venerdì 11 aprile 2014

Perchè dimmi Perché Europa...così per Le Goff

La globalizzazione ha creato due grandi centri di potere che si confrontano ormai da tempo: gli Stati Uniti e la Cina. Occorre salvaguardare l'esistenza di un terzo spazio forte per i suoi valori, la sua energia, la sua ricchezza: l'Europa.


Un elemento essenziale della potenza europea è la cultura, la sua cultura. Pensiamo ad esempio all'Università: una creazione europea che è stata per secoli centro di produzione di conoscenza senza paragone.

Io non sono né credente né praticante, ma come storico e medievista devo essere consapevole - è un altro esempio - del ruolo che ha giocato il cristianesimo come forza spirituale e creatrice di valori nel determinare l'originalità dell'Europa.

Dal punto di vista politico occorre perseguire l'Europa possibile che - dal punto di vista storico - è l'Europa delle nazioni (ciò che consente di difendere la nostra cultura, la nostra politica, la nostra economia) mentre sarei prudente sull'idea di un'Europa federale.

Credo che si possa conservare la sovranità degli Stati attribuendo al Parlamento europeo un ruolo importante, che passi attraverso il voto dei cittadini europei.

È fondamentale da questo punto di vista sviluppare un'educazione comune che faccia dialogare le diverse culture nazionali. Le borse Erasmus sono un primo passo in questa direzione ma occorre fare di più.

Per l'Europa c'è un problema ancora più rilevante di quello politico ed è il problema della diversità delle lingue.Trovare una soluzione non è facile. Una soluzione ovvia ma che io non considero buona è quella che consiste nell'adottare l'inglese come lingua comune.

Non mi convince, infatti, l'idea che l'unificazione passi attraverso la dominazione di una specifica lingua nazionale (ovviamente sarei contrario anche al francese). Qualche utopista ha proposto l'esperanto, lingua che ha tra l'altro il limite di non avere passato, di non avere storia. Al momento non vedo altro che una soluzione provvisoria: che ogni paese conservi sul suo territorio la sua lingua nazionale, che dia maggiore spazio all'insegnamento dell'inglese e che apra ai suoi giovani anche una terza lingua europea, anche una di minore diffusione rispetto all'italiano o allo spagnolo o al tedesco. In questo modo si darebbe un fondamento plurale e comune al tempo stesso.

Penso che in tutte le scuole europee occorra dare molto spazio alla storia europea. Una storia comune che sottolinei ciò che ci fa simili ma anche i nostri conflitti. La nostra storia è segnata non solo da molte diversità ma anche da fratture profonde. Ciò che oggi ci consente di pensare un'Europa unita è il fatto obiettivo, innegabile che noi europei non possiamo più farci la guerra. E possiamo così valorizzare ciò che ci accomuna, anche tornando molto indietro nel tempo e sottolineando - ad esempio - le comuni radici nella cultura latina.

Ho già fatto riferimento all'università e al cristianesimo come elementi essenziali dell'identità europea a cui naturalmente si può aggiungere la città.

Ma anche l'alimentazione ha svolto un ruolo determinante. Pensiamo ad esempio alla diffusione delle paste - in particolare i ravioli nati a Firenze nel XIII secolo - si sono diffuse in tutta Europa, mentre quelle cinesi sono molto diverse.

Anche l'abbigliamento europeo ha una sua originalità che merita di essere valorizzata.

C'è un comportamento che storicamente ha contraddistinto l'Europa e che a mio parere ha contraddetto la sua vocazione ed è la colonizzazione. Ma la decolonizzazione pressoché integrale del secondo dopoguerra ha reso l'Europa a se stessa.

Da sempre l'Europa è uno straordinario centro d'attrazione di diversi popoli e culture.

E poi, non dimentichiamo che la democrazia nasce in Europa, prima nella letteratura e nella filosofia con i greci e poi nella sua pratica attuazione.

Nell'Europa antica esisteva una piazza pubblica - l'Agorà dei greci, il Foro dei romani - in cui i cittadini si incontravano per discutere e prendere decisioni. E perfino nei monasteri medievali è esistita una forma di democrazia, se è vero che gli abati erano eletti da tutti i monaci.

Queste ed altre sono le ragioni che la storia ci consegna per costruire la nostra Europa


                                                                    Jacques Le Goff


Fonte: da Laterza.it

giovedì 10 aprile 2014

Una Repubblica fondata sul bene comune


"Solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione può far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile". 
Pubblichiamo la prefazione di Salvatore Settis al volume "Il territorio bene comune degli italiani" di Paolo Maddalena (Donzelli).



Una nuova dimensione politica avanza con passo lento, incerto, desultorio: è la politica dei cittadini, che si forma e si esercita non necessariamente contro, ma sicuramente malgrado la politica dei politici di mestiere. 
Forse in nessuna democrazia quanto in Italia vediamo oggi la «politica militante» «trasformarsi da munus publicum in una professione privata, in un impiego», secondo la desolata profezia di Piero Calamandrei. 
La politique politicienne diventa anzi anche troppo spesso uno strumento, ora inconsapevole ora cinicamente complice, al servizio della devastazione delle istituzioni e dello Stato mirata alla spartizione delle spoglie, al feroce saccheggio di risorse comuni e pubbliche per il vantaggio dei pochi.
 Ma «politica» dovrebbe invece essere, non solo per etimologia ma anche per le ragioni della storia e dell’etica, prima di tutto un libero discorso da cittadino a cittadino: un discorso sulla polis, dentro la comunità dei cittadini e a suo beneficio.

Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in quanto tali, e non per ambizioni, patteggiamenti e scambi di potere e di carriera, in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi, sui grandi temi del bene comune, dei diritti della persona, della costruzione del futuro per le nuove generazioni. 
Davanti al neo-assolutismo di un’economia che degrada perfino gli esseri umani a meri fattori di costo, costringendoli a nuove forme di servitù e condannando alla disoccupazione le «generazioni perdute» dei giovani, è sempre più essenziale il richiamo alla polis (cioè alle comunità di cittadini) come spazio di riflessione, di discussione, di progetto e di resistenza che esalti e consolidi le libertà personali mentre costruisce una lungimirante etica pubblica.

Ma il bene comune è oggi sempre più spesso accantonato come un ferrovecchio, e in nome delle logiche di mercato cresce ogni giorno l’erosione dei diritti, si consolida la struttura autoritaria dei governi, la loro funzione ancillare rispetto ai centri del potere finanziario e bancario, «stanze dei bottoni» totalmente al di fuori di ogni meccanismo democratico di selezione, al riparo da ogni controllo, al di sopra di ogni regola, di ogni legalità, di ogni sanzione. 
«Mai nella storia l’umanità è stata di fronte a un’alternativa così radicale: o cambiare profondamente i valori della nostra civiltà o perire», ha scritto in un suo libro recente Heiner Geissler, deputato Cdu per 25 anni, ministro in un Land e poi nel governo federale, e infine segretario generale della Cdu (1977-89)*, che nel nuovo scenario economico e politico ha profondamente modificato le proprie idee, come su una drammatica via di Damasco. Politica, cittadinanza, scontro frontale fra le ragioni del mercato e i principi del bene comune: queste le coordinate entro le quali Paolo Maddalena ha composto questo suo libro.

