opinabile cultura personale e a quella di un’intera generazione di 150mila precari della scuola italiana; un insulto alla stessa funzione e al ruolo che come docente svolgo attualmente e da anni nel sistema scolastico italiano.


 Malgrado tutto non ho ritenuto di sottrarmi a questa beffarda prova e non ho mancato il contrastato appuntamento, obbligata da ragioni prima etiche e poi morali; mi sono perciò sottoposta alla macelleria inaudita di un concorso che sapevo già essere sbagliato; per una partecipazione forzosa - che i precari come me - Ministro- semplicemente per rispetto del buon senso non meritavano, dal momento che dopo due seri concorsi pubblici da svariati anni agogniamo lo scorrimento di graduatorie ancora densamente popolate e non esaurite. 


Paradossalmente malgrado difficoltà e contraddizioni, non avendo ancora del tutto smarrito la fede in ogni possibile esperienza professionale migliorativa e qualificante da offrire ancora alla mia scuola e a me stessa, senza sperare di riceverne nulla in cambio, forse per ben più profonde ragioni ho voluto misurarmi.


 Ne ho ricavato un’esperienza devastante che ha destituito di ogni senso la Cultura dei Contenuti disciplinari specifici per i quali avremmo invece dovuto concorrere innanzitutto non indistintamente. Ragione già di per sé sufficiente a Offendere la Didattica più accurata e professionale che da anni molti di noi applichiamo già speditamente; in favore di uno sbarramento numerico che ha derubricato il ragionamento logico, linguistico e matematico riconoscibile in forme sicuramente banali e intuitive cioè quelle del colpo d’occhio, del calcolo combinatorio, della sequenza di lettere consonanti-vocali; o della teoretica informatica e della lingua straniera; che si sono tutte fermate un attimo prima dell’essenza del pensiero complesso e non già formale, strumento che l’insegnamento invece esige e merita

Magari non slegando la grammatica della realtà, deprecando le de contestualizzazioni di contenuti che non opinabilmente invece non devono essere ignorati da nuovi o vecchi docenti che questo dovrebbero conoscere, per avere titolo alla docenza.

 Un bilancio misero, da tanti considerevolmente paragonato alla lotteria: poverissima la dimensione di senso che altresì era un atto dovuto per tutti i partecipanti, ingiustificatamente omologati indistintamente senza alcuna differenziazione di grado, di ciclo né di classe concorsuale.


 La serie matematica nella quale intuire la ragione nascosta era invereconda per un qualsivoglia aspirante docente che non fosse di estrazione scientifica e non già umanistica. Il novero era certamente quellodelle possibilità e probabilità quantistiche. Per 50 minuti mi è parso di scimmiottare i migliori quiz della nazionalpopolare tv; e siccome pur praticando l’enigmistica prediligo la saggistica Ministro, reputo quest’esperienza ferale, sgradito omaggio del suo dicastero tecnico come offensiva, umiliante e indegna, una pura violenza (l’ennesima) -sia pure auto inflitta- che nulla ha da spartire col mio insano ma profondo desiderio di insegnare, con la mia straordinaria professione


Se Ella altresì Ministro palesava interesse a ricoprirci di ridicolo, le rimetto allora il mio incarico annuale di docente incaricata nella scuola pubblica, si serva della sua autorità per Revocare gli incarichi come il mio a tempo determinato.


Abbia il coraggio di incontrarci venga nelle mie/nostre classi a incontrare gli alunni e i nostri dirigenti per provare solo a guardare da vicino e finalmente comprendere il mio/nostro lavoro; in fondo solo così si avvicinerebbe alla realtà. 


Mi incontri Ministro lo faccia solo per persuadermi che dopo un’esperienza come questa, tutto debba e possa continuare indifferentemente a scorrere come prima, sin anche il mio/nostro indispensabile e importante lavoro quotidiano nella scuola italiana. 


Il mio onorevole e dignitosissimo lavoro attualmente lo presto in uno straordinario istituto superiore di primo grado di un territorio “Difficile” che per un anno mi è stato dato in prestito (posto vacante)- il mio entusiasmo, la mia passione la cura e l’amore che so di dovere ai miei alunni ed al mio territorio, dopo quest’esperienza non sono certa che sapranno restare immutati. 


