mercoledì 17 aprile 2013

Sulla Democrazia e poco altro ancora


Se la sinistra di Bersani e Vendola ha memoria della propria storia migliore, se vuole rinnovarsi ascoltando quel che tanti cittadini desiderano, non ha davanti a sé molte vie ma una, nell'elezione del nuovo capo dello Stato. Non può che scegliere un Presidente che nell'ultimo ventennio abbia avversato l'anomalia berlusconiana, e pensato più di altri l'intreccio fra crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità, crisi dell'informazione, crisi dell'Europa.

Non può che meditare sul vincitore finale delle Quirinarie di Grillo: Milena Gabanelli è emblema dell'indipendenza giornalistica, della lotta alla corruzione, e di tale indipendenza e lotta la nostra democrazia ha bisogno come dell'aria, per tornare a respirare.

Non può che votare uno dei tre nomi politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky. Non li ha inventati Grillo questi nomi, non sono suoi: sono figli - soprattutto i primi due - della sinistra. Non è faziosità difenderli.

In passato cosa ha contato che Einaudi, Pertini, e poi Scalfaro, Napolitano, fossero stati "di parte" prima dell'elezione? 


Solo la persona pesa, non l'astuto reticolo di accordi che l'intronizza.

Eletto al primo turno, Cossiga fu pessimo Presidente. Il timore d'apparire partigiano rischia di immobilizzare il Pd, accentuando un attaccamento a larghe e sotterranee intese che l'hanno consumato fino a polverizzarlo. 

La ricerca di brevi vantaggi, la spartizione di cariche e potere: ecco cosa regala il connubio con una destra numericamente pari a Grillo, ma ben più potente e ricattatoria di lui. 

I tre contendenti citati sono europeisti, hanno come bussola la Costituzione, sono stimati fuori Italia, e non partecipano al coro conformista che bolla 5 Stelle come antipolitica. 

Uno di essi, Zagrebelsky, ha detto: "Antipolitica è parola violenta e disonesta". Altri nomi sono possibili, purché l'identikit sia lo stesso.

L'accordo fra sinistra e 5 Stelle sul nome del Presidente è infecondo solo se teniamo il naso schiacciato sull'oggi, anzi sull'ieri (le larghe intese erano solo con la destra). 


Se guardiamo lontano, se vediamo lo sfaldarsi del Pd non come una sciagura ma come un'opportunità, l'accordo con Cinque Stelle può essere reinvenzione democratica. Tra le righe è quel che dice Fabrizio Barca, nel programma presentato il 12 aprile in favore di un Pd disfatto e rifatto a nuovo.

I militanti di 5 Stelle preconizzano ad esempio l'immissione nella democrazia rappresentativa di esperienze sempre più estese di democrazia deliberativa, diretta.


 Non siamo lontani dallo sperimentalismo democratico che secondo Barca deve innervare il futuro Pd, e abituarlo ad ascoltare quel che la cittadinanza vuole poter discutere e decidere fra un voto e l'altro.

 I due termini sono diversi ma non la sostanza, che rimanda tra l'altro all'Azione Popolare teorizzata da Salvatore Settis. Ambedue puntano il dito sull'odierna anchilosi dei partiti.

Ambedue pensano la crisi come svolta positiva, e nell'impoverimento della nostra economia scorgono una realtà non occultabile ma nemmeno fatale, se altri modelli di sviluppo saranno sperimentati in Italia e in Europa.

L'imminente elezione del Presidente è una di queste occasioni, da cogliere allungando la vista ed evitando di scoraggiarsi in anticipo. 


L'accordo con Grillo è difficile, dicono: ma non è del tutto escluso che sia possibile, se il Pd considererà come proprio uno dei nomi usciti dalle Quirinarie, e accetterà all'inizio di restare in minoranza.

 Alla quarta votazione, quando basterà la maggioranza semplice, un nome non partitico potrebbe passare.
L'occasione è tutto, dunque. Ma ci sono due metodi per affrontarla, analizzati da Barca: il metodo minimalista, o quello sperimentale-deliberativo. 


Il primo si adagia sullo status quo: ha la forza delle abitudini ai vecchi ordini. Il secondo tenta nuove vie, prova e riprova imparando da conflitti e errori.

Chi adotta il metodo minimalista non crede che lo Stato possa molto, per curare la democrazia malata o attenuare la povertà sociale.


Quel che gli importa, è preservare una chiusa élite (di esperti politici, di tecnici) che prenderà decisioni senza curarsi se funzionino, convinta com'è che i piani di austerità daranno ineluttabilmente frutti anche se immiseriscono popoli interi.

Il candidato al Colle preferito da simili élite non deve essere popolare, non deve nemmeno rappresentare un emblema ideale per i cittadini: deve essere abile, e soprattutto omogeneo alle oligarchie che lo faranno re.


 Meno popolare sarà, più sarà scongiurato il pericolo, temuto dai benpensanti del vecchio ordine, del populismo. 

A parole, i minimalisti si augurano uno Stato leggero, non invadente. Nei fatti, le oligarchie partitocratiche vivono in osmosi con lo Stato e rendono quest'ultimo più che pervasivo, indifferente alla voce di chi (localmente, nelle Azioni Popolari, nei voti online) reclama cambiamenti.

Tutt'altra l'idea degli sperimentatori, o della democrazia deliberativa: è il metodo sfociato nel voto, da parte degli attivisti di M5S, dei candidati al Colle.


 L'esperimento è difficile, ma innovativo e molto più onesto di quel che era stato pronosticato. Non tutti i candidati vincenti erano graditi ai vertici del Movimento: tuttavia il verdetto è stato accolto democraticamente e con responsabilità istituzionale.

Molte cose sono state dette, nei giorni scorsi, liquidatrici delle Quirinarie e d'una prassi deliberativa che avrebbe fatto cilecca. 


È la miopia di chi non intuisce l'ovvia difficoltà dei nuovi inizi. È la miopia di chi rifiuta di istituire subito le Commissioni parlamentari chieste dal M5S. 

I cittadini chiedono misure rapide contro la crisi, ma i partiti restano sordi: prima devono sapere come lottizzare posti e presidenze, cosa impossibile se non si sa il governo che verrà! 

La verità, pochi la dicono. Interessante non è il marchingegno più o meno fuorviante del voto in rete a due turni.

 Interessante è che dovendo indicare ben 10 nomi, un movimento qualificato di fascista, o demagogico, o populista, non sia stato in grado di trovarne neppure uno sfacciatamente demenziale o di estrema destra.

Stupidità fanfaronesche s'incrociano spesso sul web. Ma ancor più funeste dilagano nei non meno virtuali palazzi del potere. 


Le cerchie partitiche, o tecniche, mostrano una conoscenza del pubblico interesse infinitamente meno vigile. Sono le cerchie contro cui si scaglia Barca, quando denuncia i "partiti di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto: prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni, idee". Berlinguer usò parole quasi eguali, quando ruppe col compromesso storico e denunciò la degenerazione dei partiti, Pci compreso ("I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo", disse a Eugenio Scalfari su Repubblica, il 28-7-81).

