lunedì 7 luglio 2014

Ucraina, genesi di un conflitto





Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta.

Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica.

L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata.


 Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”.

Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.

Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali.

 E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev?

Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina.

 Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta.

 Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich.

In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.

Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale.

Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica.

Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.

L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev.

Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale.

 La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo.

L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli).

 Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra.

Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov.

 Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione.

Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese.

Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale.

 Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.

È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale.

 Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio.

Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.

L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia.

Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio.

Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est.

 L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana.

Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti.

La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%.

 Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.

È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco.

 C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca.

La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.



                                                                                       Rossana Rossanda


FONTE:  da sbilanciamoci.info

martedì 1 luglio 2014

L'INDIFFERENZA UCCIDE PIU' DEL MARE





Il 30 giugno 2014, il giorno stesso in cui si consumava l’ennesima strage nel Canale di Sicilia (trenta morti asfissiati nella stiva di una nave), con involontario senso dell’umorismo nero, il “nostro” Renzi ci invitava all’euforia per il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. 
Anche voi, scriveva, dovreste provare un brivido di piacere per essere chiamati (noi?) a realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
 Un capo di governo sobrio e degno del suo ruolo avrebbe sollecitato i cittadini e le cittadine al cordoglio per le vittime, annunciando un giorno o solo un minuto di lutto nazionale.

La verità è che non commuove più, neanche per un giorno, la teoria quasi quotidiana dei cadaveri restituiti dal Mediterraneo o persi nei suoi abissi.
 Oppure, come quest’ultima volta, intrappolati in imbarcazioni troppo anguste per contenere tutta l’ansia di salvezza di esseri umani travolti dal disordine mondiale, spesso favorito o provocato dalle grandi potenze.
 Quel disordine ha costretto ben 51 milioni di persone (è un dato della fine del 2013) a fuggire da conflitti armati o altre crisi gravi, come ha ricordato l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.

Questa cifra, la più alta dalla fine della Seconda guerra mondiale, è costituita per la metà da bambini. 
Ma neppure il loro numero crescente, fra salvati e sommersi, muove a compassione collettiva, tale da farsi indignazione pubblica e protesta organizzata, di dimensione e forza continentali, contro la fortezza europea.

Neppure le iniziative di movimento, coraggiose ma ancora sporadiche – come la recenteFreedom March di rifugiati e migranti, che, con il No Borders Train, ha violato le frontiere per giungere a Bruxelles – ce la fanno a competere col mare d’indifferenza che riduce questa tragedia a vile computo di salme.
 Computo erroneo, oltre tutto, almeno da parte delle istituzioni, se è vero che per le salme mancano persino le celle frigorifere e per i superstiti il minimo dell’accoglienza. 

E v’è chi volge il dramma a proprio vantaggio politico. 
Alludo all’ondata nera dei partiti che in tutt’Europa s’ingrassano di risentimento, allarmismo e xenofobia, in Italia rappresentati degnamente da Salvini e i suoi compari, leghisti e non. 
Sono quelli che un tempo incitavano a sparare sui barconi dei migranti e oggi s’indignano che Mare Nostrum si adoperi a salvare vite umane, ripetendo il vecchio mantra da analfabeti “Fermiamo le partenze, aiutiamoli a casa loro”.
 Fingono d’ignorare che le “loro case” bruciano e che perciò è impossibile impedire loro di provare a sfuggire all’incendio. 
E, per usare un’altra metafora, presa in prestito da Furio Colombo, “dire che salvare chi è in pericolo in mare incentiva gli sbarchi è come dire che un ospedale incentiva la malattia”.

Mi riferisco anche alla retorica di Renzi e Alfano contro l’Unione europea cinica e bara, “che ci lascia soli e lascia morire le madri con i bambini”. 
Intanto il ministro dell’Interno – è notizia di questi giorni – lascia morire di disperazione una madre strappata ai cinque figli, quattro dei quali minorenni, per essere ristretta in un Cie e poi “rimpatriata” – lei apolide, in Italia da vent’anni – in una “patria”, la Macedonia, di cui non è cittadina.

Anche noi, ridotti all’impotenza, ricorriamo alle cifre per tentare di scuotere qualche coscienza col mostrare la dimensione mostruosa dell’ecatombe.
 Malgrado Mare Nostrum, che pure ha salvato trentamila persone, quasi quattrocento sono probabilmente i morti di frontiera nell’area del Mediterraneo in questi primi cinque mesi del 2014.
 Ed essi vanno ad aggiungersi ai ventimila cadaveri conteggiati approssimativamente dal 1988 a oggi.

Ridotti ogni volta a computare i morti, quando dovrebbe bastare un solo cadavere di bambino a suscitare commozione, indignazione e rivolta, neanche noi siamo innocenti, noi che almeno ci ostiniamo a denunciare la strage.
 Ma la nostra denuncia è impotente a scuotere perfino la sinistra politica italiana detta radicale, che sembra aver derubricato a faccenda minore, da delegare a qualche specialista o a qualche “fissato/a”, una questione che invece è il senso (o uno dei sensi cruciali) dell’Unione europea oggi.