Ho costruito con sacrificio la mia professione in un consolidato ventennio di esperienza didattica applicata alla mia realtà, alla mia vita (le mie supplenze sono cominciate da non abilitata) all’idea qualificante dello studio che arricchisce e migliora e talvolta perfeziona, ma la prova preselettiva, che mi ha certamente esclusa per mio demerito da questo ridicolo concorso, è un’autentica vergogna, non perché io non l’abbia superata Ministro, ma perché francamente non sono riuscita a interpretarla - non so bene se sia stato un test di cultura generale o di insipienza docimologica, posto a fondamento di una pur giustificabile forma di selezione, che mi perdoni ministro, né io né tanti riconosciamo come forma adeguata per selezionare i docenti della scuola prossima ventura


Sarei stata disponibile a misurare la mia rapidità in ragione e in luogo della stessa riflessività del mio pensiero o della performatività delle mie conoscenze, se solo tutto questo fosse più utile, produttivo e più importante per ciascuno dei miei numerosi alunni di oggi e forse di domani; se fossero più necessarie della mia profondità di esperto educatore, le mie abilità specifiche di tipo addestrativo tanto da svilire le mie capacità di integrare e attualizzare quei saperi che da anni insegno e trasmetto nella convinzione che servano veramente a qualcosa di più. 


Sottrarmi alla prova poteva essere una soluzione direttamente proporzionale alla preclusione di una speranza “infingarda” o forse all’inconsistenza di un sogno meschino, nel livore di una drammatica situazione che nella sperimentata tecnica dell’arrogante <<arragiatevi!>> più che farci apparire <<choosy>> proprio non sa cosa alto fare.


                                                                               Con osservanza  



                                                                      Prof. Angela Maria Spina  

mercoledì 14 novembre 2012

Che cosa è questo Golpe?






Io so.


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
 
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

 
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.  


Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. 


Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). 


Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. 


Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). 

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. 


Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari.  


Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.


Io so. Ma non ho le prove. 


Non ho nemmeno indizi. 

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. 


Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. 


Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. 

Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.

 Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.

Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

 Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974 [L'editoriale di Paolo Meneghini era intitolato "L'ex-capo del Sid, generale Miceli arrestato per cospirazione politica]. 

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. 

Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.


 A chi dunque compete fare questi nomi?

 Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. 

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. 

Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. 

Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. 


Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. 


All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. 


Se egli vien meno a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici". 


Gridare al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. 


In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.


 È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. 

Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico.


In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratro: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "paese separato", un'isola.

 Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. 

In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. 

È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro. 


Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. 


La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. 


Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere. 


Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere. 


Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro.


 E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. 

Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpes e delle spaventose stragi di questi anni?


 È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica.

E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.

L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. 


Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica.


 Non è diplomatico, non è opportuno.
 
Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire. 


Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana. 


E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti.


 E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista. 

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi. 


Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti.


 Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori).

 Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato..

                        Pier Paolo Pasolini   dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 


                                  Il romanzo delle stragi


martedì 13 novembre 2012

Primo Levi: La Condizione dello scrittore


Perché crediamo a Primo Levi?

È il titolo della quarta “Lezione Primo Levi”, l’appuntamento annuale organizzato dal Centro Studi Primo Levi di Torino, che si terrà da giovedì 8 novembre 2012 alle 17.30 presso l’Aula Magna della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Torino (Corso Massimo d’Azeglio 48): una delle aule frequentate da Levi studente di chimica e ricordate nella sua opera.
Relatore il professor Mario Barenghi, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Milano Bicocca.



L’appuntamento è promosso dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi: l’associazione costituita nell’aprile del 2008 di cui sono soci fondatori la Regione Piemonte, la Città e la Provincia di Torino, la Compagnia di San Paolo, la Comunità ebraica di Torino, la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura e la famiglia di Primo Levi,  si inserisce all’interno del programma di iniziative promosse per i venticinque anni della scomparsa dello scrittore. L’obiettivo è di custodire e mettere a disposizione degli studiosi la documentazione relativa allo scrittore, e di promuovere studi e ricerche sulla sua opera. 
Come ogni anno, il testo della Lezione sarà successivamente pubblicato da Einaudi in edizione bilingue in italiano e inglese.