Perfino sull'articolo 67 della Costituzione, giudicato comunemente intoccabile ma criticato da Grillo, Barca sembra dubbioso: vero è che i costituenti respinsero il "vincolo di mandato" dei parlamentari, ma non all'unanimità. 


Il comunista Ruggero Grieco difendeva la libera coscienza dei deputati, ma sosteneva che l'esclusione di ogni vincolo "favorisce il sorgere del malcostume politico". Il ventennio berlusconiano non gli ha dato torto.

Non sappiamo ancora se le strade di Barca e di Grillo si incontreranno. Se dall'eventuale incontro la democrazia uscirà più forte. Se il M5S intirizzirà, a forza di rifiutare alleanze. 


Resta che l'Italia ha bisogno di sperimentatori, non di minimalisti. Che solo i primi sono in grado di guardare in faccia la crisi, e di mutare anche l'Europa. Di ripensare l'austerità come aveva provato Berlinguer nel 1977, quando il capitalismo aveva appena cominciato a vacillare. 



                                                                           Barbara Spinelli





Fonte:  la Repubblica

BENI COMUNI : Voglia di PRESENTE e FUTURO



In scena nello storico teatro romano, occupato e restituito a 

lavoratori e fruitori della cultura da quasi due anni,

                 “La Costituente dei Beni Comuni”.

 È il primo passo di un'inedita alleanza tra studiosi e

 movimenti, con l'obiettivo di proporre ed affermare un nuovo

 diritto ed una rinnovata idea di cittadinanza.

                Una cronaca ragionata dell'iniziativa.





Nonostante si tratti del primo sabato di sole primaverile, il 13 aprile il Teatro Valle è stracolmo: l'assemblea “numero zero” de La Costituente dei Beni Comuni ha richiamato studiosi e movimenti da tutta Italia e si respira un'energia realmente costruttiva.
Si comincia con un video: facendo il verso a Guerre Stellari, sullo schermo scorrono le parole di Rousseau, “se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”.

A Stefano Rodotà, già presidente della commissione ministeriale per la riforma del diritto dei beni pubblici, padre sobrio ed autorevolissimo di quest'iniziativa, l'onere di introdurre la discussione: la prolusione di Rodotà – al centro del discorso pubblico perché indicato trai principali “quirinabili” – è una orgogliosa quanto discreta professione di metodo. Per costruire un solido percorso di studio, azione sociale e proposta, è in primo luogo fondamentale eliminare ogni personalizzazione: un simile richiamo smentisce subito chi aveva intravisto nell'iniziativa il lancio della corsa del giurista al Colle; allo stesso tempo, sottolinea la continuità tra l'attività scientifica della “commissione Rodotà” e l'esperienza politica del Referendum su acqua e servizi pubblici locali.

I beni comuni – ormai è chiaro a tantissimi – rimettono in causa le categorie centrali dell'esperienza giuridica, mettono in relazione il mondo dei beni, la dignità ed i diritti fondamentali delle persone e delle comunità, le idee di partecipazione, democrazia, istituzioni.

Se si accettano fino in fondo le implicazioni di una simile affermazione, si capisce come al Teatro Valle sia cominciato un cammino collettivo prezioso e innovativo: nelle parole di Rodotà, cultura diffusa e culture specialistiche dovranno intessere un dialogo continuo, in grado di considerare la complessità dei dati sociali come una risorsa e, soprattutto, in possesso di un metodo costruttivo capace di valorizzare e legittimare le differenze di proposta ed estrazione politica.

A voler parafrasare una famosa espressione, al Valle studiosi e movimenti dimostrano piena consapevolezza di come la democrazia non sia un pranzo di gala. D'altra parte, la religione neoliberista e i dogmi dell'austerità hanno eroso la residua legittimazione di ceti politici autoreferenziali, prodotto una catastrofe di esclusione sociale, aperto una ferita apparentemente insanabile tra legalità formale e legittimità sostanziale delle situazioni sociali e giuridiche.

E allora non resta che navigare in mare aperto, con rigore, umiltà ed incoscienza. Rodotà denuncia l'approssimazione del circuito mainstream italiano – che ancora ritiene il dibattito sui beni comuni “una fantasticheria di studiosi e/o un estremismo dei movimenti sociali” – e suggerisce le coordinate per il viaggio appena cominciato. Nella stessa direzione vanno gli interventi successivi, durante i quali si alternano esponenti dei movimenti e studiosi del calibro di Ugo Mattei, Maria Rosaria Marella, Paolo Maddalena.

Un primo punto di riferimento concreto (altro che fantasticherie!), offerto alle centinaia di partecipanti all'assemblea, sono le sei proposte di legge, inviate di recente a tutti i parlamentari neoeletti. Per il rapporto tra democrazia partecipativa e istituzioni rappresentative, due proposte di legge di portata costituzionale: la modifica dell'art. 21 della Carta, inserendo l'accesso a internet come diritto fondamentale; la riforma dei Regolamenti parlamentari, con l'obbligo per le Camere di discutere in tempi certi le leggi di iniziativa popolare ed il diritto dei promotori di contribuire ai lavori delle commissioni. Per i beni comuni, l'approvazione del disegno di legge partorito nel 2008 dalla commissione Rodotà, da un lato, e della legge di iniziativa popolare su acqua e servizio idrico integrato (portata nel 2007 in Parlamento forte di 400.000 sottoscrizioni, e mai discussa) dall'altro. E ancora: la proposta di legge del B.I.N. (Basic Income Network) Italia sul reddito universale di base; un testo normativo sul fine vita che finalmente porti chiarezza e laicità in una materia così complessa e riguardante l'autodeterminazione delle persone.

Il proposito espresso di simili proposte è di mettere in campo un “lavoro in presa diretta sulle istituzioni”. I movimenti e gli studiosi riuniti al Valle hanno infatti coscienza di quanto il diritto sia vivo ed in grado di mutare attraverso i conflitti, le pieghe profonde della società; perciò rivendicano un ruolo di impulso, pressione e vigilanza. È chiaro l'orizzonte politico sotteso a tale approccio: a fronte della gravità della crisi italiana ed europea (che è economica, ambientale, politica e culturale), non si deve commettere l'errore di considerare le istituzioni definitivamente inaffidabili o inservibili. Al contrario, è necessario giocare fino in fondo la partita delle istituzioni, mettendo l'elaborazione teorica e le pratiche sociali al servizio della creazione di una democrazia sostanziale, fatta di luoghi inclusivi per la cura dei beni comuni, in grado di restituire un senso alle parole “uguaglianza” e “cittadinanza”.

Per perseguire obiettivi così ambiziosi, la Costituente dei Beni Comuni dovrà innanzi tutto rileggere e riscoprire quel capolavoro che è la Costituzione, valorizzandone la lungimiranza e accompagnandola nel futuro. È nella Carta – la celebre Rivoluzione Promessa di Calamandrei – che, qui ed ora, si parla di una proprietà privata legittima solo se accessibile a tutti e rispettosa della sua funzione sociale (art. 42); si prevede la possibilità di affidare a “comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali” (art. 43); si leggono disposizioni pionieristiche in tema di uguaglianza (art. 3), ambiente e paesaggio (art. 9) conoscenza (artt. 33 e 34).