L’Ue, infatti, coltiva l’illusione che il proprio sovranazionalismo, esemplarmente rappresentato dalla fortezza in cui pretende di barricarsi e da Frontex, che ne è il braccio armato, possa contrastare i nazionalismi, anche aggressivi, nominati con l’etichetta eufemistica di euroscetticismo, che vanno rafforzandosi per reazione agli effetti sociali disastrosi della crisi economica e delle politiche di austerità.

E’ da molti anni che le associazioni per la difesa dei migranti e dei rifugiati propongono un programma – razionale, articolato, perfino realistico, nonché aggiornato di volta in volta – per cambiare il segno delle politiche italiane ed europee su immigrazione e asilo. 
Per parlare solo dei rifugiati, si dovrebbe almeno riformare radicalmente Dublino III, che impedisce ai richiedenti asilo i movimenti interni al territorio dell’Ue; soprattutto, come raccomanda lo stesso Unhcr, creare corridoi umanitari e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito, “con adeguate garanzie di assistenza e protezione per chi è in fuga da guerre e persecuzioni”.

Non sono i programmi a mancare, dunque, bensì la volontà politica di uscire da quel paradigma nefasto che concede ai capitali il massimo di libertà di circolazione – e di dominio sulle nostre vite – negandola alle vite, ancor più irrilevanti, dei dannati della terra.

Perciò temiamo che, quand’anche si realizzasse, l’ipotesi ventilata da Juncker di nominare un commissario per le migrazioni e la mobilità, sebbene non priva di qualche valore simbolico, poco ne avrebbe sul piano politico.
 E’ il paradigma che occorrerebbe rovesciare: gli Stati Uniti d’Europa, sì, ma come utopia di una federazione dai confini smilitarizzati, aperta all’altra sponda del Mediterraneo, basata sulla cittadinanza transnazionale, tesa a garantire il diritto alla mobilità e a ogni residente i diritti fondamentali. 


                                                         Annamaria Rivera *


* Versione aggiornata e ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 1° luglio 2014

martedì 24 giugno 2014

La solitudine di Altiero Spinelli









Oggi, mentre ancora sembra in questione chi sarà infine il Presidente della Commissione Europea, se sarà nominato in base all’indicazione uscita dalle urne – purtroppo non incoraggiante per il rinnovamento radicale dell’Unione Europea che sarebbe necessario – credo che sarebbe doveroso per ogni cittadino, studioso, studente, docente, pubblicista interessato ai destini della democrazia riflettere a fondo sull’intuizione che governò la vita di Altiero Spinelli (1907-1986), alla quale il pensiero filosofico e politico contemporaneo non ha ancora affatto reso giustizia – né l’ha tradotta nel nuovo linguaggio dei fini – e dei mezzi appropriati – di cui oggi abbiamo tanto bisogno, se continuiamo a riconoscerci nei sei valori che sorreggono la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza 2000, Strasburgo 2007): Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia. 

Spero che queste poche note servano ad aprire una libera e non frettolosa discussione che potrà servire anche a suggerire iniziative di studio, libri da leggere, seminari e attività per il prossimo anno (anche) accademico.

Nel luglio 1939 Spinelli sbarcava a Ventotene, dopo aver scontato fra carcere e confino dodici anni dei sedici inflittigli – a neppure vent’anni – dal Tribunale Speciale fascista per la sua opposizione attiva al regime.
 Nel ’37, a Ponza, era stato espulso dal Partito Comunista, perché, come Spinelli scrive nella sua autobiografia – una delle più intense della letteratura mondiale (Come ho cercato di diventare saggio, Il Mulino 1999) – era stato “tutto un monologo sulla libertà” quello che aveva iniziato “dal momento che le porte del carcere si erano chiuse alle [sue] spalle”. 
Nel ’41 nasce – sotto la sua penna e in parte quella di Ernesto Rossi, frutto delle conversazioni con Eugenio Colorni e pochi altri, il Manifesto di Ventotene, con il suo memorabile attacco: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita.
 Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”. 
Tutti: e fra questi il contrasto fra la politica concepita sulla base degli Stati nazionali e l’economia globale.
 Vere democrazie che siano esclusivamente interne ai singoli stati – soprattutto quelli europei – , oggi, non sono più possibili. 
Quell’uomo visionario, eppure profondamente realista, lo vide settant’anni fa

                                                    Roberta De Monticelli

venerdì 11 aprile 2014

Perchè dimmi Perché Europa...così per Le Goff

La globalizzazione ha creato due grandi centri di potere che si confrontano ormai da tempo: gli Stati Uniti e la Cina. Occorre salvaguardare l'esistenza di un terzo spazio forte per i suoi valori, la sua energia, la sua ricchezza: l'Europa.


Un elemento essenziale della potenza europea è la cultura, la sua cultura. Pensiamo ad esempio all'Università: una creazione europea che è stata per secoli centro di produzione di conoscenza senza paragone.

Io non sono né credente né praticante, ma come storico e medievista devo essere consapevole - è un altro esempio - del ruolo che ha giocato il cristianesimo come forza spirituale e creatrice di valori nel determinare l'originalità dell'Europa.

Dal punto di vista politico occorre perseguire l'Europa possibile che - dal punto di vista storico - è l'Europa delle nazioni (ciò che consente di difendere la nostra cultura, la nostra politica, la nostra economia) mentre sarei prudente sull'idea di un'Europa federale.