Nella primavera del 1977 Mario Miccinesi e Flora Vincenti, che dirigono “Uomini e libri”, un periodico d’informazione bibliografica, inviano un questionario a vari scrittori italiani (n. 63, marzo-aprile 1977). Li interrogano sulla loro posizione nel contesto politico italiano.

 A gennaio sono state occupate le università; a Bologna uno studente è stato ucciso dalla polizia, e nella stessa città a settembre si tiene il convegno contro la repressione; in precedenza c’è stata la cacciata di Luciano Lama, leader della CGIL, dall’Università di Roma. 

È esploso il Movimento del 77, mentre il terrorismo brigatista sta raggiungendo il suo culmine. Nel marzo dell’anno dopo viene sequestrato e ucciso Aldo Moro. 

Primo Levi sta per pubblicare La chiave a stella (esce nel 1978), che vincerà il Premio Strega, ma sarà criticato sulle colonne di “Lotta continua” per la sua idea del lavoro come approssimazione della felicità in terra.

 In questo contesto, lo scrittore, che è legato alla rivista (Flora Vinceti ha pubblicato nel 1973 una delle prime e informate monografie sull’autore di Se questo è un uomo), risponde prontamente al questionario su “La condizione dello scrittore nel contesto politico italiano”, preceduto da una riflessione della redazione. 

Qui di seguito le domande e le risposte di Levi.

La condizione dello scrittore nel contesto politico italiano

La situazione del nostro paese presenta indubbiamente oggi un
 carattere di eccezionalità che le deriva dalla tendenza in atto, sotto la
 spinta delle sinistre, ad un intrinseco rinnovamento il quale comporta 
mutamenti che è da augurarsi si attuino in modo autentico e profondo
e che non possono non coinvolgere tutti gli aspetti della vita sociale.


Nessuno può esimersi dall’apportarvi il proprio contributo, tanto meno 
coloro che si definiscono intellettuali e, tra di essi, gli scrittori. Nella
 consapevolezza della particolarità di una situazione che esige da ognuno
 un obiettivo chiarimento anche delle proprie posizioni politiche, “Uomini e Libri” ha promosso a questo scopo un dibattito tra gli scrittori
 italiani cui vengono rivolte le domande qui sotto riportate.


Domanda
 Qual'è la condizione dello scrittore oggi? Ossia come si colloca l’attività
 dello scrittore nell’ambito della nostra società, con particolare riferimento alla
 situazione politica?


R. Il minaccioso “oggi” che compare nella domanda penso vada rimeditato. In che cosa differisce questo oggi da
 tutti i nostri ieri, e dagli ieri dei nostri 
predecessori? Ne differisce per il fatto
 che oggi l’Occidente è in crisi? È in 
crisi da 100 anni, e certamente era in
crisi anche prima, agli occhi degli osservatori di allora: non esiste epoca
 che non sia di crisi.

 Solo gli storici avvenire, assennati del senno di poi, sapranno disegnare le arsi e le tesi di questa crisi permanente. Perciò, non credo che molto sia mutato nella funzione
 dello scrittore nell’ambito della situazione politica attuale: oggi come ieri,
 lo scrittore non deve dimenticare che
 è anche lui, come tutti, un individuo che
 ha subito condizionamenti (dal suo ambiente, dal tempo in cui vive, dalla
 classe a cui appartiene, dai traumi a
 cui è stato personalmente esposto); che 
non è privilegiato rispetto ai non-scrittori, se non perché la fortuna, o il suo
 mestiere, gli hanno concesso di comunicare con un pubblico vasto; che si deve 
proporre e sforzare di superare i condizionamenti sopra detti, allo scopo di 
arrivare ad una visione del mondo più
 ampia ed organica.


D. In che misura il lavoro dello scrittore è oggi in grado di incidere su una 
realtà che, pur tra impedimenti e incertezze, accentua il proprio processo di
trasformazione e di indipendenza nei confronti dei poteri ecumenici dominanti?