Il carattere squisitamente urbano di alcune grandi proteste popolari degli ultimi anni, da Madrid (Puerta del Sol) a New York (Zuccotti Park) ha almeno due matrici, anche se non tutti ne sono consapevoli. Prima di tutto, la forte tematica del diritto alla città non solo come spazio urbano ma per il necessario equilibrio, dimensionale e strutturale, fra il tessuto delle architetture e delle strade e la dignità personale dei cittadini. 
A quasi cinquant’anni dal Droit à la ville di Henri Lefebvre (1968, ma prima dei moti parigini del Maggio), questa riflessione aveva bisogno di un radicale ripensamento davanti al disfacimento della forma urbana che la generò e all’insorgere delle megalopoli, le immense conurbazioni formatesi al servizio di altrettante spietate macchine produttive.  
Rebel Cities. From the Right to the City to the Urban Revolution di David Harvey (Verso, 2013) ci offre oggi una nuova cornice di pensiero e di categorie descrittive per dare aldiritto alla città, attraverso l’universo dei beni comuni, la nuova dimensione di una cittadinanza consapevole dei propri diritti sovrani: primo passo per intendere come, perché e da chi essi sono calpestati, e per organizzare una riscossa.

La seconda matrice è più remota: ed è l’antica arma dell’azione popolare, che già nel diritto romano rappresentava al massimo livello la dignità personale del cittadino, conferendogli il potere di agire contro le istituzioni in nome del bene comune, contro le mutevoli leggi in nome di uno stabile Diritto intessuto di profondi legami sociali e di alti principi etici. 
Non insisto qui su questo tema, al quale è dedicato un mio libro recente (Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, 2013); se non per ricordare il filo rosso che lo riconnette al diritto di resistenza del cittadino, quale ricorre in alcune antiche Costituzioni, per esempio in quella della Repubblica Partenopea (1799) che all’art. 15 lo definisce «il baluardo di tutti i diritti». 
È un diritto che ricompare oggi insistentemente sulla scena, riarticolato secondo i linguaggi della adversary democracy, e cioè della necessaria dinamica fra gli organi della democrazia rappresentativa e il diritto di parola dei cittadini (singoli o associati). 
Perché in uno Stato moderno è cruciale «l’idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (così Nadia Urbinati).

Queste due matrici del nuovo dissenso (diritto alla città e azione popolare) hanno in comune un punto essenziale, il richiamo ad alti principi etico-politici contro la contingenza di norme concepite al servizio del potere. 
Nello scenario italiano di oggi, questo aspro contrasto, evidenziato dal continuo ricorso a norme efferate non solo ad personam ma contra cives (basti richiamare il «federalismo demaniale» o le leggi elettorali che impediscono al cittadino la libera scelta dei propri rappresentanti, dalPorcellum di Calderoli alla similare proposta Berlusconi-Renzi), prende la forma di un richiamo alla Costituzione della Repubblica. 
In essa troviamo il coerente manifesto di uno Stato fondato sul bene comune e non sul profitto dei pochi; sulla dignità della persona e non sulla sua oppressione; sul diritto al lavoro e non sull’«austerità» che condanna alla disoccupazione; sulla cultura che progetta il futuro e non su una pretesa «stabilità» che di fatto paralizza il paese.

È in questo aspro contrasto che si capisce – che è, anzi, necessaria e sacrosanta – l’ira dei miti. «Oggi Goethe andrebbe sulle barricate», ha scritto John le Carré.
 È in questo quadro che Paolo Maddalena ha raggiunto con questo libro il punto (per ora) culminante della sua traiettoria di giurista, che parte da una formazione romanistica, passa attraverso la Corte costituzionale, e attraverso la riflessione sul danno ambientale e sulle tematiche connesse allarga crescentemente il proprio orizzonte. Già col suo importante libro sul Danno pubblico ambientale (Maggioli, 1990), con numerosi altri contributi di studio e col suo lavoro di capo dell’Ufficio legislativo al ministero dell’Ambiente, ma poi specialmente con la sua opera di giudice della Corte costituzionale (2002-2011), l’autore di questo libro ha mostrato una straordinaria sensibilità, illuminata dai valori della Costituzione, verso l’interesse pubblico e la necessità di proteggerlo con norme di alto profilo e radici profonde nella nostra tradizione normativa.

Fra le pronunce da lui redatte alla Corte, specialmente numerose sono quelle incentrate sui temi dell’ambiente. Si sa che la tutela dell’ambiente è assente nel testo originario della Costituzione (quale entrò in vigore il 1° gennaio 1948); ma la sua rilevanza giuridica emerse gradualmente ben prima che la riforma del Titolo V (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ne prendesse atto, e Paolo Maddalena è fra quanti vi hanno contribuito con lucido argomentare. 
Le pronunce della giurisprudenza costituzionale avevano messo a punto, almeno a partire dalla sentenza n. 151 del 1986, la centralità della tutela dell’ambiente, come nozione giuridica e come dovere civile, rilevandone i molteplici intrecci con altri interessi costituzionalmente rilevanti, in particolare nell’incrocio fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32). 

Questo percorso mette in luce la straordinaria lungimiranza della nostra Carta costituzionale. Nata in un momento storico in cui la cultura ambientalistica non si era ancor formata, essa tuttavia fissò già allora un sistema di relazioni, di valori e di principi a difesa del cittadino, che hanno consentito al giudice delle leggi di affermare con forza la tutela dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini.

Paolo Maddalena ha contribuito notevolmente a consolidare questa evoluzione, con le sentenze di cui è stato estensore alla Corte costituzionale e, più di recente, come autore di numerosi saggi, fra cui specialmente rilevante è Ambiente, bene comune (nel volume a cura di Tomaso Montanari Costituzione incompiuta, Einaudi, 2013).
 Ma vi aveva contribuito anche prima di entrare da giudice alla Consulta, affermando, con circa venti anni di anticipo sulla normativa comunitaria (direttiva 2004/35/CE), la risarcibilità del danno ambientale, il quale non è un danno civilistico di natura individuale, bensì un danno pubblico, nel senso che è un danno alla collettività e allo Stato che la rappresenta e la incarna. In tale concezione, già accolta in Italia dalla l. 349/1986, l’ambiente è un bene comune, e come tale l’interesse pubblico dello Stato coincide con il diritto individuale, fondamentale e inviolabile, alla fruizione e alla tutela dell’ambiente. 
Ma la tutela ambientale (come quella del paesaggio e del patrimonio storico-artistico) non è un tema «di nicchia»: a ogni giorno che passa, la devastazione dell’ambiente è sempre più chiaramente la cartina di tornasole di un degrado etico, politico e civile che, per essere combattuto, deve giocoforza ricorrere a categorie analitiche ancor più ampie, collegandosi ad altre prescrizioni costituzionali, ad altri diritti. 
Dobbiamo dunque cercare la radice del male nella deriva della politica, nell’invasiva presenza della finanza e dei mercati, nell’asservimento delle istituzioni democratiche ai poteri non-democratici di banche e imprese. Proporre, come fa Maddalena, una nuova consapevolezza del cittadino a partire dall’orizzonte dei suoi diritti.