Un patrimonio tanto ricco non può che essere riconosciuto e messo a frutto dall'assemblea del Valle. A partire dalla Costituzione, ad esempio, sono possibili avanzamenti nel lavoro sui beni comuni: una categoria così dirompente deve essere difesa dalla banalizzazione e da ogni uso inflazionato; e se è vero che “l'unica difesa è l'attacco”, risulta allora necessaria una ulteriore chiarificazione del concetto di beni comuni, in vista di un nuovo diritto imperniato sui concetti di accesso, cura e responsabilità.

È quasi divertente, a tal proposito, notare la distanza tra la “responsabilità” professata dal ceto politico italiano negli ultimi diciotto mesi (che responsabilmente ha devastato welfare, lavoro e diritti), e l'idea di responsabilità invocata al Teatro Valle. È finalmente chiaro che l'unica azione politica responsabile è quella che persegue la giustizia sociale ed ambientale, che ha l'ambizione di garantire in concreto l'accesso a beni e servizi direttamente funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali ed alla qualità dei processi democratici.

E così, esempi e spunti concreti si rincorrono nel pomeriggio del Valle. È responsabile la Corte Suprema indiana, che ha negato a Novartis la tutela della “proprietà intellettuale” in nome del diritto alla salute. È responsabile immaginare – come nelle Costituzioni dell'America Latina – un “ecologismo costituzionale”, con veri e propri “diritti della natura” che permettano al diritto di andare oltre un antropocentrismo ingordo ed insostenibile. È responsabile concepire la città come bene comune in sé e per sé, come spazio che deve tornare ad essere vissuto e fruito come prodotto collettivo. V'è tanta responsabilità nel riproporre con forza le questioni del diritto alla casa e del diritto all'abitare: e ciò significa affrontare seriamente la speculazione immobiliare e la rendita fondiaria, individuando – come fa Maria Rosaria Marella – nelle pratiche di occupazione gli “avamposti di una nuova cittadinanza”. Ed è certo responsabile rivendicare, finalmente anche in Italia, un reddito minimo garantito coerente con l'art. 34 3° comma della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (e con gli articoli 2 e 36 della nostra Costituzione), caratterizzato da universalità e sufficiente per un'esistenza dignitosa.

Gli interventi si succedono fino a tardi, la carne al fuoco è moltissima. Al Valle si sono poste le basi per un percorso sociale e politico che potrebbe davvero avere una natura “ricostituente”, e che potrebbe unificare teoria e pratiche di lotta in processi crescenti di presa di coscienza e partecipazione. Si esce dal teatro avendo chiaro – come sostiene Ugo Mattei – che quando il “privato” diventa solo e soltanto “privante” è urgente rifondare le basi del diritto e della convivenza civile, superando il dogma del diritto di esclusione e ponendo al centro la categoria dell'accesso.

A sera, la Costituente dei Beni Comuni si mette ufficialmente in viaggio: già in preparazione nuove tappe; e non sarà un caso se, per esempio, un futuro incontro sarà ospitato a Pisa presso uno stabile industriale abbandonato da anni al degrado e occupato nell'ottobre 2012 dal Municipio dei Beni Comuni.



                                       Rocco Albanese

martedì 16 aprile 2013

I compagni dimenticati del partigiano Primo Levi. La banda dello scrittore fucilò due dei propri membri


 C' è un'«alba di neve» che è entrata nella storia della letteratura italiana: quella del 13 dicembre 1943. Una «spettrale alba di neve» (così viene definita nella seconda edizione di Se questo è un uomo , pubblicata da Einaudi nel 1958), nel corso della quale Primo Levi fu arrestato in Val d'Aosta assieme a Luciana Nissim, Vanda Maestro e ad alcuni partigiani ai quali si era unito da pochi giorni. Nell'edizione di Se questo è un uomo del '58 (nella prima, del 1947, queste pagine non comparivano), Levi, a sorpresa, lascia cadere che il suo arresto, da cui sarebbe per lui iniziato il viaggio alla volta di Auschwitz, fu «conforme a giustizia». «Conforme a giustizia»? In che senso? È da un tentativo di dare spiegazione a quelle tre parole che prende l'avvio uno straordinario libro di Sergio Luzzatto che sta per essere dato alle stampe da Mondadori: Partigia. Una storia della Resistenza .
Vediamo come andarono i fatti. Lì tra i partigiani di Col de Joux, raccontava Levi, «mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona fede e in malafede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente». Così si spiega come mai lui e altri ribelli della prima ora caddero quasi subito in mano ai fascisti. Ma perché definire quella cattura «conforme a giustizia»? «Giustizia», osserva Luzzatto, «non è una parola qualunque, meno che mai nel vocabolario di Primo Levi». E cosa può spiegare poi «una rappresentazione della Resistenza delle origini tanto dissacrante, o comunque tanto dissonante rispetto alla mitologia antifascista sui primi partigiani della montagna»?
Una traccia utile a chiarire il mistero, Luzzatto l'ha trovata in un altro libro di Levi, scritto nel 1975: Il sistema periodico (Einaudi). Qui lo storico resta colpito dal fatto che, sulle 238 pagine del volume, la Resistenza non ne occupi più di quattro. Nel capitolo intitolato «Oro» pochi capoversi sono dedicati alla salita in montagna, alle settimane «d'attesa più che d'azione», alla caduta della banda del Col de Joux, all'arresto dell'autore e di alcuni suoi compagni. E solo due pagine evocano «il trasporto a valle, gli interrogatori subiti nella prigione di Aosta, la decisione del catturato di ammettersi ebreo piuttosto che partigiano, cioè di votarsi alla deportazione verso chissà dove piuttosto che al deferimento al Tribunale militare speciale della Repubblica di Salò». Perché, continua a domandarsi Luzzatto, questa «avarizia narrativa riguardo alla Resistenza»? Ed ecco che in altre righe Luzzatto trova una seconda traccia utile alla sua ricerca. Queste: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere». E ancora: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l'avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente... Adesso eravamo finiti e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c'era uscita se non all'in giù». Così il Levi del 1975 indicava in un episodio del suo partigianato l'origine diretta della sua «caduta negli inferi del Lager».