R. Certo il lavoro dello scrittore può 
(può!) incidere oggi sulla realtà in misura maggiore di ieri, ma solo perché i
mezzi di massa e l’industria editoriale
gli concedono una voce più forte: non
perché la realtà d’oggi accentui veramente il proprio processo di distacco
 dal potere. 

Che questo stia avvenendo, 
è dubbio: se anche a breve termine sembra questa essere la tendenza, è imprudente essere ottimisti; potrebbe essere
solo un’increspatura della curva. Resta 
il fatto che l’opera scritta può incidere
 sulla realtà politica: ma spesso questo 
avviene in misura diversa da (talora opposta a) quanto lo scrittore desidera o prevede. Un libro scappa di mano a chi lo scrive: dice più di quanto il suo autore intende. Essendo frutto di un’epoca, testimonia sull’epoca, anche contro o senza il consenso dell’autore; in questo senso, ogni libro è impegnato, anche se il suo autore si professa disimpegnato.

D. Come risponde la società contemporanea al lavoro dello scrittore? In quale considerazione tale lavoro dovrebbe essere tenuto e quale peso gli dovrebbe
 venire attribuito?

R. Se si intende “scrittore” in senso stretto, la società d’oggi risponde al suo lavoro meno vivacemente di prima, per l’evidente concorrenza della radio, della TV, del cinema, ecc. Quanto alla seconda parte della domanda, come formulare regole? Come scrittore, avrei piacere se molti leggessero molti libri e ne traessero giovamento, o anche solo divertimento, e privilegerei la lettura rispetto ad altre funzioni, ma simultaneamente penso che queste preferenze possono essere campanilistiche.

 Uno scrittore non è un vate né un profeta, e non ha ragione sempre: il peso che deve essere attribuito alla sua opera è estremamente variabile da caso a caso. Sta al lettore imparare a distinguere lo scrittore originale e onesto dal falsario e dal cortigiano.




fonte: Doppiozero.com

domenica 11 novembre 2012

L'Impegno per il Federalismo Europeo di CAMUS


Questa di seguito è l'introduzione al volume di Albert Camus "Il Futuro della Civiltà Europea (Castelvecchio) di  Alessandro Bresolin


«L'anno della guerra, dovevo imbarcarmi per rifare il periplo di Ulisse. A quell'epoca, anche un ragazzo povero poteva concepire il sontuoso progetto di attraversare il mare andando incontro alla luce. Ma, allora, ho fatto come tutti. Non mi sono imbarcato. Mi sono messo in fila tra coloro che scalpitavano davanti alla porta aperta dell'inferno». Così nel 1946 Albert Camus ricordava, in Prométhée aux enfers, quell'estate del 1939 in cui voleva avventurarsi in Grecia con degli amici e in cui, invece, il mondo precipitò nel secondo conflitto mondiale.

Da molti anni, quindi, sognava d'intraprendere un viaggio nella culla della cultura mediterranea che quel paese rappresentava. Decise di andarci nel 1955, dopo un lungo periodo per lui estremamente delicato e angoscioso dal punto di vista personale, artistico e politico: il suo disamore per quella Parigi frivola e piovosa dove ormai non voleva più abitare, le aspre polemiche intellettuali sull'Uomo in rivolta, la rottura definitiva con Sartre e il suo progressivo isolamento rispetto al mainstream politico-intellettuale francese, la divisione dell'Europa in blocchi contrapposti e la logica della guerra fredda, la comparsa del Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria con l'inizio di un conflitto che per lui rappresentava la realizzazione dell'incubo di tutta una vita. Lacerato dai dubbi, così si esprimeva con l'amico poeta René Char in una lettera del 7 agosto 1954: «le mando un testo, brutto, perché non so più scrivere [...]».