Credo che si possa conservare la sovranità degli Stati attribuendo al Parlamento europeo un ruolo importante, che passi attraverso il voto dei cittadini europei.

È fondamentale da questo punto di vista sviluppare un'educazione comune che faccia dialogare le diverse culture nazionali. Le borse Erasmus sono un primo passo in questa direzione ma occorre fare di più.

Per l'Europa c'è un problema ancora più rilevante di quello politico ed è il problema della diversità delle lingue.Trovare una soluzione non è facile. Una soluzione ovvia ma che io non considero buona è quella che consiste nell'adottare l'inglese come lingua comune.

Non mi convince, infatti, l'idea che l'unificazione passi attraverso la dominazione di una specifica lingua nazionale (ovviamente sarei contrario anche al francese). Qualche utopista ha proposto l'esperanto, lingua che ha tra l'altro il limite di non avere passato, di non avere storia. Al momento non vedo altro che una soluzione provvisoria: che ogni paese conservi sul suo territorio la sua lingua nazionale, che dia maggiore spazio all'insegnamento dell'inglese e che apra ai suoi giovani anche una terza lingua europea, anche una di minore diffusione rispetto all'italiano o allo spagnolo o al tedesco. In questo modo si darebbe un fondamento plurale e comune al tempo stesso.

Penso che in tutte le scuole europee occorra dare molto spazio alla storia europea. Una storia comune che sottolinei ciò che ci fa simili ma anche i nostri conflitti. La nostra storia è segnata non solo da molte diversità ma anche da fratture profonde. Ciò che oggi ci consente di pensare un'Europa unita è il fatto obiettivo, innegabile che noi europei non possiamo più farci la guerra. E possiamo così valorizzare ciò che ci accomuna, anche tornando molto indietro nel tempo e sottolineando - ad esempio - le comuni radici nella cultura latina.

Ho già fatto riferimento all'università e al cristianesimo come elementi essenziali dell'identità europea a cui naturalmente si può aggiungere la città.

Ma anche l'alimentazione ha svolto un ruolo determinante. Pensiamo ad esempio alla diffusione delle paste - in particolare i ravioli nati a Firenze nel XIII secolo - si sono diffuse in tutta Europa, mentre quelle cinesi sono molto diverse.

Anche l'abbigliamento europeo ha una sua originalità che merita di essere valorizzata.

C'è un comportamento che storicamente ha contraddistinto l'Europa e che a mio parere ha contraddetto la sua vocazione ed è la colonizzazione. Ma la decolonizzazione pressoché integrale del secondo dopoguerra ha reso l'Europa a se stessa.

Da sempre l'Europa è uno straordinario centro d'attrazione di diversi popoli e culture.

E poi, non dimentichiamo che la democrazia nasce in Europa, prima nella letteratura e nella filosofia con i greci e poi nella sua pratica attuazione.

Nell'Europa antica esisteva una piazza pubblica - l'Agorà dei greci, il Foro dei romani - in cui i cittadini si incontravano per discutere e prendere decisioni. E perfino nei monasteri medievali è esistita una forma di democrazia, se è vero che gli abati erano eletti da tutti i monaci.

Queste ed altre sono le ragioni che la storia ci consegna per costruire la nostra Europa


                                                                    Jacques Le Goff


Fonte: da Laterza.it

giovedì 10 aprile 2014

Una Repubblica fondata sul bene comune


"Solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione può far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile". 
Pubblichiamo la prefazione di Salvatore Settis al volume "Il territorio bene comune degli italiani" di Paolo Maddalena (Donzelli).



Una nuova dimensione politica avanza con passo lento, incerto, desultorio: è la politica dei cittadini, che si forma e si esercita non necessariamente contro, ma sicuramente malgrado la politica dei politici di mestiere. 
Forse in nessuna democrazia quanto in Italia vediamo oggi la «politica militante» «trasformarsi da munus publicum in una professione privata, in un impiego», secondo la desolata profezia di Piero Calamandrei. 
La politique politicienne diventa anzi anche troppo spesso uno strumento, ora inconsapevole ora cinicamente complice, al servizio della devastazione delle istituzioni e dello Stato mirata alla spartizione delle spoglie, al feroce saccheggio di risorse comuni e pubbliche per il vantaggio dei pochi.
 Ma «politica» dovrebbe invece essere, non solo per etimologia ma anche per le ragioni della storia e dell’etica, prima di tutto un libero discorso da cittadino a cittadino: un discorso sulla polis, dentro la comunità dei cittadini e a suo beneficio.

Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in quanto tali, e non per ambizioni, patteggiamenti e scambi di potere e di carriera, in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi, sui grandi temi del bene comune, dei diritti della persona, della costruzione del futuro per le nuove generazioni. 
Davanti al neo-assolutismo di un’economia che degrada perfino gli esseri umani a meri fattori di costo, costringendoli a nuove forme di servitù e condannando alla disoccupazione le «generazioni perdute» dei giovani, è sempre più essenziale il richiamo alla polis (cioè alle comunità di cittadini) come spazio di riflessione, di discussione, di progetto e di resistenza che esalti e consolidi le libertà personali mentre costruisce una lungimirante etica pubblica.