L’argomentazione sul territorio come bene comune degli italiani, che Maddalena ci offre in questo libro, è un contributo, appassionato e rigoroso, a quella discussione sui beni comuni che va oggi dilagando, ma non sempre con piena consapevolezza delle categorie giuridiche adoperate né del loro spessore storico né, infine, del loro concreto potenziale politico e civile.  
Pochi intendono infatti, come Maddalena fa in questo libro, che solo il rigoroso fondamento sul disegno di società voluto dalla Costituzione e il puntuale radicarsi nel nostro ordinamento possono far uscire le tematiche dei beni comuni dal limbo dell’utopia, e farne invece il manifesto di una politica dei cittadini non solo auspicabile, ma possibile
Perciò è necessario far crescere nei cittadini (come sarà, credo, per ogni lettore di questo libro) la consapevolezza di categorie come «proprietà pubblica»/«proprietà privata»/ «proprietà collettiva», nella loro interazione e nella loro gerarchia. Partendo dallo squilibrio ambientale, economico, sociale che è sotto gli occhi di tutti, Paolo Maddalena ha costruito in queste pagine un percorso che lega fortemente, come vuole la Costituzione, le forme della proprietà ai diritti fondamentali, e ha indicato le res communes omnium come lo scenario di una rinnovata tensione fra i problemi (e i rischi) della biosfera e lo statuto (e i doveri) della cittadinanza.

Tutto in questo libro, anche l’ingrediente romanistico usato come grimaldello esplicativo e non come apparato erudito, concorre a un calibrato omaggio alla Costituzione, in particolare al disegno di «ordine pubblico economico» scolpito negli artt. 41-46, dei quali Maddalena sottolinea il carattere precettivo. A questa luce, egli scrive, «è un intero mondo di cose che deve essere rivisto e ripensato.
 La distruzione del nostro territorio, infatti, può essere evitata non solo con norme penali ma anche, e forse soprattutto, facendo valere l’inesistenza di diritti di proprietà che perseguano una funzione “antisociale”, ovvero la nullità assoluta di contratti con “causa illecita”, aventi anch’essi un chiaro contenuto “antisociale” (art. 1322 c.c.)».

Centrale è dunque, in questo libro, il principio di «utilità sociale», che illumina non solo la tessitura della Costituzione, ma l’intero nostro ordinamento, rendendo possibili forme di azione popolare che non siano astratte rivendicazioni ma forti e concreti richiami alla legalità costituzionale; ad esempio specificando e limitando lo ius aedificandi, che non può essere inerziale e inespugnabile attributo di una rendita fondiaria spesso parassitaria e devastatrice. 
Su questo come su altri punti, l’apporto interpretativo e propositivo di Paolo Maddalena in questo libro dovrà, io spero, trovare nei movimenti di resistenza civile e di consapevolezza ambientale il proprio spazio di sperimentazione e di applicazione, fra diritto alla città e azione popolare.

* Sapere aude! Warum wir eine neue Aufklärung brauchen, Ullstein, Berlin 2012.

                                                    Salvatore Settis



lunedì 7 aprile 2014

Parola di Zygmunt Bauman: Siamo sospesi tra Orrori e Rischi...


Zygmunt Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono; ma è anche un grande lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti che attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una cognizione ancora confusa. 
Se nei suoi saggi si è rivelato il più efficace e originale inventore di linguaggio, quello della modernità «liquida», quello che ha saputo meglio rappresentare la svolta dalla solidità rocciosa dell’epoca industriale fordista alla instabile fragilità dell’oggi, questo è avvenuto grazie alle doti raffinate della sua scrittura e del suo eloquio, che riescono a conquistare il pubblico come solo i grandi narratori.

Siamo sospesi tra orrori e rischi. 

Bauman rende omaggio in modo esplicito alla molteplicità delle sue infinite fonti, ma nel riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro trova poi quasi sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori immagini e parole che marcano l’idea in modo permanente. 

Così avviene anche in questo testo sulla «paura», che rielabora suoi lavori precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica.

 Il tema hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria politica da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo fondativo del potere assoluto del Leviatano sia la virtù del principe che ne sappia governare gli effetti. 

In queste pagine troviamo quel genere di paura che alimenta e/o avvelena tanta parte della politica contemporanea. Del resto l’autore di Modernità liquida, di Homo consumens e di La società individualizzata cominciava l’ultimo articolo apparso su Repubblica così: «Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi», paura di cose certificate dalla storia nel nostro passato e paura di cose incerte nel nostro futuro.

domenica 6 aprile 2014

Frida magnificamente Kahlo

L'esposizione alle Scuderie del Quirinale su Frida Kahlo, è un eccezionale evento culturale da non lasciassi sfuggire, inaugurata il 20 marzo 2014 si chiuderà il 31 agosto 2014.



Lo straordinario allestimento, curato da Helga Prigniz-Poda, indaga Frida Kahlo nel suo rapporto con i movimenti artistici dell'epoca, dal Modernismo messicano al Surrealismo internazionale, analizzandone le influenze sulle sue opere, con eleganza e attenta sensibilità conoscitiva.





Frida Kahlo la ribelle, l'ocultadora, l'ironica pasionaria dell'arte, fu il simbolo dell'avanguardia e dell'esuberanza artistica della cultura messicana del Novecento.

La mostra alle Scuderie del Quirinale, presenta l'intera carriera artistica di Frida Kahlo riunendo i capolavori assoluti delle principali collezioni, raccolte pubbliche e private, provenienti da Messico, Europa e Stati Uniti. 





Oltre 40 straordinari capolavori, tra cui il celeberrimo Autoritratto con collana di spine e colibrì del 1940, per la prima volta esposto in Italia, o l'Autoritratto con abito di velluto del 1926, dipinto a soli 19 anni ed eseguito per l'amato Alejandro Gòmez Arias, dove il suo collo allungato recupera l'estetica di Parmigianino e di Modigliani.



 
Una selezione di disegni completa il progetto, tra cui il Bozzetto per "Henry Ford Hospital" del 1932, il famoso corsetto in gesso che tenne Frida prigioniera negli ultimi, difficili anni della sua malattia e che l'artista decorò con una serie di simboli dipinti e, infine, alcune eccezionali fotografie, in particolare quelle realizzate da Nickolas Muray, tra cui Frida Kahlo sulla panca bianca del 1938 diventata poi una famosa copertina della rivista Vogue.