Nel febbraio del 1955 Camus si recò in Algeria, un viaggio che aumentò le sue preoccupazioni, con la politica che cominciava a dividere le amicizie in frontisti e antifrontisti e il dramma del terremoto che qualche mese prima aveva colpito il paese nordafricano. Di ritorno in Francia, riprese a lavorare alla riduzione teatrale del racconto di Dino Buzzati Un caso clinico, che andò in scena il 12 marzo. Quattro giorni dopo, il 16, fu un tragico evento a turbarlo, il suicidio del pittore Nicolas de Staël, presentatogli da René Char. Camus era al limite della depressione e proprio in quell'occasione scrisse una lettera a Char, il 18 marzo 1955, confidando all'amico: «Caro René, non ho dato segni di vita perché, interiormente, sono al limite delle mie forze, e vivo giorno per giorno». Ancora il 26 aprile, giorno in cui doveva partire per Atene, Camus annotò nei suoi Taccuini: «Partenza da Parigi. Afflitto e svuotato d'ogni gioia da X».

Il viaggio in Grecia, dal 26 aprile al 16 maggio, sortì l'effetto catartico desiderato, da subito. Lo si può constatare leggendo i Taccuini, in cui le sue annotazioni passano dalle poche righe laconiche dei mesi precedenti a intere pagine di osservazioni su Atene, Delfi, Sparta, Micene, Salonicco, il Peloponneso, le isole. Rimase estasiato dalla luce, dai colori, dagli odori, dalla natura, dalla socievolezza e dalla mentalità dei greci, così simile a quella che aveva conosciuto in Algeria. Oltre a viaggiare per mare attraverso le isole e a visitare le rovine della Grecia classica, Camus cominciò la sua collaborazione conL'Express, scrivendo un articolo da una Volos distrutta dal terremoto. Si interessò alle deportazioni nell'isola di Makronissos, dando seguito al suo impegno, che nel 1949 l'aveva spinto a sostenere un appello per la liberazione di dieci prigionieri politici greci; non è un caso quindi se negli archivi di Camus è stata trovata una poderosa documentazione su Makronissos e sulle deportazioni.

Progressivamente riprende le forze e a metà viaggio, il 6 maggio, scrive a Jean Grenier, suo ex professore di filosofia: «Avevo bisogno anche della Grecia e di questo senso dello spazio così forte che mi dà. Come un prigioniero, che si ritrova all'improvviso su una nuda montagna che si staglia in cielo aperto. Sì, respiro».

In giro per il paese Camus tenne una serie di conferenze tra cui una dal tema «L'artista e il suo tempo», una intitolata «La tragedia oggi è possibile?» e altre ancora, ma non ne rimangono tracce. L'unico incontro registrato in questo viaggio è quello tenuto il 28 aprile 1955 ad Atene, «Il futuro della civiltà europea», che per noi metaforicamente rappresenta un viaggio nel pensiero di Camus. L'incontro, organizzato dall’Union culturelle gréco-française e presieduto dal professor Catacouzinos, venne pubblicato integralmente nel 1956 dalla Biblioteca dell'Istituto Francese di Atene. Ma ben presto questa pubblicazione cadde nell'oblio. Finché, dimenticati per decenni in uno scatolone all'ambasciata di Francia ad Atene, alcuni esemplari vennero recapitati alla figlia Catherine, che nel 2008 si decise a far inserire il testo nella nuova edizione della Bibliothèque de la Pléiade. Nella Pléiade però è stato pubblicato solo il testo di Camus, mentre sono state tagliate alcune sue risposte brevi, e le domande sono state riassunte in poche righe, rendendo difficoltosa l'analisi del testo.

I quattro partecipanti al colloquio erano nomi di spicco nel panorama culturale greco dell'epoca: Euangelos Papanoutsos, filosofo; Georgios Theotokas, scrittore e saggista, rappresentante della generazione dei giovani arrabbiati degli anni '30 che nel dopoguerra divenne direttore del Teatro Nazionale greco; Phedon Veleris, costituzionalista; Konstantinos Tsatsos, partigiano durante la guerra, che divenne uomo politico “liberale non conservatore” e poi diplomatico. In questa nuova edizione è stata riprodotta l'integralità delle domande e delle risposte, traducendo fedelmente il testo del '56.