Ma il bene comune è oggi sempre più spesso accantonato come un ferrovecchio, e in nome delle logiche di mercato cresce ogni giorno l’erosione dei diritti, si consolida la struttura autoritaria dei governi, la loro funzione ancillare rispetto ai centri del potere finanziario e bancario, «stanze dei bottoni» totalmente al di fuori di ogni meccanismo democratico di selezione, al riparo da ogni controllo, al di sopra di ogni regola, di ogni legalità, di ogni sanzione. 
«Mai nella storia l’umanità è stata di fronte a un’alternativa così radicale: o cambiare profondamente i valori della nostra civiltà o perire», ha scritto in un suo libro recente Heiner Geissler, deputato Cdu per 25 anni, ministro in un Land e poi nel governo federale, e infine segretario generale della Cdu (1977-89)*, che nel nuovo scenario economico e politico ha profondamente modificato le proprie idee, come su una drammatica via di Damasco. Politica, cittadinanza, scontro frontale fra le ragioni del mercato e i principi del bene comune: queste le coordinate entro le quali Paolo Maddalena ha composto questo suo libro.

Il carattere squisitamente urbano di alcune grandi proteste popolari degli ultimi anni, da Madrid (Puerta del Sol) a New York (Zuccotti Park) ha almeno due matrici, anche se non tutti ne sono consapevoli. Prima di tutto, la forte tematica del diritto alla città non solo come spazio urbano ma per il necessario equilibrio, dimensionale e strutturale, fra il tessuto delle architetture e delle strade e la dignità personale dei cittadini. 
A quasi cinquant’anni dal Droit à la ville di Henri Lefebvre (1968, ma prima dei moti parigini del Maggio), questa riflessione aveva bisogno di un radicale ripensamento davanti al disfacimento della forma urbana che la generò e all’insorgere delle megalopoli, le immense conurbazioni formatesi al servizio di altrettante spietate macchine produttive.  
Rebel Cities. From the Right to the City to the Urban Revolution di David Harvey (Verso, 2013) ci offre oggi una nuova cornice di pensiero e di categorie descrittive per dare aldiritto alla città, attraverso l’universo dei beni comuni, la nuova dimensione di una cittadinanza consapevole dei propri diritti sovrani: primo passo per intendere come, perché e da chi essi sono calpestati, e per organizzare una riscossa.

La seconda matrice è più remota: ed è l’antica arma dell’azione popolare, che già nel diritto romano rappresentava al massimo livello la dignità personale del cittadino, conferendogli il potere di agire contro le istituzioni in nome del bene comune, contro le mutevoli leggi in nome di uno stabile Diritto intessuto di profondi legami sociali e di alti principi etici. 
Non insisto qui su questo tema, al quale è dedicato un mio libro recente (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2013); se non per ricordare il filo rosso che lo riconnette al diritto di resistenza del cittadino, quale ricorre in alcune antiche Costituzioni, per esempio in quella della Repubblica Partenopea (1799) che all’art. 15 lo definisce «il baluardo di tutti i diritti». 
È un diritto che ricompare oggi insistentemente sulla scena, riarticolato secondo i linguaggi della adversary democracy, e cioè della necessaria dinamica fra gli organi della democrazia rappresentativa e il diritto di parola dei cittadini (singoli o associati). 
Perché in uno Stato moderno è cruciale «l’idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (così Nadia Urbinati).

Queste due matrici del nuovo dissenso (diritto alla città e azione popolare) hanno in comune un punto essenziale, il richiamo ad alti principi etico-politici contro la contingenza di norme concepite al servizio del potere. 
Nello scenario italiano di oggi, questo aspro contrasto, evidenziato dal continuo ricorso a norme efferate non solo ad personam ma contra cives (basti richiamare il «federalismo demaniale» o le leggi elettorali che impediscono al cittadino la libera scelta dei propri rappresentanti, dalPorcellum di Calderoli alla similare proposta Berlusconi-Renzi), prende la forma di un richiamo alla Costituzione della Repubblica. 
In essa troviamo il coerente manifesto di uno Stato fondato sul bene comune e non sul profitto dei pochi; sulla dignità della persona e non sulla sua oppressione; sul diritto al lavoro e non sull’«austerità» che condanna alla disoccupazione; sulla cultura che progetta il futuro e non su una pretesa «stabilità» che di fatto paralizza il paese.

È in questo aspro contrasto che si capisce – che è, anzi, necessaria e sacrosanta – l’ira dei miti. «Oggi Goethe andrebbe sulle barricate», ha scritto John le Carré.
 È in questo quadro che Paolo Maddalena ha raggiunto con questo libro il punto (per ora) culminante della sua traiettoria di giurista, che parte da una formazione romanistica, passa attraverso la Corte costituzionale, e attraverso la riflessione sul danno ambientale e sulle tematiche connesse allarga crescentemente il proprio orizzonte. Già col suo importante libro sul Danno pubblico ambientale (Maggioli, 1990), con numerosi altri contributi di studio e col suo lavoro di capo dell’Ufficio legislativo al ministero dell’Ambiente, ma poi specialmente con la sua opera di giudice della Corte costituzionale (2002-2011), l’autore di questo libro ha mostrato una straordinaria sensibilità, illuminata dai valori della Costituzione, verso l’interesse pubblico e la necessità di proteggerlo con norme di alto profilo e radici profonde nella nostra tradizione normativa.