Il tema principale è, quindi, l'autorappresentazione che Frida elabora attraverso i linguaggi protagonisti delle varie epoche e che ci restituisce lo specialissimo significato che ha rappresentato nella trasmissione dei valori iconografici, psicologici e culturali.
 
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón diceva di essere nata nel 1910, anno di inizio della Rivoluzione, mentre in realtà era nata il 6 luglio 1907 a Coyoacán (Città del Messico). 





I suoi dipinti non sono soltanto lo specchio della sua vicenda biografica, segnata dal terribile incidente in cui fu coinvolta all'età di 17 anni, la sua arte si fonde con la storia e lo spirito del mondo a lei contemporaneo, riflettendo le trasformazioni sociali e culturali che avevano portato alla Rivoluzione e che ad essa seguirono.

Attraverso il suo spirito ribelle, reinterpretò il passato indigeno e le tradizioni folkloriche, codici identitari generatori di un'inedita fusione tra l'espressione del sé, l'immaginario e i colori e i simboli della cultura popolare messicana.






Allo stesso tempo, lo studio della sua opera permette di capire l'intreccio delle traiettorie di tutti i movimenti culturali internazionali che attraversarono il Messico in quel tempo: dal Pauperismo rivoluzionario all'Estridentismo, dal Surrealismo a quello che più tardi prese il nome di Realismo magico. 


Per questa ragione il percorso espositivo della mostra accoglie, accanto ai lavori di Frida Kahlo, anche una selezione di opere degli artisti attivi in quel periodo che hanno "vissuto" fisicamente e artisticamente vicino a Frida Kahlo. 

Dal marito Diego Rivera, presente nella mostra con alcune opere significative quali, ad esempio, Ritratto di Natasha Gelman del 1943 e Nudo (Frida Kahlo) del 1930; ad una selezione di artisti, decisivi per l'opera stessa di Frida che attivamente hanno influenzato un intero periodo artistico: José Clemente Orozco, José David Alfaro Siqueiros, Maria Izquierdo e altri.
                                               

                                                Donna Bruzia





sabato 5 aprile 2014

Donne che odiano altre Donne

Misoginia femminile


 
C’è un posto speciale all’inferno per quelle donne che si sono astenute dall’aiutare altre donne. Madlein Albreit
German Greer la famosa autrice di: L’Eunuco femmina, afferma che la sua preoccupazione maggiore nei confronti della questione femminile, è la misoginia femminile.
Solo a dirlo pare un’anatema, e solo poche donne pur sapendo che è vero, saranno disposte ad ammetterlo.
I pregiudizi, e le intime divisioni tra donne, sono molto più profonde di quello che si crede; il problema comunemente è ben mimetizzato dall’abbandanza di: tesoro”, “carissima amore, bella, con cui moltissime donne intercalano cicalecci pieni di tensione.
Gli uomini lo sanno benissimo, lo vedono con maggior chiarezza, e sono spesso pronti a servirsene per esercitare il loro potere.
Per le donne invece, la mancata consapevolezza di questa profonda ed intima ferita, spesso negata da idealizzazioni superficiali, che nulla hanno a che vedere con una reale integrazione emozionale e corporea, crea costantemente danni al loro senso di realtà e di identità.
Le radici del male sono antiche; parte dalle genitrici, sostanzialmente è una catena di dolore e rinnegamento, che si perpetua di madre in figlia.
La misoginia femminile è ben mascherata da luoghi comuni che attribuiscono alla donna una maggiore abilità nel creare le relazioni; quando invece andando oltre le apparenze, ostilità, antagonismo e incapacità di sostenersi l’un l’altra, sono di frequente il leit motiv della vita di molte donne, a partire dalla famiglia di origine.
Se le donne non saranno in grado di rinunciare all’atavica ipocrisia di cui si servono per mascherare antagonismo ed ostilità, sarà improbabile che riescano a trovare in se stesse e nel confronto con le altre, la forza necessaria per evitare di essere vittimizzate dal loro perenne auto-sabotaggio.
L’inconsapevole misoginia dalla quale sono afflitte, è l’ostacolo maggiore alla realizzazione della loro pienezza ed integrità. Anche se va considerato che è difficilissimo non interiorizzare un tale sessismo, a causa del rischio di rifiuto sempre alto da parte di madri, parenti ed educatrici varie.
Le donne hanno interiorizzato il linguaggio e le convinzioni di genere sessuale ereditato dalle madri, dalle nonne, e dalle bisnonne; per molte l’interiorizzazione di tale linguaggio, non è stato causato solo da necessità affettive, o di identità, ma anche da ragioni economiche. Non ci si può aspettare che dopo le migliaia e migliaia donne bruciate vive come streghe, non si soffra ancora delle conseguenze di tale eccidio.
Vedo spesso donne riempirsi d’invidia e gelosia nei confronti di donne capci di imporsi ed esigere rispetto; un rispetto tra l’altro, che molte di loro, non hanno mai ricevuto, a partire dai membri della loro famiglia e, mai si sogneranno di avere.
Uscire fuori dal seminato designato da una ideologia patriarcale e misogina, fa scattare meccanismi di negatività e antagonismo, non solo nei maschi ma anche nelle donne.
Competitività e gelosia sono inevitabili quando le donne sono programmate per vivere in una società che le posiziona a livelli di disparità con gli uomini.
A volte la misoginia femminile può essere intesa (ma non scusata), come un atto di benevolenza, dove donne insegnano ad altre donne le regole della sopravvivenza per evitare di fronteggiare le conseguenze di una rottura di schemi.