La discussione mostra un Camus interessato al presente, alla sopravvivenza della civiltà europea, prima ancora che al suo futuro. Infatti, dopo due guerre mondiali, constata innanzitutto «la strana sconfitta morale di questa civiltà». Bisogna capire da dove viene questa sconfitta, curare le ferite ancora aperte, prima di guardare oltre. Socialista libertario qual era, Camus credeva nel federalismo europeo e mondiale. Per vincere la pace, era convinto che l'Europa dovesse unirsi da subito in un forte modello federale e non in una tiepida confederazione di Stati che lasciava inalterato quell'anacronismo rappresentato dalle sovranità nazionali, soprattutto in un contesto mondiale segnato dall'internazionalizzazione dell'economia. Perciò, distinguendo tra totalità e unità, indica in un'unione fondata sulla misura e sul rispetto delle diversità l'unica speranza per l'Europa.

Camus usava la nozione di misura in modo sistematico e in politica la considerava essenziale per equilibrare e limitare l'un l'altro i due princìpi che tendono fatalmente a cadere in contraddizione, quello di libertà e quello di giustizia. Inoltre, come sostiene in questa conferenza, bisogna tener conto del fatto che «la civiltà europea è innanzitutto una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità degli ideali, degli opposti, dei valori contrastati e della dialettica senza sintesi. La dialettica vivente in Europa è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria e ortodossa».
Perché una civiltà viva, deve rispettare l'individuo. Di conseguenza la difesa del pluralismo sta alla base di un'unità europea rispettosa delle diversità, ma anche di uno sviluppo tecnico e scientifico che non deve atrofizzare lo sviluppo umano e morale.

L'impegno di Camus per il federalismo europeo risale alla guerra e alla Resistenza. Non che prima non si fosse posto questo problema ma, vivendo ad Algeri, l'Europa gli appariva lontana e solo negli anni '40 assunse la consapevolezza di essere europeo. Mentre la Francia subiva l'occupazione tedesca, aderì al gruppo Combat, politicamente molto vicino al Partito d'Azione italiano, e in clandestinità ne diresse il giornale. Il movimento Combat, fondato da Henry Frenay, una delle principali figure del federalismo proveniente dalla Resistenza, affermava fin dai suoi atti fondativi la necessità di creare una federazione europea, unita sul piano giuridico e politico, per garantire la pace e il progresso economico attraverso una democratizzazione delle istituzioni.

Camus concepiva l'Europa come un'unità geografica e culturale, per questo continuava ad esprimere tutta la sua contrarietà alla divisione del continente in aree di influenza, pur consapevole che la storia stava andando in direzione opposta. Come sosteneva nel '47, anziché militarizzarsi l'Europa doveva diventare piuttosto «... una società dei popoli libera dai miti della sovranità, una forza rivoluzionaria che non si appoggia sulla polizia e una libertà umana che non sia di fatto asservita al denaro».

L'unificazione europea era vista come una riforma che andava fatta subito, approfittando della debolezza degli Stati nazionali. Invece nei lunghi anni che trascorsero dalla liberazione, nel 1945, al 1957, anno del trattato di Roma, gli Stati si erano riorganizzati e ristrutturati, arrivando ad accordarsi solo per una blanda unione economica europea. Forse anche per questo, dopo gli entusiasmi federalisti del '44/'48, Camus si allontanò dalla politica europea non commentando nemmeno la notizia del trattato di Roma. La montagna aveva partorito il topolino.

Dal trattato di Roma ad oggi molti passi sono stati fatti, ma di fatto l'Europa è rimasta quella confederazione di Stati sovrani in cui ognuno fa cinicamente la sua politica e porta avanti il proprio sterile patriottismo. Viviamo ancora nell'epoca feudale delle sovranità nazionali. Il processo di unificazione europeo è rimasto un processo monco, non popolare, riservato agli addetti ai lavori e ai banchieri, anziché trasformarsi in quella sinergia creatrice capace di comprendere tutte le sue identità e le sue tradizioni riassunte nella fede nei diritti dell’uomo, nell’incontro solidale e aperto con le altre culture del pianeta. Quindi è ancora attuale quanto dice Camus in questa conferenza, «l'Europa è costretta da una ventina di lacci in un quadro rigido all'interno del quale non riesce a respirare

                                                                         Alessandro Bresolin


Fonte: tratta da carmillaonline.com

"Il Futuro della Civiltà Europea"


Nel 1955 Albert Camus intervenne ad Atene parlando di Europa, tra antiche ferite e nuove speranze.