Fra le pronunce da lui redatte alla Corte, specialmente numerose sono quelle incentrate sui temi dell’ambiente. Si sa che la tutela dell’ambiente è assente nel testo originario della Costituzione (quale entrò in vigore il 1° gennaio 1948); ma la sua rilevanza giuridica emerse gradualmente ben prima che la riforma del Titolo V (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ne prendesse atto, e Paolo Maddalena è fra quanti vi hanno contribuito con lucido argomentare. 
Le pronunce della giurisprudenza costituzionale avevano messo a punto, almeno a partire dalla sentenza n. 151 del 1986, la centralità della tutela dell’ambiente, come nozione giuridica e come dovere civile, rilevandone i molteplici intrecci con altri interessi costituzionalmente rilevanti, in particolare nell’incrocio fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32). 

Questo percorso mette in luce la straordinaria lungimiranza della nostra Carta costituzionale. Nata in un momento storico in cui la cultura ambientalistica non si era ancor formata, essa tuttavia fissò già allora un sistema di relazioni, di valori e di principi a difesa del cittadino, che hanno consentito al giudice delle leggi di affermare con forza la tutela dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini.

Paolo Maddalena ha contribuito notevolmente a consolidare questa evoluzione, con le sentenze di cui è stato estensore alla Corte costituzionale e, più di recente, come autore di numerosi saggi, fra cui specialmente rilevante è Ambiente, bene comune (nel volume a cura di Tomaso Montanari Costituzione incompiuta, Einaudi, 2013).
 Ma vi aveva contribuito anche prima di entrare da giudice alla Consulta, affermando, con circa venti anni di anticipo sulla normativa comunitaria (direttiva 2004/35/CE), la risarcibilità del danno ambientale, il quale non è un danno civilistico di natura individuale, bensì un danno pubblico, nel senso che è un danno alla collettività e allo Stato che la rappresenta e la incarna. In tale concezione, già accolta in Italia dalla l. 349/1986, l’ambiente è un bene comune, e come tale l’interesse pubblico dello Stato coincide con il diritto individuale, fondamentale e inviolabile, alla fruizione e alla tutela dell’ambiente. 
Ma la tutela ambientale (come quella del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non è un tema «di nicchia»: a ogni giorno che passa, la devastazione dell’ambiente è sempre più chiaramente la cartina di tornasole di un degrado etico, politico e civile che, per essere combattuto, deve giocoforza ricorrere a categorie analitiche ancor più ampie, collegandosi ad altre prescrizioni costituzionali, ad altri diritti. 
Dobbiamo dunque cercare la radice del male nella deriva della politica, nell’invasiva presenza della finanza e dei mercati, nell’asservimento delle istituzioni democratiche ai poteri non-democratici di banche e imprese. Proporre, come fa Maddalena, una nuova consapevolezza del cittadino a partire dall’orizzonte dei suoi diritti.

L’argomentazione sul territorio come bene comune degli italiani, che Maddalena ci offre in questo libro, è un contributo, appassionato e rigoroso, a quella discussione sui beni comuni che va oggi dilagando, ma non sempre con piena consapevolezza delle categorie giuridiche adoperate né del loro spessore storico né, infine, del loro concreto potenziale politico e civile.  
Pochi intendono infatti, come Maddalena fa in questo libro, che solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione e il puntuale radicarsi nel nostro ordinamento possono far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile
Perciò è necessario far crescere nei cittadini (come sarà, credo, per ogni lettore di questo libro) la consapevolezza di categorie come «proprietà pubblica»/«proprietà privata»/ «proprietà collettiva», nella loro interazione e nella loro gerarchia. Partendo dallo squilibrio ambientale, economico, sociale che è sotto gli occhi di tutti, Paolo Maddalena ha costruito in queste pagine un percorso che lega fortemente, come vuole la Costituzione, le forme della proprietà ai diritti fondamentali, e ha indicato le res communes omnium come lo scenario di una rinnovata tensione fra i problemi (e i rischi) della biosfera e lo statuto (e i doveri) della cittadinanza.

Tutto in questo libro, anche l’ingrediente romanistico usato come grimaldello esplicativo e non come apparato erudito, concorre a un calibrato omaggio alla Costituzione, in particolare al disegno di «ordine pubblico economico» scolpito negli artt. 41-46, dei quali Maddalena sottolinea il carattere precettivo. A questa luce, egli scrive, «è un intero mondo di cose che deve essere rivisto e ripensato.
 La distruzione del nostro territorio, infatti, può essere evitata non solo con norme penali ma anche, e forse soprattutto, facendo valere l’inesistenza di diritti di proprietà che perseguano una funzione “antisociale”, ovvero la nullità assoluta di contratti con “causa illecita”, aventi anch’essi un chiaro contenuto “antisociale” (art. 1322 c.c.)».