«Faccio lo storico da trent'anni, ma nessuna ricerca mi ha mai interpellato, appassionato, travagliato come la ricerca su questa storia di resistenza», scrive l'autore. Travaglio che ha implicato un'indagine «sino in fondo» sul «segreto brutto» della banda del Col de Joux. Il «segreto brutto» di Primo Levi. Leggendo tra le righe i libri di Levi, Luzzatto si è imbattuto in una precedente «alba di neve» che, scrive, «non è entrata nella storia della nostra letteratura, o che ci è entrata (più esattamente) in una forma criptata, nel 1975, attraverso le dodici righe del Sistema periodico ». Sono le prime luci del mattino del 9 dicembre 1943, appena sei giorni prima dell'arresto di Levi e degli altri «partigia» (questo era il nome che si davano tra loro uomini e donne della Resistenza in Piemonte e Val d'Aosta, di qui il titolo del libro) della banda di Amay, capitanata da Guido Bachi e da Aldo Piacenza.
Quel giorno, il diciottenne Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato (nome di battaglia «Furio») e il diciassettenne Luciano Zabaldano di Torino (nome di battaglia «Mare») vengono fatti uscire da una baita di Frumy e uccisi dai loro compagni con il «metodo sovietico», cioè a freddo, senza annunciar loro la morte imminente. L'imputazione - assai generica per quel che è dato ricostruire - è di essersi comportati male con i valligiani e di aver rubato. «Non c'è un processo istruttorio che li accusi di un reato preciso, non ci sono documenti che rimandino alla condanna, e allora l'accusa che li riguardava poteva essere anche diversa, in ogni caso aveva a che fare con l'indisciplina e con azioni che mettevano a rischio l'incolumità degli altri componenti della banda, intaccando la possibilità di guadagnare fiducia presso gli abitanti del luogo, di cui si aveva un bisogno estremo», ha raccontato recentemente Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), dove si parla di quella «storia taciuta» della Resistenza. Si tratta in ogni caso di una «punizione» inflitta ai due giovani che, prosegue Sessi, «le fonti storiche disponibili autorizzano a ritenere smisurata rispetto all'entità delle colpe di cui Oppezzo e Zabaldano potevano essersi macchiati».

Per Levi quello dell'uccisione a freddo di Oppezzo e Zabaldano è un evento traumatico. «Fra le due albe», scrive Luzzatto, «si consuma l'intero destino della banda del Col de Joux, perché l'esecuzione della sentenza lascia Levi e i compagni distrutti, desiderosi che tutto finisca e di finire essi stessi». Spegne in loro, secondo il Levi di oltre trent'anni dopo, «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Nessuno sa se Primo Levi il 9 dicembre 1943 «fosse salito dall'albergo Ristoro verso il Col de Joux, se avesse contribuito a scavare le due fosse»: «Immagino di sì», afferma Luzzatto, «perché risulta che le due donne di Amay, Luciana Nissim e Vanda Maestro, fossero state fatte allontanare dal luogo dell'esecuzione; il che induce a credere che gli uomini fossero presenti... Immagino di sì anche perché il numero dei componenti della banda era talmente ridotto (Levi ne conterà dodici in totale, donne comprese) da suggerire che tutti gli uomini abbiano dovuto spalare la neve abbondante e scavare la terra ghiacciata dove tumulare senza bara i corpi dei due uccisi». E poi c'è una spiegazione che Luzzatto deriva dall'esegesi di una poesia di Levi, «Epigrafe», scritta nel 1952, e inclusa nella raccolta del 1975 Ad ora incerta , in cui lo scrittore torna ad alludere all'episodio con i toni di chi ne ha avuto esperienza diretta.
È questo il «cuore di tenebra» della storia: la banda del Col de Joux - che fino al 9 dicembre non aveva compiuto «alcuna azione resistenziale di rilievo» e che di lì a quattro giorni, il 13, sarebbe stata facilmente sgominata dai rastrellatori di Salò - «poté risolversi a far scorrere il sangue di due compagni come un atto dovuto di giustizia», scrive Luzzatto. «La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente gravi», prosegue, «ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia». Tabù violato solo dalla letteratura, con i personaggi, ad esempio, del Vecchio Blister di Beppe Fenoglio o di Morti male di Saverio Tutino. Ma la nostra storia è ancora più complicata.
Finita la guerra, Oppezzo e Zabaldano furono «risarciti» con la loro trasformazione in «eroi trucidati dai fascisti». Nell'Albo d'oro della Resistenza valdostana, su un totale di 186 caduti durante i venti mesi della guerra civile, solo tre sono i nomi dei partigiani uccisi nel 1943. E due di questi tre sono quelli di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, che la pubblicazione presenta pudicamente come «deceduti». A guerra appena conclusa, aveva provveduto il capo partigiano Guido Bachi a far ricadere in qualche modo sulla spia fascista Edilio Cagni la responsabilità della loro morte. Nel suo «Verbale di denunzia» contro Cagni, Bachi sostiene che era stato il traditore a suggerire di far fuori nel modo «più sbrigativo» i refrattari alla disciplina. L'antifascista Bachi ne parlava come se i brutali sistemi suggeriti dal fascista Cagni «non fossero stati diligentemente applicati, almeno quella volta, dai partigiani del Col de Joux». «Da storico dei partigia», denuncia Luzzatto, «leggo e rileggo la denuncia di Bachi e mi dico che il dopoguerra di una guerra civile è pure questo: un redde rationem in cui si può imputare ai vinti anche quanto commesso dai vincitori».

Quanto ai due partigiani uccisi, la «riparazione» procedette nel dopoguerra per vie separate. Zabaldano già nel maggio del 1946 fu riconosciuto dalla Commissione regionale piemontese per la Resistenza come un «partigiano caduto valorosamente con onore e gloria nella Lotta di Liberazione per l'onore d'Italia, per la Libertà e per una migliore Giustizia sociale nel Mondo» (le maiuscole sono nel documento), senza che si avvertisse l'obbligo di specificare chi l'avesse ucciso. Ma, scrive Luzzatto, «a me che dopo aver tanto studiato gli eventi del Col de Joux guardo oggi la foto del monumento a quei caduti sullo schermo del computer, il silenzio della lapide intorno al segreto brutto non sembra corrispondere - in ultima istanza - a una forma di occultamento, e meno che mai a una bugia... Non va forse considerato anche lui, il diciassettenne che nell'ultima sera della sua vita, all'albergo Ristoro di Amay, aveva manifestato idee comuniste, un martire della Resistenza?». E qui sono particolarmente intense le pagine di Partigia dedicate al racconto di un recente incontro tra l'autore e un nipote di Zabaldano, Davide, il quale spiega perché, pur avendo intuito cosa accadde a Col de Joux in quelle prime ore del 9 dicembre del '43, non ha voluto riaprire il caso: «Vorrei soltanto capire che cosa è successo e perché», gli dice. Per il resto, niente scandali postumi, è sufficiente il risarcimento del 1946.
Più complicata la storia post mortem di Fulvio Oppezzo, che deve il suo recupero a un prete del suo paese, don Ferrando, e alla madre («una specie di professionista del lutto», scrive Luzzatto, che «insisteva con tutti, batteva a tutte le porte affinché al figlio venisse intitolato un qualche luogo di memoria»). Operazione riuscita. Tant'è che oggi anche a lui sono intitolate - sia pure con un nome sbagliato, «Opezzo» (senza una p) - una piazza e una scuola di Cerrina Monferrato.
Ma torniamo al protagonista di questo racconto. Una storia particolare, quella del ventiquattrenne ebreo Primo Levi, dalla Resistenza ad Auschwitz. Nell'agosto del 1943, Levi era stato in vacanza a Cogne. Poi aveva deciso di prolungare la sua permanenza in montagna, all'albergo Ristoro di Amay assieme alla madre e alla sorella, in attesa che le cose, dopo l'armistizio dell'8 settembre, si chiarissero. Allora non c'era la percezione di quel che sarebbe potuto accadere: «Pare che la situazione ebraica continui a migliorare», scrive in quei giorni sul suo diario Emanuele Artom, sulla base del fatto che il governo Badoglio aveva abrogato il divieto agli israeliti di pubblicare necrologi, di tenere a servizio «domestici ariani», di frequentare le stazioni di villeggiatura.