 Il testo completo del suo discorso è ora pubblicato nel volume “Il futuro della civiltà europea”, in uscita da Castelvecchi. 
Proponiamo due estratti da Repubblica dell'11 novembre 2012



Se riteniamo che la civiltà occidentale consista soprattutto nell’umanizzazione della natura, cioè nelle tecniche e nella scienza, l’Europa non solo ha trionfato, ma le forze che oggi la minacciano hanno mutuato dall’Europa occidentale le sue tecniche o le sue ambizioni tecniche e, in ogni caso, il suo metodo scientifico o di ragionamento.
 Vista così, in effetti, la civiltà europea non è minacciata, se non da un suicidio generale e da se stessa, in qualche modo.

Se, viceversa, riteniamo che la nostra civiltà si sia sviluppata sul concetto di persona umana, questo punto di vista, che può essere altrettanto valido come lei ha ragione di sottolineare, porta a una risposta del tutto diversa. Vale a dire che probabilmente, dico probabilmente, è difficile trovare un’epoca in cui la quantità di persone umiliate sia così grande. 
Tuttavia non direi che quest’epoca disprezzi l’essere umano in modo particolare. Infatti contemporaneamente a queste forze, che definirei del male per semplificare le cose, non c’è dubbio che nel corso dei secoli si è progressivamente diffusa una reazione della coscienza collettiva e in particolare della coscienza dei diritti individuali.

Due guerre mondiali l’hanno soltanto un po’ logorata e credo sia ragionevole rispondere che la nostra civiltà viene minacciata nella misura esatta in cui oggi un po’ ovunque l’essere umano, viene umiliato.

A quest’utile distinzione posso aggiungere che potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà.
 Per dirla diversamente se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo nella ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, in un processo evidentemente troppo lungo da spiegare, portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale.

L’universo tecnico in se stesso non è una brutta cosa, e sono assolutamente contrario a tutte quelle teorie che vorrebbero un ritorno alla carrucola o all’aratro trainato da buoi.
 Ma la ragione tecnica, posta al centro dell’universo, considerata come l’agente meccanico più importante di una civiltà, finisce per provocare una specie di perversione, al contempo nell’intelligenza e nei costumi, che rischia di portare al fallimento di cui abbiamo parlato. Sarebbe interessante cercare di capire in che modo.

(...) Quali sono, innanzitutto, gli elementi che costituiscono la civiltà europea? Rispondo di non saperlo. Ognuno di noi però ha una prospettiva privilegiata, sentimentale in qualche modo, che d’altronde può essere ragionata e fondata su osservazioni, la quale ci fa preferire uno di questi elementi agli altri.
 Secondo me, e per una volta potrò rispondere in modo netto, la civiltà europea è in primo luogo una civiltà pluralista. 
Voglio dire che essa è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi.
 In Europa la dialettica vivente è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria ed ortodossa. Il contributo più importante della nostra civiltà mi sembra sia quel pluralismo che è sempre stato il fondamento della nozione di libertà europea. Oggi per l’appunto è questo ad essere in pericolo ed è ciò che bisogna cercare di preservare.

L’espressione di Voltaire che credo dicesse: «Non la penso come voi, ma mi farò ammazzare per lasciarvi il diritto di esprimere la vostra opinione», è evidentemente un principio del pensiero europeo.
 Non c’è dubbio che oggi sul piano della libertà intellettuale, ma anche sugli altri piani, questo principio viene messo in discussione, viene attaccato e mi sembra che vada difeso.
 Rispetto alla questione di sapere se alla fine si salverà e se il futuro sarà nostro, come si dice, ebbene a questo tipo di domande rispondo allo stesso modo in cui rispondo ad altre, che pongo a me stesso in situazioni simili. 
In alcune circostanze, mi sembra che un uomo possa rispondere: «Questa cosa è vera, secondo me, o probabilmente vera. Questa cosa dunque deve vivere. Non è sicuro che io possa farla vivere, non è sicuro che la morte non attenda ciò che mi sembra essenziale. Comunque, l’unica cosa che posso fare, è lottare perché viva».