Centrale è dunque, in questo libro, il principio di «utilità sociale», che illumina non solo la tessitura della Costituzione, ma l’intero nostro ordinamento, rendendo possibili forme di azione popolare che non siano astratte rivendicazioni ma forti e concreti richiami alla legalità costituzionale; ad esempio specificando e limitando lo ius aedificandi, che non può essere inerziale e inespugnabile attributo di una rendita fondiaria spesso parassitaria e devastatrice. 
Su questo come su altri punti, l’apporto interpretativo e propositivo di Paolo Maddalena in questo libro dovrà, io spero, trovare nei movimenti di resistenza civile e di consapevolezza ambientale il proprio spazio di sperimentazione e di applicazione, fra diritto alla città e azione popolare.

* Sapere aude! Warum wir eine neue Aufklärung brauchen, Ullstein, Berlin 2012.

                                                    Salvatore Settis



lunedì 7 aprile 2014

Parola di Zygmunt Bauman: Siamo sospesi tra Orrori e Rischi...


Zygmunt Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono; ma è anche un grande lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti che attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una cognizione ancora confusa. 
Se nei suoi saggi si è rivelato il più efficace e originale inventore di linguaggio, quello della modernità «liquida», quello che ha saputo meglio rappresentare la svolta dalla solidità rocciosa dell’epoca industriale fordista alla instabile fragilità dell’oggi, questo è avvenuto grazie alle doti raffinate della sua scrittura e del suo eloquio, che riescono a conquistare il pubblico come solo i grandi narratori.

Siamo sospesi tra orrori e rischi. 

Bauman rende omaggio in modo esplicito alla molteplicità delle sue infinite fonti, ma nel riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro trova poi quasi sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori immagini e parole che marcano l’idea in modo permanente. 

Così avviene anche in questo testo sulla «paura», che rielabora suoi lavori precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica.

 Il tema hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo fondativo del potere assoluto del Leviatano sia la virtù del principe che ne sappia governare gli effetti. 

In queste pagine troviamo quel genere di paura che alimenta e/o avvelena tanta parte della politica contemporanea. Del resto l’autore di Modernità liquida, di Homo consumens e di La società individualizzata cominciava l’ultimo articolo apparso su Repubblica così: «Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi», paura di cose certificate dalla storia nel nostro passato e paura di cose incerte nel nostro futuro.

domenica 6 aprile 2014

Frida magnificamente Kahlo

L'esposizione alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo, è un eccezionale evento culturale da non lasciassi sfuggire, inaugurata il 20 marzo 2014 si chiuderà il 31 agosto 2014.



Lo straordinario allestimento, curato da Helga Prigniz-Poda, indaga Frida Kahlo nel suo rapporto con i movimenti artistici dell'epoca, dal Modernismo messicano al Surrealismo internazionale, analizzandone le influenze sulle sue opere, con eleganza e attenta sensibilità conoscitiva.





Frida Kahlo la ribelle, l'ocultadora, l'ironica pasionaria dell'arte, fu il simbolo dell'avanguardia e dell'esuberanza artistica della cultura messicana del Novecento.

La mostra alle Scuderie del Quirinale, presenta l'intera carriera artistica di Frida Kahlo riunendo i capolavori assoluti delle principali collezioni, raccolte pubbliche e private, provenienti da Messico, Europa e Stati Uniti. 





Oltre 40 straordinari capolavori, tra cui il celeberrimo Autoritratto con collana di spine e colibrì del 1940, per la prima volta esposto in Italia, o l'Autoritratto con abito di velluto del 1926, dipinto a soli 19 anni ed eseguito per l'amato Alejandro Gòmez Arias, dove il suo collo allungato recupera l'estetica di Parmigianino e di Modigliani.



 
Una selezione di disegni completa il progetto, tra cui il Bozzetto per "Henry Ford Hospital" del 1932, il famoso corsetto in gesso che tenne Frida prigioniera negli ultimi, difficili anni della sua malattia e che l'artista decorò con una serie di simboli dipinti e, infine, alcune eccezionali fotografie, in particolare quelle realizzate da Nickolas Muray, tra cui Frida Kahlo sulla panca bianca del 1938 diventata poi una famosa copertina della rivista Vogue.





Il tema principale è, quindi, l'autorappresentazione che Frida elabora attraverso i linguaggi protagonisti delle varie epoche e che ci restituisce lo specialissimo significato che ha rappresentato nella trasmissione dei valori iconografici, psicologici e culturali.
 
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón diceva di essere nata nel 1910, anno di inizio della Rivoluzione, mentre in realtà era nata il 6 luglio 1907 a Coyoacán (Città del Messico). 





I suoi dipinti non sono soltanto lo specchio della sua vicenda biografica, segnata dal terribile incidente in cui fu coinvolta all'età di 17 anni, la sua arte si fonde con la storia e lo spirito del mondo a lei contemporaneo, riflettendo le trasformazioni sociali e culturali che avevano portato alla Rivoluzione e che ad essa seguirono.

Attraverso il suo spirito ribelle, reinterpretò il passato indigeno e le tradizioni folkloriche, codici identitari generatori di un'inedita fusione tra l'espressione del sé, l'immaginario e i colori e i simboli della cultura popolare messicana.






Allo stesso tempo, lo studio della sua opera permette di capire l'intreccio delle traiettorie di tutti i movimenti culturali internazionali che attraversarono il Messico in quel tempo: dal Pauperismo rivoluzionario all'Estridentismo, dal Surrealismo a quello che più tardi prese il nome di Realismo magico. 