In quel momento i pericoli corsi dagli ebrei erano qualcosa di «assolutamente evidente, ma anche di amministrativamente impreciso», scrive Luzzatto. Almeno fino al 30 novembre, quando il ministero dell'Interno della Repubblica sociale italiana diramò l'ordine di polizia numero 5, che ne disponeva l'arresto. Certo, già a metà settembre, il suo zio paterno e suo cugino, Mario e Riccardo Levi, erano stati (assieme ad altri loro correligionari) arrestati e uccisi dai tedeschi sulle rive del Lago Maggiore. Ma lì in montagna, fino al 30 novembre, ci si sentiva quasi al sicuro. Anche se le persone del luogo avevano individuato in quelli come Levi «un'insperata opportunità economica, essendo gli ebrei tanto più disposti a pagare per il vitto e l'alloggio in quanto non facevano turismo ma lottavano per la sopravvivenza». Sicché quei valligiani imposero loro quelle che Luzzatto definisce «tariffe di ospitalità indistinguibili dallo strozzinaggio». Poi, dopo l'ordine di polizia numero 5, per gli ebrei «il problema della scelta si restrinse a un'alternativa secca: o nascondersi da qualche parte, o diventare partigiani... e la secchezza dell' aut aut contribuisce a spiegare perché gli italiani di origine israelita infoltirono i ranghi della Resistenza ben al di là della loro proporzione numerica sul totale della popolazione nazionale».
Va dunque chiarito che Primo Levi, pur essendo già schierato da almeno un anno contro il fascismo, «non era salito in montagna per votarsi senza indugio alla macchia e alla guerriglia, poiché sarebbe stato illogico farlo portandosi appresso la sorella minore e la madre cinquantenne; né era salito per rispondere alla chiamata ideale di una resistenza antifascista, poiché una chiamata del genere si era a malapena sentita all'indomani immediato dell'8 settembre, la resistenza degli uni o degli altri non era divenuta da subito una Resistenza con la lettera maiuscola». Ed è, dunque, in conseguenza all'ordine di polizia numero 5 che, ai primi di dicembre, Levi si unì alla banda partigiana. Per un'esperienza durata pochi giorni, quelli che intercorsero prima che fosse preso dai soldati della Rsi e tornasse a essere soltanto un ebreo.

Ma perché, una volta catturato, si dichiarò ebreo? Aldo Piacenza (arrestato con Levi, poi fuggito e tornato a combattere nella Resistenza) -, un uomo che pure, osserva Luzzatto, «durante la campagna di Russia aveva assistito con i suoi occhi a terribili scene di Soluzione finale del problema ebraico» - poteva ancora ritenere che Primo Levi rischiasse conseguenze più gravi da partigiano attivo che da ebreo nascosto, «da ribelle più che da imbelle». Da ebreo «imbelle», in altre parole, pensava di correre rischi minori. Non poteva credere che «l'occupazione tedesca avesse reso l'Italia di Salò un territorio di caccia analogo all'Europa orientale, un luogo come un altro della geografia continentale dello sterminio». Sicché Piacenza «poteva illudersi di far cosa generosa insistendo sulla condizione di israelita dell'amico, e presentandolo ai saloini come totalmente innocuo dal punto di vista politico e militare». E gli uomini stessi della Repubblica sociale «potevano, al limite, accomodarsi nell'ambiguità della situazione... Potevano non farsi troppe domande sul destino degli ebrei arrestati e avviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi». Così il 20 gennaio del 1944, Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro - per volontà anche e soprattutto del prefetto Cesare Augusto Carnazzi - partirono da Aosta alla volta di Fossoli, tappa intermedia sulla via di Auschwitz.
Per gli altri, rimasti in montagna, la guerra continuava. Quello del 1944 fu un inverno di azioni militari. Nell'estate, dopo la liberazione di Firenze in Italia, di Parigi e Marsiglia in Francia, da noi a Nord si continua a combattere. La piega che ha preso la guerra nel mondo infonde «nuova energia agli uomini delle bande», però maschera appena «la debolezza di zone libere, sì, ma isolate»: sono «enclaves antifasciste in una Valle d'Aosta che resta saloina e germanica lungo l'asse principale».
Va detto che «la libertà dei partigiani non coincide necessariamente con quella dei valligiani». Come potrebbero questi ultimi «ritenere libere zone dove i viveri sono prelevati forzosamente, gli animali vengono requisiti, i beni più preziosi (i grassi, il sale, la legna per l'inverno) vengono gestiti dai ribelli nemmeno fossero roba loro»? E come potrebbero guardare con favore a guerriglieri i quali, attaccando i tedeschi e i fascisti, ne provocano le sanguinose rappresaglie?

L'estate del 1944 «segna così un massimo di espansione territoriale del movimento partigiano, ma anche un contrasto sempre più acuto fra il grosso delle popolazioni montanare e quanti un professore ribelle in Valtournenche, Ettore Passerin d'Entrèves, prima ancora della Liberazione definirà (mettendoci lui le virgolette) gli "idealisti", i "pochi eletti"». Passerin d'Entrèves descriveva quella del «partigia», soprattutto nel «tragico autunno» del 1944, come una «tragica figura» alla Don Chisciotte. «Il vile buon senso dei più», scriveva, «tende decisamente a disapprovare la "follia" dei pochi che impegnano la gioventù in disperate avventure». Questo per mesi e mesi di combattimenti.
Finché arriva il 25 aprile del 1945, la Liberazione. Finita la guerra, si è costretti a registrare, scrive Luzzatto, «il sovrappiù di rabbia, di odio, di brutalità documentato dalle cronache di quella primavera italiana, il dantesco contrappasso che venne inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Queste le parole che usa Luzzatto: «contrappasso inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Nell'Italia della Liberazione, prosegue, «la vendetta era tanto assaporata quanto per un quarto di secolo era stata sospirata la giustizia». E a essere brutalmente passati per le armi non furono solo coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò. La liberazione di Casale, ricorda Luzzatto, costò cara, per esempio, a Mario Acquaviva, «un antifascista di lungo corso - da comunista si era fatto anni di galera sotto il regime di Mussolini - che pagò con la vita la sua dissidenza dal partito di Togliatti, e il suo ruolo di dirigente in una piccola compagine trockijsta, il Partito comunista internazionalista». L'11 luglio del 1945, Acquaviva fu raggiunto per strada, vicino alla stazione ferroviaria di Casale, da due killer a volto scoperto che gli spararono al torace e all'addome. Gli assassini non vennero mai identificati, ma, scrive Luzzatto, «si ha ragione di ritenerli sicari operanti per conto del Pci astigiano».