Penso, che in questa fase l’Europa sia chiusa in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare. Dal momento che Atene dista sei ore da Parigi, che in tre ore da Roma si va a Parigi, e che le frontiere esistono solo per i doganieri e i passeggeri sottomessi alla loro giurisdizione, viviamo in uno stato feudale. 
L’Europa, che ha concepito di sana pianta le ideologie che oggi dominano il mondo, che oggi le vede voltarsi contro di essa, essendosi incarnate in paesi più grandi e più potenti industrialmente, quest’Europa, che ha avuto il potere e la forza di teorizzare tali ideologie, allo stesso modo può trovare la forza di concepire i concetti che permetteranno di controllare o equilibrare queste ideologie.
 Semplicemente ha bisogno di respiro, di grazia, di modi di pensare che non siano provinciali, mentre al momento tutti i nostri modi di pensare lo sono. 
Le idee parigine sono provinciali; quelle ateniesi anche, nel senso che abbiamo estrema difficoltà ad avere abbastanza contatti e conoscenze, a contaminare quanto basta le nostre idee affinché si fecondino mutualmente i valori erranti, che sono isolati nei nostri rispettivi paesi.

Ebbene, credo che quest’ideale verso il quale noi tutti tendiamo, che dobbiamo difendere e per il quale dobbiamo fare tutto ciò che è possibile, non si realizzerà subito. 
La «sovranità» per molto tempo ha messo bastoni in tutte le ruote della storia internazionale. Continuerà a farlo. Le ferite della guerra così recente sono ancora troppo aperte, troppo dolorose perché si possa sperare che le collettività nazionali facciano quello sforzo di cui solo gli individui superiori sono capaci, che consiste nel dominare i propri risentimenti. Ci troviamo dunque, psicologicamente, davanti a ostacoli che rendono difficile la realizzazione di questo ideale.
 Detto questo, (...) bisogna lottare per riuscire a superare gli ostacoli e fare l’Europa, l’Europa finalmente, dove Parigi, Atene, Roma, Berlino saranno i centri nevralgici di un impero di mezzo, oserei dire, che in un certo qual modo potrà svolgere il suo ruolo nella storia di domani.

La piccola riserva che introdurrò è la seguente. Ha detto che non si può affrontare dal punto di vista intellettuale il problema del futuro europeo, che non ci si può riflettere finché non avremo quella struttura a cui potremo fare riferimento. La mia riserva sta dunque nel dire: dobbiamo comunque affrontare il problema, dare un contenuto ai valori europei, anche se l’Europa non si farà domani. Mi ha colpito l’esempio che ha fatto poco fa. Lei ha sostenuto: «La Germania quando non era unita, non era una potenza». È verissimo. Nondimeno possiamo sostenere che la maggior parte delle ideologie contemporanee si è formata sull’ideologia tedesca del Diciannovesimo secolo, e che tutti i filosofi tedeschi che hanno fatto nascere quella nuova forma di pensiero precedono l’unificazione tedesca, naturalmente se consideriamo che l’unità tedesca si realizza nel 1871. Perciò è possibile influire su una civiltà, anche dallo stato di abbandono e povertà in cui siamo.
Il ruolo degli intellettuali e degli scrittori è in un certo senso quello di continuare a lavorare nel loro ambito, cercando di spingere la ruota della storia se possono farlo e se ne hanno il tempo, affinché al momento dovuto i valori necessari, non dico siano pronti, ma possano già servire come fermenti.

(...) La libertà senza limiti è il contrario della libertà. 
Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. 
Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. 
La libertà ha sempre avuto come limite, è una vecchia storia, la libertà degli altri.
 Aggiungerò a questo luogo comune che essa esiste e ha un senso e un contenuto solo nella misura in cui viene limitata dalla libertà degli altri.
 Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta.
 Il resto, la libertà senza limiti, non viene vissuta e ha come prezzo la morte degli altri. 
La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata.
                                                                                               Albert Camus