Per questa ragione il percorso espositivo della mostra accoglie, accanto ai lavori di Frida Kahlo, anche una selezione di opere degli artisti attivi in quel periodo che hanno "vissuto" fisicamente e artisticamente vicino a Frida Kahlo. 

Dal marito Diego Rivera, presente nella mostra con alcune opere significative quali, ad esempio, Ritratto di Natasha Gelman del 1943 e Nudo (Frida Kahlo) del 1930; ad una selezione di artisti, decisivi per l'opera stessa di Frida che attivamente hanno influenzato un intero periodo artistico: José Clemente Orozco, José David Alfaro Siqueiros, Maria Izquierdo e altri.
                                               

                                                Donna Bruzia





sabato 5 aprile 2014

Donne che odiano altre Donne

Misoginia femminile


 
C’è un posto speciale all’inferno per quelle donne che si sono astenute dall’aiutare altre donne. Madlein Albreit
German Greer la famosa autrice di: L’Eunuco femmina, afferma che la sua preoccupazione maggiore nei confronti della questione femminile, è la misoginia femminile.
Solo a dirlo pare un’anatema, e solo poche donne pur sapendo che è vero, saranno disposte ad ammetterlo.
I pregiudizi, e le intime divisioni tra donne, sono molto più profonde di quello che si crede; il problema comunemente è ben mimetizzato dall’abbandanza di: tesoro”, “carissima amore, bella, con cui moltissime donne intercalano cicalecci pieni di tensione.
Gli uomini lo sanno benissimo, lo vedono con maggior chiarezza, e sono spesso pronti a servirsene per esercitare il loro potere.
Per le donne invece, la mancata consapevolezza di questa profonda ed intima ferita, spesso negata da idealizzazioni superficiali, che nulla hanno a che vedere con una reale integrazione emozionale e corporea, crea costantemente danni al loro senso di realtà e di identità.
Le radici del male sono antiche; parte dalle genitrici, sostanzialmente è una catena di dolore e rinnegamento, che si perpetua di madre in figlia.
La misoginia femminile è ben mascherata da luoghi comuni che attribuiscono alla donna una maggiore abilità nel creare le relazioni; quando invece andando oltre le apparenze, ostilità, antagonismo e incapacità di sostenersi l’un l’altra, sono di frequente il leit motiv della vita di molte donne, a partire dalla famiglia di origine.
Se le donne non saranno in grado di rinunciare all’atavica ipocrisia di cui si servono per mascherare antagonismo ed ostilità, sarà improbabile che riescano a trovare in se stesse e nel confronto con le altre, la forza necessaria per evitare di essere vittimizzate dal loro perenne auto-sabotaggio.
L’inconsapevole misoginia dalla quale sono afflitte, è l’ostacolo maggiore alla realizzazione della loro pienezza ed integrità. Anche se va considerato che è difficilissimo non interiorizzare un tale sessismo, a causa del rischio di rifiuto sempre alto da parte di madri, parenti ed educatrici varie.
Le donne hanno interiorizzato il linguaggio e le convinzioni di genere sessuale ereditato dalle madri, dalle nonne, e dalle bisnonne; per molte l’interiorizzazione di tale linguaggio, non è stato causato solo da necessità affettive, o di identità, ma anche da ragioni economiche. Non ci si può aspettare che dopo le migliaia e migliaia donne bruciate vive come streghe, non si soffra ancora delle conseguenze di tale eccidio.
Vedo spesso donne riempirsi d’invidia e gelosia nei confronti di donne capci di imporsi ed esigere rispetto; un rispetto tra l’altro, che molte di loro, non hanno mai ricevuto, a partire dai membri della loro famiglia e, mai si sogneranno di avere.
Uscire fuori dal seminato designato da una ideologia patriarcale e misogina, fa scattare meccanismi di negatività e antagonismo, non solo nei maschi ma anche nelle donne.
Competitività e gelosia sono inevitabili quando le donne sono programmate per vivere in una società che le posiziona a livelli di disparità con gli uomini.
A volte la misoginia femminile può essere intesa (ma non scusata), come un atto di benevolenza, dove donne insegnano ad altre donne le regole della sopravvivenza per evitare di fronteggiare le conseguenze di una rottura di schemi.
Le madri insegnano alle loro figlie come sopravvivere; per esempio, una madre può incoraggiare sua figlia a sposare un uomo benestante, anche se emotivamente non disponibile; o ancor peggio, una madre può evitare di sostenere sua figlia nel separarsi da un marito violento, per la sua propria paura di non sopravvivere senza un uomo. Tuttavia prima di condannare queste madri, sarebbe opportuno chiederci dove mai avrebbero potuto imparare a comportarsi differentemente.
Quali opzioni hanno veramente avuto a disposizione? Tutto sommato è proprio in questo modo che la misoginia opera: si limitano le possibilità di scelta delle donne, si tacitano le loro voci e le si estranea da se stesse. La realtà è che la gran parte delle donne non sa proprio come sopravvivere al di fuori di regole patriarcali.
In questo modo la gelosia tra donne non può che crescere, come animali reclusi oltre che esclusi dalla pienezza del loro potere, non potranno vedere in termini positivi, l’affrancamento di una loro sorella o compagna, che rivendica una vita di parità di diritti e di scelte.