Siamo dunque a Casale Monferrato, che è un po' la retrovia di questa storia. Da Casale a fine ottobre del 1943 si erano mossi i fratelli Francesco e Italo Rossi, che, assieme a Guido ed Emilio Bachi, avrebbero acceso la miccia della Resistenza nell'intera regione. Da Casale il comandante della piazzaforte germanica, Wilhelm Meyer, aveva ordinato l'8 ottobre del 1944 l'eccidio di Villadeati, in Valcerrina. A Casale, a metà gennaio del 1945, sarebbe stata sgominata e trucidata dai nazisti la banda partigiana di Antonio Olearo (nome di battaglia, «Tom»). A Casale nel settembre del 1947 un gruppo di ex partigiani avrebbe occupato la città per protesta contro la mancata condanna a morte degli uccisori di «Tom». «Indomiti o ingenui, risoluti o patetici, i casalesi provarono a fare come se la Resistenza non fosse ancora finita», scrive Luzzatto recuperando le vivide descrizioni dei fatti del '47 di Giovanni Giovannini sulla «Stampa». E da Casale viene quel Giampaolo Pansa (che ha raccontato come da bambino vide l'ingresso in città del capo partigiano Pompeo Colajanni, «aspetto fiero e splendidi baffi», talché lo scambiò per uno dei moschettieri, Porthos) con le cui tesi Sergio Luzzatto si misura in modo sorprendentemente aperto. Sorprendentemente perché Luzzatto, che ha sempre duramente contrastato l'autore del Sangue dei vinti , tratta adesso Pansa con grande rispetto e considerazione.
A ridosso della Liberazione, scrive Luzzatto, tutto finì, secondo la «vulgata revisionista», in «un calderone di vendette individuali e collettive, punizioni infamanti, esecuzioni sommarie, stragi nascoste dove nulla si inventa (almeno sotto la penna di Pansa, che ha rispetto per la storia), ma dove tutto si somiglia, senza considerare la specificità dei contesti che resero ciascun episodio della primavera 1945 diverso da ogni altro». Laddove è evidente che si opera una distinzione tra la «vulgata» e gli scritti di Pansa, ai quali va un riconoscimento che più esplicito non si potrebbe. Dunque, scrive uno studioso animato in partenza da devozione alla «vulgata resistenziale», negli scritti di Pansa «nulla si inventa» e, soprattutto, c'è «rispetto per la storia». Una mano tesa. Un modo di (provare a) superare gli schieramenti che da oltre dieci anni si sono creati sui modi di raccontare quel che accadde dopo il 25 aprile.

È lo stesso Luzzatto a riferire di essersi a lungo interrogato sul «fenomeno Pansa» come «sintomo di una crisi dell'antifascismo». Sintomo di cui ha rinvenuto traccia «insegnando all'università, trovandomi di fronte studenti sempre più equidistanti, estranei ai valori dell'antifascismo quasi altrettanto che ai disvalori del fascismo». È stato il «fenomeno Pansa» a determinare in lui «l'intenzione di misurarmi - da figlio e da padre, da cittadino e da insegnante - con questo snodo della moderna storia d'Italia, con il dramma della nostra guerra civile». E lo ha fatto andando, proprio, a scavare in quelle pieghe della storia che negli ultimi venti anni hanno attirato l'attenzione di Giampaolo Pansa.
Interessanti, in questo quadro, sono le pagine dedicate ai processi del dopoguerra contro l'ex prefetto Cesare Augusto Carnazzi, che trovò, disposte a difenderlo, molte persone insospettabili di connivenza con i nazifascisti. Come Guido Usseglio, primario alle Molinette, capo partigiano in val Sangone, che, quando gli avevano arrestato il fratello Sebastiano, era andato da Carnazzi per farlo liberare (ciò che aveva ottenuto), trovandolo «una figura aperta, leale, buona», e avendo la sensazione di potersi «fidare di lui». Ancor più colpito è l'autore di Partigia dall'aver rinvenuto in archivio, «dopo aver maturato una mia idea di Carnazzi come funzionario antisemita se non come antisemita militante», una lettera del 7 agosto 1945 di sette componenti della famiglia ebraica Gerber, che attestavano «con cuore commosso» la loro «perenne gratitudine» a Carnazzi per aver ottenuto la revoca della condanna a morte di uno dei figli, il ventiduenne Ladislao, atto che definivano «la sua opera buona e generosa con la quale ha salvato la vita di un giovane e ciò senza alcun interesse ma solo per grande bontà». «Il partigiano ebreo salvato dal prefetto antisemita: sembra una storia inventata, ma non lo è (o non lo è del tutto)», quasi si sorprende Luzzatto.

Curiose furono anche le condizioni in cui il 4 maggio del 1946 si svolse il processo a Cagni, l'uomo che aveva tradito Primo Levi e lo aveva fatto arrestare. Processo a dir poco frettoloso: i testimoni, riepiloga Luzzatto, «deposero a un ritmo tale che non sempre i cancellieri ebbero il tempo di registrarne correttamente le generalità». Giuseppe Barbesino, che accusava Cagni di averlo torturato, figura negli atti del dibattimento come «Barbesino Vincenzo», sindaco di Gerolamo d'Alba, un paese che non esiste. L'avvocato Camillo Reynaud, che aveva creato la banda di Col de Joux, fu identificato come «Reynaud avv. Vincenzo». Luciana Nissim, figlia di Davide, divenne «Nissi Luciana di Domenico», e le furono attribuiti 33 anni invece dei 26 che aveva. Anche a Primo Levi, all'epoca ventiseienne, l'età fu aumentata a 32 anni e il suo mestiere di chimico fu trasformato in quello di «ingegnere».
«Decisamente la storia aveva fretta, nell'aula del Tribunale di Aosta, fra il mattino e il pomeriggio di quel sabato primaverile», scrive Luzzatto. Fretta di punire in un primo tempo, di dimenticare poi. In mezzo c'era stata, il 22 giugno del 1946, l'amnistia voluta dal guardasigilli, nonché leader del Pci, Palmiro Togliatti. Profondamente diverso è il paesaggio dei dieci anni successivi alla Liberazione. «Un decennio abbondante», scrive Luzzatto, «durante il quale l'aver combattuto per la Resistenza poté sembrare, allo sguardo di un numero imprecisato di italiani, un titolo di demerito piuttosto che di merito... Anche perché la scommessa azzardata dal segretario comunista Togliatti attraverso l'amnistia - competere con la Democrazia cristiana sul terreno di un'integrazione politica degli ex fascisti - si ritorse contro il movimento resistenziale, avendo suggerito una forma di equiparazione giudiziaria tra collaborazionisti di Salò e partigiani delle montagne, cosa che legittimò presso l'opinione pubblica moderata un'immagine della guerra civile quale scontro fra due fazioni analoghe per natura, se non comparabili per sistemi di valori».