Le madri insegnano alle loro figlie come sopravvivere; per esempio, una madre può incoraggiare sua figlia a sposare un uomo benestante, anche se emotivamente non disponibile; o ancor peggio, una madre può evitare di sostenere sua figlia nel separarsi da un marito violento, per la sua propria paura di non sopravvivere senza un uomo. Tuttavia prima di condannare queste madri, sarebbe opportuno chiederci dove mai avrebbero potuto imparare a comportarsi differentemente.
Quali opzioni hanno veramente avuto a disposizione? Tutto sommato è proprio in questo modo che la misoginia opera: si limitano le possibilità di scelta delle donne, si tacitano le loro voci e le si estranea da se stesse. La realtà è che la gran parte delle donne non sa proprio come sopravvivere al di fuori di regole patriarcali.
In questo modo la gelosia tra donne non può che crescere, come animali reclusi oltre che esclusi dalla pienezza del loro potere, non potranno vedere in termini positivi, l’affrancamento di una loro sorella o compagna, che rivendica una vita di parità di diritti e di scelte.
La gelosia femminile, è una naturale conseguenza dell’essere invisibili e affamate di attenzioni da generazioni, dell’essere state trascurate da chi avrebbe dovuto avere cura di loro e proteggerle. La negazione di tali bisogni messi costantemente da parte per soddisfare quelli altrui, ha reso le donne giorno dopo giorno emotivamente povere e fameliche.
E’ difficile in tali condizioni tollerare, che altre donne siano ben nutrite o addirittura benestanti. Quando si è alla fame in molti sensi, e quando questa invidia non è riconosciuta, oppure è compensata da superficiali comportamenti collusivi, le conseguenze a scapito del senso del proprio valore sono disastrose tanto per se quanto per le altre.
La paura di non piacere abbastanza, di ritrovarsi sole, sono motivazioni di enorme importanza nel giustificare la ritirata in nidi limitanti, spesso umilianti ma considerati sicuri e famigliari.
Il femminismo può aiutare le donne a investigare queste collusioni, a prendere maggior coscienza della sottostante misoginia, ma lotta politica per la conquista di pari diritti, è solo una parte del problema, e se la politica è parte della persona, il lavoro politico deve avvalersi anche di un lavoro interiore.
E’ solo grazie all’onesta e alla trasparenza nei confronti della propria misoginia, di com’è stata introiettata e diffusa in modo contagioso, alla chiarezza della serie di limitazioni che il modo si aspetta da loro, che potremo creare una società di donne forti per le quali “NO”, non è sempre una risposta.
Quando le donne cominceranno a rendersi conto che sono state educate a vivere nella deprivazione grazie a diete che le rendono immensamente leggere ed invisibili, non saranno più invidiose o gelose, delle loro compagne e sorelle maggiormente consistenti.
Le madri non insegneranno più alle loro figlie come sopravvivere in mancanza di auto-nutrimento, poiché loro stesse non si rassegneranno a vivere senza il rispetto e la soddisfazione dei loro bisogni.
Senza la comprensione profonda di tali problematiche insediate nella carne, grazie regole patriarcali ampiamente collaudate, non sarà possibile rendersi conto di come le donne vivono troppo spesso la condizioni di granchi intrappolati in un secchio: quando una di loro tenterà di venir fuori, l’altra la tirerà giù evitandole ogni possibilità di fuga.
La paura di non piacere, di rimanere sole o delle conseguenza di una rottura di schemi per affermare la propria unicità ed indipendenza, sono motivazioni sufficienti per sopportare la reclusione in ruoli angusti ma tutto sommato sicuri.
Le donne hanno imparato da troppo tempo come sopravvivere accontentandosi del loro piccolo, ma non sono riuscite ancora a riconoscere quanto è grande questa denutrizione collettiva.
Non riescono ancora ad ammettere come ci si sente male ad essere criticate, trascurate, abbandonate dalle altre donne. Si cerca ancora negli uomini il senso del proprio valore, del proprio diritto di esistere, ignorando che un uomo non sarà mai in grado di soddisfare questo bisogno.
Le donne hanno bisogno di donne per formare e preservare il loro senso di identità, alla stessa stregua degli uomini, i quali hanno bisogno del supporto e del riconoscimento di altri uomini per le medesime ragioni.
Non sarà possibile costruire profonde e significative relazioni con il sesso opposto, se il senso di identità sarà precario, se non sarà possibile contare sul rispetto, l’amore e il sostegno di persone del proprio sesso.
Per fiorire e diventare forti, abbiamo bisogno di un senso di sincera e profonda coesione con le altre, come ai vecchi tempi, quando le donne si univano con piacere per aiutarsi e condividere la loro saggezza e la loro ricchezza, poiché erano nutrite e avevano qualcosa di consistente da offrire.
Non c’era il livello di progresso di cui abbiamo beneficiato sempre più spesso nel corso della nostra evoluzione, ma di sicuro era presente un maggior senso di identità e forza in entrambi i sessi.
Il desiderio e l’ambizione più grande era somigliare alla propria madre, alle anziane, e lo stesso era per i fanciulli; nessun fanciullo o fanciulla, si sarebbe sognato di essere più di suo padre o sua madre, somigliare a loro era l’orgoglio e la gioia più grande.
Provate oggi a dire ad una donna che somiglia a sua madre; nella gran parte dei casi si sentirà offesa. Questo è il primo sintomo della sua misoginia e della fragilità della sua identità, anche se in moltissimi casi non ne sarà minimamente consapevole, troppo distratta dal cercare fuori di se le ragioni della propria insicurezza e della propria miseria.