La gelosia femminile, è una naturale conseguenza dell’essere invisibili e affamate di attenzioni da generazioni, dell’essere state trascurate da chi avrebbe dovuto avere cura di loro e proteggerle. La negazione di tali bisogni messi costantemente da parte per soddisfare quelli altrui, ha reso le donne giorno dopo giorno emotivamente povere e fameliche.
E’ difficile in tali condizioni tollerare, che altre donne siano ben nutrite o addirittura benestanti. Quando si è alla fame in molti sensi, e quando questa invidia non è riconosciuta, oppure è compensata da superficiali comportamenti collusivi, le conseguenze a scapito del senso del proprio valore sono disastrose tanto per se quanto per le altre.
La paura di non piacere abbastanza, di ritrovarsi sole, sono motivazioni di enorme importanza nel giustificare la ritirata in nidi limitanti, spesso umilianti ma considerati sicuri e famigliari.
Il femminismo può aiutare le donne a investigare queste collusioni, a prendere maggior coscienza della sottostante misoginia, ma lotta politica per la conquista di pari diritti, è solo una parte del problema, e se la politica è parte della persona, il lavoro politico deve avvalersi anche di un lavoro interiore.
E’ solo grazie all’onesta e alla trasparenza nei confronti della propria misoginia, di com’è stata introiettata e diffusa in modo contagioso, alla chiarezza della serie di limitazioni che il modo si aspetta da loro, che potremo creare una società di donne forti per le quali “NO”, non è sempre una risposta.
Quando le donne cominceranno a rendersi conto che sono state educate a vivere nella deprivazione grazie a diete che le rendono immensamente leggere ed invisibili, non saranno più invidiose o gelose, delle loro compagne e sorelle maggiormente consistenti.
Le madri non insegneranno più alle loro figlie come sopravvivere in mancanza di auto-nutrimento, poiché loro stesse non si rassegneranno a vivere senza il rispetto e la soddisfazione dei loro bisogni.
Senza la comprensione profonda di tali problematiche insediate nella carne, grazie regole patriarcali ampiamente collaudate, non sarà possibile rendersi conto di come le donne vivono troppo spesso la condizioni di granchi intrappolati in un secchio: quando una di loro tenterà di venir fuori, l’altra la tirerà giù evitandole ogni possibilità di fuga.
La paura di non piacere, di rimanere sole o delle conseguenza di una rottura di schemi per affermare la propria unicità ed indipendenza, sono motivazioni sufficienti per sopportare la reclusione in ruoli angusti ma tutto sommato sicuri.
Le donne hanno imparato da troppo tempo come sopravvivere accontentandosi del loro piccolo, ma non sono riuscite ancora a riconoscere quanto è grande questa denutrizione collettiva.
Non riescono ancora ad ammettere come ci si sente male ad essere criticate, trascurate, abbandonate dalle altre donne. Si cerca ancora negli uomini il senso del proprio valore, del proprio diritto di esistere, ignorando che un uomo non sarà mai in grado di soddisfare questo bisogno.
Le donne hanno bisogno di donne per formare e preservare il loro senso di identità, alla stessa stregua degli uomini, i quali hanno bisogno del supporto e del riconoscimento di altri uomini per le medesime ragioni.
Non sarà possibile costruire profonde e significative relazioni con il sesso opposto, se il senso di identità sarà precario, se non sarà possibile contare sul rispetto, l’amore e il sostegno di persone del proprio sesso.
Per fiorire e diventare forti, abbiamo bisogno di un senso di sincera e profonda coesione con le altre, come ai vecchi tempi, quando le donne si univano con piacere per aiutarsi e condividere la loro saggezza e la loro ricchezza, poiché erano nutrite e avevano qualcosa di consistente da offrire.
Non c’era il livello di progresso di cui abbiamo beneficiato sempre più spesso nel corso della nostra evoluzione, ma di sicuro era presente un maggior senso di identità e forza in entrambi i sessi.
Il desiderio e l’ambizione più grande era somigliare alla propria madre, alle anziane, e lo stesso era per i fanciulli; nessun fanciullo o fanciulla, si sarebbe sognato di essere più di suo padre o sua madre, somigliare a loro era l’orgoglio e la gioia più grande.
Provate oggi a dire ad una donna che somiglia a sua madre; nella gran parte dei casi si sentirà offesa. Questo è il primo sintomo della sua misoginia e della fragilità della sua identità, anche se in moltissimi casi non ne sarà minimamente consapevole, troppo distratta dal cercare fuori di se le ragioni della propria insicurezza e della propria miseria.



                                 Antonella Iurilli Duhamel


 Nota dell'Autrice
Libero professionista la sua formazione è stata influenzata dalle molteplici esperienze esistenziali, dai lunghi soggiorni in luoghi molto differenziati e dalle stesse radici familiari. Scultrice, pittrice e psicologa, ha messo a frutto la sua formazione universitaria- semiologia, antropologia e psicologia- per approfondire le tematiche che sono sempre state al centro della sua ricerca, come donna e come artista: l’identificazione del ruolo sessuale femminile e maschile, nonchè il rapporto dell’uomo moderno con le emozioni, la vita e la natura . 
E’ membro della Società di belle Arti di Verona, della Societè Quebequoise des Beaux arts e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis di New York .