Così Cagni viene condannato una prima volta (1946) a morte, una seconda (1947) a trent'anni, una terza (1949) a venti, e poco dopo (1950) può uscire di galera. Luzzatto dimostra che, però, anche quando avrebbe dovuto essere in prigione, nella seconda metà degli anni Quaranta, in realtà Cagni si muoveva da uomo libero, con il nome di «Sognatore italico», per riorganizzare i fascisti, in combutta con i servizi segreti alleati. Dopodiché, «maestro consumato del doppio o del triplo gioco, mostro romanzesco di bravura e di perfidia», Cagni riesce a eclissarsi, pur se qualche sua traccia si rinviene ancora negli anni Settanta. È una storia a un tempo normale ed eccezionale di un «collaborazionista scampato alla giustizia dei fucili e consegnato alla giustizia delle toghe». E da queste messo in condizioni di tornare in libertà, sparire e farsi arruolare, come ai tempi del «Sognatore italico», da nuovi padroni.

                                                                      PAOLO MIELI












Fonte: Corriere della Sera







PRIMO LEVI: L'Ossessione la Colpa e la Controversa strada della Storia


Non sono molti i libri che diventano un caso editoriale ancor prima di essere esposti sui banconi delle librerie. Partigia. Una storia della Resistenza, scritto dallo storico Sergio Luzzatto (edito da Mondadori), è stato al centro di polemiche e critiche assai severe formulate in alcuni casi da censori che, per loro stessa ammissione, non avevano ancora letto il libro.
Partigia - nel dialetto piemontese - descrive quei combattenti della Resistenza particolarmente decisi, spregiudicati nell'uso delle armi, a cui Primo Levi dedicherà una poesia nel 1981.
Il grande narratore di "Se questo è un uomo" è il grande protagonista della storia narrata con critica passione da Sergio Luzzato, che con pazienza e mestiere di storico di vaglia, ricostruisce nei particolari l’esperienza partigiana di Primo Levi, prima della sua cattura sui monti della Valle d'Aosta e la successiva deportazione ad Auschwitz, via Fossoli.
Una breve e dolorosa storia partigiana a cui Levi dedicherà pochissime pagine dei suoi libri, quasi a voler dimenticare un'esperienza che lo segnò profondamente, anche in ragione della fucilazione di due partigiani da parte dei loro stessi compagni, poi trasformati nella "memoria dei vincitori" in altrettante vittime della repressione nazi-fascista.
Il lavoro di Sergio Luzzatto ha il pregio di raccontare l'avventura della piccola banda in cui, senza un vero e proprio progetto meditato, Levi finirà per aggregarsi nelle settimane convulse che seguiranno l'8 settembre 1943, senza usare la lente deformante di certa retorica post-resistenziale, che non pochi danni ha arrecato a una corretta e feconda trasmissione della memoria tra le generazioni.
Il lettore viene accompagnato passo passo nel micro-cosmo delle prime bande dei ribelli, per lo più composte da soldati sbandati dopo l'armistizio, da giovani renitenti alla leva e da (pochi) coraggiosi esponenti di un antifascismo che, nonostante il dramma della guerra, continuava a rappresentare una esigua minoranza della popolazione italiana.
L'episodio della fucilazione di due partigiani per mano dei loro compagni a au con ogni probabilità di piccoli furti a danni degli abitanti del luogo, secondo la ricostruzione storico-letteraria di Luzzatto, avrebbe ossessionato Primo Levi per tutta la sua esistenza, anche se non vi sono prove su di un suo coinvolgimento materiale e diretto nel triste episodio.
"Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto - scrive Levi nel suo Sistema periodico - lo stesso segreto che ci aveva esposto alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza a eseguire una condanna, e l'aveva eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci tra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda a esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c'era uscita se non all'ingiù".
Prendendo spunto da quanto accadde nel tardo autunno del ’43 in Val d'Ayas, poco sopra l'abitato di Sant Vincent, Luzzatto inizia un viaggio di oltre 300 pagine per dare un volto a tutti i personaggi della storia, protagonisti di entrambi i fronti, quello dei primi ribelli partigiani contrapposto alle spie e agli infiltrati del sistema di repressione attivo in Valle d'Aosta sotto il regime della Repubblica Sociale Italiana.
L'accusa che è stata rivolta al lavoro di Luzzatto è quella - in estrema sintesi - di essersi prestato a una delle periodiche operazioni revisioniste, sulla scia dei grandi successi editoriali dei libri di Gianpaolo Pansa. Una accusa che francamente non ci sentiamo di condividere, non soltanto per la stima intellettuale nei confronti dell'autore e l’apprezzamento per i suoi saggi precedenti, ma perché la passione verso il protagonista del racconto, Primo Levi e per la storia con la S maiuscola della Guerra di Liberazione, sono state erroneamente scambiate per uno dei tanti, maldestri tentativi di demolizione del mito resistenziale, prodotti dalla vulgata revisionista.
Al contrario, Luzzato con la sua straordinaria capacità di rimettere a loro posto tutti i tasselli di episodi oramai sepolti dal lento trascorrere del tempo e dalla scomparsa dei diretti protagonisti e testimoni degli eventi, prova a restituire una memoria viva della Resistenza, combattuta da uomini veri, coraggiosi ma non necessariamente eroi, protagonisti di una ribellione generazionale contro un regime che avevano scoperto dopo il 25 luglio 1943 profondamente diverso da quello che gli era stato decantato e inculcato a scuola e nelle adunate dei balilla e delle giovani italiane; giovani incerti e frastornati più che "macchine da guerra" che agiva sulla base di una profonda e matura coscienza antifascista.
Raccontare la storia delle prime bande, dell'arrivo in formazione - talvolta spinto dagli eventi più che da una scelta meditata - di ragazzi nati, cresciuti e educati sotto il fascismo che si ribellavano al sistema e alla società dell'epoca più ancora che al regime fascista in quanto tale, non rappresenta un’operazione revisionista, ma, al contrario, un omaggio alla passione e al coraggio di quei giovani e giovanissimi ribelli, che - fuor di retorica - contribuirono al riscatto della Nazione. 


Fonte: www.linkiesta.it/partigia-luzzato#ixzz2UDfPUJCO






  

Avrei validi motivi per tenermi il disagio e non scriverne: le confidenze sulla sua fatica di vivere che Primo Levi mi aveva concesso; la familiarità con il paese di Cerrina, in Monferrato, dove Fulvio Oppezzo viene ancora ricordato come giovane martire della Resistenza anziché vittima di giustizia sommaria, mitragliato di spalle insieme a Luciano Zabaldano, per opera di un capo della piccola banda partigiana in cui militava lo stesso Primo Levi, all’alba del 9 dicembre 1943 su un campo innevato del Col de Joux, sopra Saint-Vincent; la tessera dell’Anpi conferitami a Casale Monferrato dai superstiti di quella stagione, giustamente preoccupati che ancora si voglia infangare la loro scelta antifascista; e da ultimo mettiamoci il ritorno a Auschwitz-Birkenau, solo dieci giorni fa, per accompagnare i miei figli là dove Levi sopravvisse fortunosamente per undici terribili mesi mentre la maggioranza dei suoi compagni di sventura venivano eliminati.