                                 Antonella Iurilli Duhamel


 Nota dell'Autrice
Libero professionista la sua formazione è stata influenzata dalle molteplici esperienze esistenziali, dai lunghi soggiorni in luoghi molto differenziati e dalle stesse radici familiari. Scultrice, pittrice e psicologa, ha messo a frutto la sua formazione universitaria- semiologia, antropologia e psicologia- per approfondire le tematiche che sono sempre state al centro della sua ricerca, come donna e come artista: l’identificazione del ruolo sessuale femminile e maschile, nonchè il rapporto dell’uomo moderno con le emozioni, la vita e la natura . 
E’ membro della Società di belle Arti di Verona, della Societè Quebequoise des Beaux arts e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis di New York .

venerdì 4 aprile 2014

INCONTRO SULLA TORRE

Sul Quotidiano della Calabria e su Acri In Rete è apparso un resoconto dell’incontro tra lo scultore Vigliaturo e le Associazioni culturali della città. Alla fine dell’articolo c’è una ‘stoccata’ che il Maestro dedica al restauro della Torre, e quindi anche all’autore, perché non si è tenuto conto della peculiarità e della storia dell’edificio ( … edificio,  ha detto proprio così , il Maestro…) e quello che è stato fatto non è un vero e proprio restauro, ma un rifacimento.
Per ovvi motivi non dovrei nemmeno replicare a sciocchezze del genere, ma poiché il giudizio , per così dire, viene non dai soliti cani da pagliaio ma da uno straordinario scultore e più straordinario ancora pittore, cercherò di spiegare le ragioni di un restauro, tanto più che si tratta di un problema che riguarda tutta la popolazione: per questo  presenterò una  documentazione scritta seppure parziale, una microstoria di un certo interesse anche se poco conosciuta.
1. Di origine normanna (sec.XIII) il Castello appartiene alle tipologie delle fortificazioni non a grande scala, poste a intervalli più o meno regolari a sorveglianza di territori o singoli ‘passaggi’ con funzioni di vedetta o controllo al di qua o al di là delle frontiere.
Nel 1400 venne utilizzato come abitazione civile per funzionari governativi (Capitano de popolo, Governatore e personale appartenente all’Autorità regia).
Storici meridionali quali Barrio (De situ et antiquitate Calabriae, Roma 1571,pag.398) e Giovanni Pontano ( De Bello neaoplitano. Napoli,1492) descrivono Acri come terra ‘imprendibile’ per le sue caratteristiche fisico-naturali.
Pontano fa riferimento a un ‘Castel vetus’, per distinguerne probabilmente una parte nuova da una preesistente.
In questo castello si rifugia, inseguito dagli Aragonesi, il Vicerè angioino Grimaldi, poiché Acri era rimasto l’unico baluardo all’interno dei paesi vicini.
Presa per tradimento, Acri capitola e i Castello vien disattivato nei suoi sistemi difensivi (ponti, mura ecc.) e resta accessibile.
Bella “Platea della Valle” 81544), redatta per incarico di Carlo V, tra i possedimenti citati c’è questo Castello con le varie pertinenze: “Castrum circundatum turribus et rebellinis consitens in pluribus membri superioribus et inferioribus cisterna et aliis ad dictum castrum spectantibus, et pertitentibus”.
Come si evince da questa sia pur breve descrizione, il Castello doveva avere una struttura assai complessa; probabilmente era di forma trapezoidale o rettangolare con almeno tre torri agli angoli, a forma di semicerchio; all’interno stava il castello, a forma di semicerchio, a più livelli /due o tre) e fornito di un sistema di difesa e di autosufficienza.
Ogni torre misurava circa 10 metri di altezza, con un diametro di 5 metri.
Dopo la seconda metà del 1500 comincia ad andare in rovina e le costruzioni private che sorgono al di fuori del suo perimetro vengono in parte o completamente edificate con le pietre che provengono dal Castello.
Da allora resta in piedi solo una delle torri, quella che esiste attualmente.
Nel 1700, diventata Acri  sede dei Sanseverino, principe di Bisignano, e dato lo stato di abbandono in cui si trova anche in conseguenza di una frana sul lato sud, il Castello viene abbandonato con ulteriore prelievo di pietre e altro materiale.
Alla fine del 1700 il Comune di Acri vi installa un orologio ‘alla francese’, che tuttora esiste e si trova nel secondo livello della torre e che serviva a scandire il tempo per tutta la popolazione.
Nel 1800 vi vengono fatti alcuni interventi di restauro perché è diventato ormai il simbolo del paese.
L’’ultimo intervento viene fatto negli anni Quaranta, con l’aggiunta di qualche superfetazione costruttiva e la sostituzione di alcune scalette interne.
Da allora il Castello ha incominciato a perdere anche le residue caratteristiche funzionali e a mantenere solo quelle di immagine simbolica.
Infine,verso la fine degli anni ’50, nello spazio ad essa retrostante viene installata un’antenna per la ripetizione del segnale audio-visivo, e nelle sue pendici vengono costruite due cabine, una della Rai e l’altra dell’Enel.
Questi ultimi due interventi l’hanno ancora di più marginalizzata. Tutto ciò chiarisce anche in quale considerazione è stata tenuta per tutti gli anni che vanoi dal dopoguerra alla fine degli anni ’80.

Prima di elaborare il progetto è stato fatto un accurato rilievo della Torre e dell’area e contemporaneamente ho cercato quanto più materiale possibile potesse avere relazione e/ o un qualche riferimento con la Torre.
Nei soffitti e negli scantinati del Municipio ho trovato in posti diversi e sparpagliati alcune copie di lettere, note e via la corrispondenza tra i vari Podestà ( allora non c’erano i sindaci) e il Ministro della Cultura, la Soprintendenza ecc., e successivamente le relazioni dell’Ufficio Tecnico e il progetto di restauro fatto alla fine degli anni 30.
Il problema si apre agli inizi degli anni 30 e coinvolge ben tre Podesta che si succedono in quegli anni, A. Giannone, F.Sprovieri e M.Talarico : quasi un decennio di richieste di fondi alla Soprintendenza e al Ministero  per poter restaurare la Torre e di altrettante risposte negative, fino a quando l’amministrazione non si decide a intervenire con i propri fondi di bilancio
Per dare un’idea,e a titolo puramente esemplificativo, riporto quì una parte di questo carteggio.
5. marzo 1931.
Castello di Acri. Torre dell’orologio.
All’On. Ministero dell’Educazione nazionale- Direz.Gen. Antichià edc Arte.
Roma.
Raccomandata.
Dell’antico Castello di Acri è superstite una sola torre. In essa è posto l’antico orologio comunale. La torre è per andare in rovina, ed in deplorevoli condizioni trovasi l’orologio predetto.
Trattasi, intanto, di due insigni monumenti che meritano di essere conosciuti e conservati.
Infatti, il Castello- immortalato dal Pontano nel suo “De bello  neapolitano”- fu teatri, nel secolo XV, di uno degli episodi più eroici della lotta fra Angioini ed Aragonesi; e l’orologio è una reliquia eloquente dello sviluppo che nella nostra regione avevano- pur negli antichi tempi- le arti meccaniche, giacchè venne costruito da Francesco Cantisano da Mormanno nella prima metà del secolo XVIII, giusta un importante documento originale posseduto dall’ Avv. Capalbo di questo Comune.
Credendo di fare opera consona alle direttive di cotesto On. Dicastero per la buona conservazione dei monumenti, segnalo quando precede: invocando l’intervento dello Stato per le opere necessarie, ed alligando una perizia sommaria che all’uopo ho creduto opportuno far redigere, ed unendo anche due copie di fotografia delle torre, spiacente di non poter fare altrettanto per l’orologio perché le condizioni della scaletta interna non hanno permesso al fotografo di salire sino al macchinario.
Aggiungo che le condizioni finanziarie del Comune non mi consentono alcun concorso nella spesa d’altra parte lieve in raffronto con lo scopo cui tenderebbe, e che perciò potrà essere sostenuta interamente dal bilancio statale.
Porgo sin da ora i più vivi ringraziamenti, interpretando anche i sentimenti di riconoscenza di questa cittadinanza.
IL PODESTA’
( Comm. Nob. Filippo Sprovieri).
Istanza simile venne spedita 1l 17 maggio 193° alla soprint. Di Reggio Calabria.
Che così risponde:
In conseguenza del recente terremoto in Lucania che ha danneggito non pochi insigni monumenti, questo Ufficio ha impegnato tutte le sue risorse di personale e di fondi per fronteggiare detta situazione.
Pur convenendo pertanto della necessità di riparare codetta antica Torre dell’orologio, la Soprintendenza per il momento non è in grado di intervenire neppure con un piccolo contributo.
Voglia pertanto la S.V. rivolgere direttamente un’istanza al Ministro dell’Educazione, corredandola con le fotografie della Torre e con una perizia specificata dei avori da compiere. E quando la pratica sarà a noi trasmessa per il parere, si capisce che l’appoggeremo.
Intanto gradisca deferenti saluti.
Il Soprintendente.
25 settembre 1930.
Risposta del Ministero ) aprile 1931.

Spiace di non poter dare alcun affidamento per quanto riguarda la concessione di un concorso governativo nelle opere di restauro occorrenti all Torre in oggetto, poiché le scarse disponibilità del bilancio, completamente assorbite da numersi impegni assunti in passato con consentono in modo assoluto do assumete nuovi oneri.
IL MINISTRO.
7 marzo 1933.
Richiesta del Podestà Angelo Giannone
Facendo seguito alla lettera 5 marzo 1931 n 970 rivolta a cotesto On. Ministero e relativa all’oggetto, mi pregio far noto che le condizioni della torre dell’orologio sono venute man mano peggiorando tanto che una delle campane dell’orologio istesso è caduta ed ha dovuto essere trasportata in questo edificio municipale per esservi custodita.
  Se nel 1931 le condizioni delle disponibilità di fondi erano tali da non consentire l’intervento dello Stato per le opere di restauro prospettate e risultanti dalla perizia allora trasmessa, ho fiducia che ciò invece sia possibile adesso. Per cui rivolgo a codesto Onorevole Ministero vivissima preghiera in tal senso, per evitare che ogni ulteriore stato d’abbandono della costruzione siripercuota sulla statica di essa e- crollando- oltre a perdersi un prezioso ricordo dell’antichità, apporti danni incalcolabili per l’incolumità delle persone e degli edifici sottostanti.
Gradirò in proposito cortese assicurazione.
Ringrazio ed ossequi.
IL PODESTA’
Conte Angelo Giannone.
Progetto dei lavori urgenti di riparazione alla torre del Castello Medievale. (Podestà Talarico)
°°° Poiché tutte le richieste di finanziamento non furono accolte, l’Amministrazione comunale decide di intervenire con i propri fondi. E’ il Podestà Malarico che affida l’incarico di progetto all’ing. Arturo Pellegrini, di Cosenza.
Quella che segue è la relazione di progetto che l’ing. Pellegrini presenta al comune nel 1938.
Questa relazione è estremamente interessante perché descrive la situazione della Torre per come effettivamente si trovava, e gli interventi previsti per restaurarla.
Relazione.
La torre del Castello Medievale di Acri,la sola che, senza alcuna manutenzione, è riuscita a sfidare i secoli e gli agenti atmosferici, presenta il fianco Nord-est attraversato da lunga e importante lesione, e fortemente spiombata. Sicchè l’unico avanzo- di notevole interesse storico- del travagliato periodo di vita vissuto dalla popolazione di Acri durante le invasioni Aragonesi e Francesi, minaccia di rovinare, se non si provvede a consolidarlo e ripararlo convenientemente.
  Pertanto l’Ill.mo Signor Podestà di Acri, che con vero interesse ed amore studia e cerca di risolvere tutti i problemi della sua cittadina. Mi ha incaricato di redigere il presente progetto di riparazioni, manifestandomi il desiderio che, in cima alla torre, venisse istallata una lampada votiva, in memoria dei gloriosi Caduti in guerra.
I lavori previsti sono:
1)  demolizione dell’esistente copertura, già in massima parte caduta, e della      muratura lesionata e fuori piombo;
2)  ricostruzione della detta muratura, in malta cementizia;
3)  costruzione della soletta di copertura in c.a, e del castelletto per le campane e la lampada votiva;
4) ricostruzione della non più esistente scala interna, in legno castagno.
  Ho previsto, inoltre, una soletta esterna in ferro per l’accesso alla terrazza di copertura, dalla quale si potrà ,così, aver modo di godere un meraviglioso paesaggio alpestre.
  L’ammontare complessivo della spesa è di L. 4.700 delle quali L. 4.500.00 per lavori.
A tale spesa il Comune intende far fronte con la risorsa ordinaria di bilancio.
Ing. Arturo Pellegrini.
Cosenza, 12 maggio 1938.
( Seguono calcoli e specifica)
°°°°
Ancora più interessante è  nel 1939 la relazione successiva  ai lavori , che il responsabile dell’Ufficio Tecnico di allora, il Geometra Pasquale Meringolo fa sui lavori effettivamente eseguiti e in particolare sulla ‘natura’ e il carattere della Torre.
Vorrei sottolineare questo secondo aspetto perché chiarisce in maniera chiara e distinta alcuni problemi e rilievi che sono stati fatti dopo il restauro che ho fatto più di 20 anni fa.
Leggiamola attentamente ( Ovviamente la messa in evidenza in carattere grassetto delle parti più importanti è mia).
Relazione.
Oggetto: Misura finale e stima dei lavori occorsi per la riparazione della Torre Civica comunale di Acri.
Sin dalla demolizione della prima parte del muro perimetrale che minacciava rovina, ci siamo trovati di fronte ad una muratura disgregata ben diversa di quella che appariva in un primo esame, tanto che bastarono le sole mani per mandarla giù. E, mentre nel progetto dell’Ing Pellegrino fu prevista una demolizione per 9 metri cubi, siamo stati costretti a demolirne circa 42 per potere trovare muratura discretamente resistente sulla quale potere posare il nuovo muro.
In verità la Torre, dati i secoli vissuti senza avere avuto mai manutenzione alcuna doveva essere abbattuta tutta e rifatta. Ma ciò cozzava con le condizioni finanziarie del Comune, non troppo liete, perciò si è pensato a piombare il nuovo muro su muratura vecchia, come si disse più sopra,discretamente resistente, legandola a circa 3 metri dalla sommità della Torre, con cordolo di cemento armato, con il rimanente della muratura, e costruendo poi alla sommità predetta altro cordolo di cemento armato tutto in giro sotto la soletta di copertura.
Poiché la forma della Torre è cilindrica fino ad un certo punto ed a tronco di cono abbastanza inclinato verso la sommità, si è dovuto diminuire l’inclinazione conica rettificando la muratura. Da ciò è dipeso l’aumento della superficie della soletta di copertura. E perché le acque cadenti dalla stessa non flagellassero le pareti della Torre la soletta si è dovuta provvedere di una sporgenza di cemento armato larga centimetri 69 e spessa cm 10.
Questa sporgenza si è dovuta poggiarla su 19 mensole di cemento armato che, mentre ne costituiscono un saldo sostegno, abbelliscono armonicamente la parte esterna della Torre.
Inoltre, per effetto della importante demolizione eseguita, non era più possibile limitare l’arricciatura perciò   …, alla sola parte ricostruita e quindi si è dovuta arricciare l’intera superficie esterna della Torre, tanto più che, dato il cuci e scuci occorso a diverse parti della Torre stessa, questo non poteva rimanere alla parte esterna senza l’arricciatura, sia perchè l’occhio ne avrebbe sofferto per riguardo all’estetica e sia perché la consistenza della muratura ne sarebbe stata compromessa in breve tempo. E così, mentre nel progetto vediamo progettati soli mq 42 di arricciatura, in effetto se ne sono eseguiti mq. 585.89.
Per evitare più che sia possibile il peso sui muri della Torre, la balaustra della terrazza progettata in un muretto di mattoni largo 30 centimetri ed alto ottanta centimetri si è trasformata in un muretto di centimetri 10 legato a 18 pilastrini in cemento armato, alto centimetri 80, sulla di cui estremità corre una copertina pure di cemento armato larga cm 30 ed alta cm 10.