Mi forzo a scrivere, invece, per interrogarmi sulla natura dell’”ossessione” di Sergio Luzzatto che quell’episodio drammatico lo scruta in più di trecento documentatissime pagine; traendone, lui storico autore dell’Einaudi, un volume edito da Mondadori perché la casa editrice torinese che fu di Primo Levi non se l’è sentita di pubblicarlo: “Partigia.
 Una storia della Resistenza”

Mi permetto di adoperare il termine “ossessione” sapendo che l’autore non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico –le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate- sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale.

Dunque Luzzatto dichiara di provare “ossessione”, “curiosità”, “passione” per la Resistenza. 

Un’ossessione, precisa, acuitasi dacchè dilaga il “fenomeno Pansa”, cioè il successo dei libri che Giampaolo Pansa dedica al sangue dei vinti, da lui citati “come sintomo di una crisi dell’antifascismo”.

Non basta.

 Luzzatto dichiara, testuale, “un’altra mia ossessione” per la figura di Primo Levi.

 Quasi che un impulso morboso lo spingesse a misurare fino a dove giunga la sua capacità di “devozione civile” e di “venerazione letteraria” per il testimone, l’intellettuale rigoroso, lo scienziato che attraversato l’inferno non smette di ammonirci: scegli il raziocinio, diffida dalla visceralità anche nella scrittura.

Ecco allora Sergio Luzzatto afferrare un passaggio cruciale del “Sistema periodico”, cioè l’unico libro in cui Levi descrive la sua breve esperienza di partigiano antifascista nell’autunno 1943, prima di essere catturato con Luciana Nissim e Vanda Maestro, ebree come lui e insieme a lui deportate a Auschwitz. 

Sono dodici righe che descrivono lo stato d’animo del ventiquattrenne Levi e degli altri maldestri partigiani catturati il 13 dicembre 1943 nel corso di un rastrellamento, pochi giorni dopo la condanna a morte di Fulvio Oppezzo, 18 anni, e Luciano Zabaldano, che neppure li aveva ancora compiuti. Si trovano nel capitolo intitolato “Oro” e conviene riprodurle per intero:
Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù”.

Cosa pretendere di più, in sincerità e tormento? 

Primo Levi al tempo stesso riconosce qui, per ragioni di “nostra coscienza”, la condivisione di una sentenza –per indisciplina grave, minacce armate, forse anche un furto - e l’abiezione che ne derivò.

 Con un mitra Beretta furono abbattuti alle spalle, e poi sepolti, due ragazzi sbandati che le circostanze avevano reso incompatibili con le regole della guerra partigiana.

 Una tragedia ripetutasi più volte in quella come nelle altre guerre, l’atrocità del fuoco amico ricoperta quasi sempre dal velo della reticenza. 

Non dimentichiamo la fisionomia razionale che percorre l’intera testimonianza di Primo Levi, anche nei resoconti del lager, là dove neanche una singola figura di boia sterminatore s’è concesso di enfatizzare, scegliendo la chiave della compostezza anche di fronte all’inenarrabile.


Spiace che Luzzatto si avventuri in una contestualizzazione della presunta autocensura di Levi motivandola con la pubblicazione del “Sistema periodico” nell’anno 1975, cioè nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza.

 Adopera qui anch’egli il termine dispregiativo “vulgata resistenziale” che tanto gratifica gli iconoclasti (già me li vedo intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah).

 Ipotizza cioè che Levi abbia pagato “pedaggio” –che parola!- perché all’epoca non era consentito presentare la Resistenza come fenomeno in chiaroscuro, dovendosi separare nettamente i torti dalle ragioni.

 Così, lungo tutto il corso della sua ricerca di microstoria –dalla morte assurda di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano alle contraddizioni interne al movimento partigiano fra Casale Monferrato e la Val d’Aosta; dall’indulgenza di cui godranno nel dopoguerra i fascisti artefici del rastrellamento fatale, all’impegno di testimonianza in cui si cimenta Levi non appena tornato in Italia nell’ottobre 1945 (Vanda Maestro, catturata insieme a lui, morirà a Auschwitz) - sempre è sul concetto di ambiguità che indugia Luzzatto.

Credo possa ritrovarsi qui la radice delle due “ossessioni” dell’autore per la Resistenza e per Primo Levi, quasi che di fronte a eventi e personalità cui deve alcuni punti fermi della sua formazione culturale, gli risultassero troppo stretti i panni dello storico per addentrarsi nei misteri della natura umana.

 E’ come se Luzzatto avvertisse il bisogno di rivolgere contro Primo Levi la teoria della “zona grigia”, magistralmente teorizzata ne “I sommersi e i salvati” da quest’ultimo, riducendola a logora metafora sulle infinite sfumature tra il bianco e il nero.

 E’ certo avvincente il suo racconto dei partigiani e dei loro persecutori tra le valli alpine e la pianura, ma non aggiungerebbe nulla di nuovo sul piano della ricostruzione storica e del giudizio morale, non sfiorasse in veste di comprimario marginale uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento.


E’ sulla personalità tormentata di Primo Levi, alla fine, non accontentandosi della sua rigorosa testimonianza, che l’autore si concentra.

 Per dimostrare cosa?

 Luzzatto rintraccia l’eco tragico di quell’alba valdostana in alcuni cenni iniziali di “Se questo è un uomo”; e poi nell’amarezza della poesia dedicata da Levi ai Partigia, il termine gergale con cui in Piemonte venivano chiamati i combattenti antifascisti

Diretta è, infine, l’analogia fra l’episodio di “giustizia sovietica” (parole di Luzzatto) perpetrato il 9 dicembre 1943 sul Col de Joux e l’eliminazione del giovane ribelle Fedja ad opera della banda partigiana ebraica di Ulybin, così come Levi l’ha narrata nel romanzo “Se non ora, quando?”.

Quali conseguenze dovremmo noi osare trarne, vincendo il disagio e abusando dell’indiscrezione, sulle scelte di vita (o perfino di morte) di Primo Levi? 

Stiamo parlando di un intellettuale sempre misurato nei suoi giudizi storici, a costo di tenersi dentro il suo tormento, proprio perché sentiva il dovere di restituire un giusto senso delle proporzioni agli avvenimenti immani di cui era stato testimone.

 Quel trauma vissuto prima della deportazione, trentadue anni dopo inciso sinteticamente ma senza autoindulgenza nel “Sistema periodico”, Levi aveva buone ragioni per ritenere non dovesse schiacciare la prospettiva della sua opera complessiva.

 Non possono essere ingrandite, quelle dodici righe del capitolo “Oro”, pur con il dramma che custodiscono, fino a oscurare la scelta partigiana così come Levi la descrive nella pagina precedente, con la medesima, magistrale asciuttezza: “Nel giro di poche settimane (dopo lo sbarco alleato in Nord Africa e la vittoria russa a Stalingrado) ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna”.

Così anche Primo Levi è divenuto per noi, e resterà, un maestro.




                     Gad Lerner
    
                                                                                                           

  

Fonte: "LA REPUBBLICA"