Per quanto precedentemente si è esposto il cemento armato previsto nel progetto in metri cubi 2.800 è salito a mc 11.174.
In ultimo, per la scarsezza del ferro e per le difficoltà di trovare le dimensioni stabilite, di fronte all’incalzare minaccioso del tempo e dell’inverno, con la Torre in buona parte demolita, non era prudente aspettare oltre per cercare di potere avere le dimensioni progettate e quindi si è usato il ferro che si è trovati pronto di dimensioni quasi doppie. La differenza del ferro ‘ stata di kg 270.
  Dalle misure scrupolosamente eseguite nel conto finale dei lavori alligato, risulta che l’ammontar complessivo dei lavori al netto del ribasso offerto è di L. 10403.85, contro L. 3917.00 progettate e ciò per le ragioni qui esposte.
Acri 4 marzo 1939.
Geom Pasquale Meringolo.
Tecnico Comunale.
(***)
Se si legge attentamente questa documentazione, ne esce un quadro abbastanza chiaro e che è possibile riassumere in questi termini:
1) Agli inizi degli anni 30 la Torre è in pessime condizioni statico-strutturali,si per mancanza di manutenzione, sia soprattutto per una serie di crolli avvenuti in essa,
  1. C’è la volontà chiara di restaurarla e quantomeno evitarne la distruzione.
  2. Il tipo di restauro fatto.
 4) La totale e assoluta mancanza di un qualsiasi –anche se solo evanescente- riferimento alla presenza di merlatura precedente.
  1. L’intervento di restauro e di adattamento che non tiene conto delle condizioni di partenza, ma aggiunge elementi estranei alla torre.
6)    La  piccola fotografia allegata a una delle richieste di finanziamento.
Vediamoli un po’ meglio.
Ecco, quella che è stata presentata per decenni come una merlatura medievale, quella che in un certo senso ha costituito l’immagine e l’essenza della Torre, e in ogni caso il suo coronamento ‘estetico’, in realtà non è altro che un intervento casuale e convenzionale, in ogni caso intrusivo ed estraneo al carattere e alla natura dell’architettura della Torre, fatto e bisogna ancora una volta sottolinearlo, con un materiale ( c.a) estraneo al resto del materiale da costruzione della Torre.
Già in quegli anni si era posto il problema della ‘forma’ della Torre. Viene posto in maniera esplicita quando si parla di ‘muratura fuori piombo’ dall’ing Pellegrini e dal geom Meringolo, e quando lo stesso geom Meringolo descrive la Torre e dice che non è perfettamente cilindrica ma verso la sommità assume la forma di tronco di cono, dice più o meno che ha la forma di una botte…o meglio non lo dice, ma significa più o meno questo…
Se avessi voluto rendere la forma della Torre a una forma perfettamente cilindrica e regolare, sarebbe stata un’operazione estremamente facile e semplice: bastava ‘riempire’ e ‘rincocciare’ la muratura tenendo conto dei semplici fili  piombo, un’operazione che avrebbe potuto fare un qualsiasi muratore.
( Ma io vent’anni fa non ero o facevo il  muratore e purtroppo non lo sono diventato neanche successivamente. Sono architetto, almeno quando sono messo in condizione di poterlo fare).E’ ovvio che questo aspetto è stato valutato a lungo da me e dal Soprintendente, ed è altrettanto ovvio che questa eventualità è stata esclusa senza avere il minimo dubbio: sarebbe stato un intervento inammissibile, scorretto metodologicamente perché contrario a qualsiasi metodologia di restauro e soprattutto avrebbe contribuito a ‘sfigurare ‘ ulteriormente la forma della Torre e quindi la natura e la sua stessa immagine.
  Ma il problema più importante della Torre non era la sua ‘forma’, era la sua stabilità e quindi la sua stessa esistenza fisica.
  Alla fine degli anni ’80, e cioè dopo quasi cinquanta anni, la Torre si presentava in condizioni assai critiche per questi motivi:
1) La muratura in pietra e  malta di calce  si presentava un notevole grado di obsolescenza.
2) Esisteva un ‘quadro fessurativo’, cioè una serie di lesioni nella muratura piuttosto preoccupante, e in particolare una lesione di ‘tipo profondo’ interessava la Torre all’altezza della porta di ingresso.
3) L’aspetto più grave era costituito da cedimenti nella sua fondazione.
  A questo punto è necessario chiarire come si è intervenuti da questo punto di viista e soprattutto ricordare il lavoro di chi ha collaborato a questo progetto.
La prima consulenza mi è stata data dal Prof. Antonino Gallo Curcio, ordinario di Statica alla Sapienza a Roma, con il quale è stato affrontato il problema generale e in particolare il problema della lesione sulla porta di ingresso aperta arbitrariamente e in maniera incongrua, poichè era stata aperta dove mai avrebbe potuto essere.
  Una seconda consulenza, preziosa e affettuosamente amichevole, mi è stata data in sede di progetto definitivo ( e anche in sede operativa durante i lavori) dagli Ingg Angelo Falivelli e Alfonso Altieri. Con loro furono affrontati e discussi i problemi relativi alla verifica della stabilità del versante sulla vallata del Mucone, della situazione statica generale della Torre e delle soluzioni da adottare.
  Una terza consulenza è stata fatta dai calcolatori del’impresa Guido, Ingg Francesco Gaudio e Paolo Marraffa, con i quali sono stati discussi tutti i problemi relativi al consolidamento e le soluzioni tecniche e operative, soluzioni che sono state studiate, valutate e concordate collettivamente, anche tenendo conto delle indicazioni e delle prescrizioni della Soprintendenza e del modo di procedere dell’impresa.
In precedenza era stata fatta una accurata relazione geologica, con prove penetrometriche
( all’epoca non erano molto frequenti) dal geologo Giovanni Catalano.
Spero di aver portato elementi tali da chiarire la ‘questione Torre’ sia relativamente alla sua forma, sia al consolidamento della sua struttura.
Vorrei aggiungere due cose: il progetto ha ottenuto due approvazioni. Una da parte della Soprintendenza di Cosenza, l’altra della Soprintendenza archeologica di Reggio Calabria, e ovviamente sulla base di un progetto analitico e di documentazione fotografica. Le due Soprintendenze non si sono accorte delle manomissioni che avevo proposto né prima dell’intervento né dopo. Se ne è accorto a distanza di tanti anni il maestro del vetro…Strano che si sia accorto solodi questo restauro e non degli interventi fatti in tante chiese e non solo delle chiese  di Acri.
Comunque sia, conservo ancora tutta la documentazione sulla Torre e se il Maestro ritiene di avere strumenti metodologici e concettuali per poter discutere di restauro  e anche di altro, può farlo nel mio studio in via S.Francesco, a pochi metri dal Suo Museo. Avrò sicuramente da apprendere . Prossimamente avrò  qualcosa da dire, più esattamente da scrivere, sulla sua scultura e sulle attività culturali del suo Museo.


                                                               Giacinto Ferraro


Stato originario



Prima dell'intervento



Dopo dell'intervento




Fonte: Acrinrete.it