mercoledì 30 ottobre 2013

Intellettuali: Contraddizione Vivente. Ma a cosa servono?


Far bene il proprio lavoro’. È questa, secondo un certo refrain oggi piuttosto in voga, la più proficua e doverosa forma di impegno per un intellettuale.
 In realtà, dietro tale formula non si cela altro che una razionalizzazione del disimpegno. 
Oggi più che mai, va invece ribadito che l’‘essere impegnato’, per un intellettuale, equivale a mettere il proprio prestigio e la propria visibilità al servizio della causa della democrazia radicale.



1. L’intellettuale pubblico esiste, questo è un fatto. L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta: un altro fatto, sembrerebbe. Esaminiamoli entrambi.

Che l’intellettuale pubblico esista ancora non c’è dubbio. 
Scrittori, filosofi, registi, le cui prese di posizione «fanno rumore», creano dibattito, influiscono sull’opinione pubblica, talvolta costringono partiti e governi a modificare la famosa «agenda», in qualche caso danno addirittura vita a movimenti di massa (Nanni Moretti con i girotondi), non sono affatto scomparsi.
 I ricorrenti «necrologi» in morte dell’intellettuale – genere letterario squisitamente da intellettuali – dimostrano solo il narcisistico attaccamento di qualche intellettuale a un personale wishful thinking, da idiosincrasia di outsider frustrato e/o volontà di scalare posizioni. Più frequentemente l’alibi, da parte di chi è un intellettuale arrivato, per razionalizzare la propria pulsione all’indifferenza quale scelta obbligata, e fare di vizio necessità. 

Insomma, quello dell’intellettuale non costituirà forse un gruppo sociologicamente omogeneo e chiaramente identificabile come un tempo, ma le figure della cultura con prestigio e carisma e conseguente privilegio di essere ascoltate esistono eccome. 
Ciò che latita, semmai, è la disponibilità di queste personalità a mettersi in gioco, a risultare scomode, a farsi dei nemici, a spendersi per gli altri cittadini, anziché curare la propria carriera.

L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta, si dice.
 L’intreccio tra statura professionale e ruolo di riferimento etico-civile, che lo caratterizza, era legato al carattere alto dell’attività culturale, riconosciuta aristocrazia dello spirito, creativa o scientifica che fosse. 
Il prestigio non era legato al successo mediatico, spesso poteva costituirne l’antitesi e la silenziosa denuncia
Esisteva una gerarchia dei generi e della qualità. Nell’universo dell’esistenzialismo si muovevano chansonnier e attrici (di straordinario valore, oltretutto), ma Simone de Beauvoir veniva prima di Juliette Greco, che sarebbe stata la prima a riconoscerlo, benché assai più popolare presso grande pubblico e rotocalchi.
 Le parole, anche le più straordinarie, della più bella canzone, restavano «parole», non versi (un poeta poteva regalare i suoi a un cantante, naturalmente). 
La cultura aveva i suoi ranghi, perfino un film per essere arte doveva chiamarsi Ejzensˇtein o Bergman, altrimenti restava solo spettacolo, per quanto grande.

Figura dialettica, dunque, l’intellettuale, perché reale contraddizione vivente: solo se riconosciuto dai suoi pari e da altre élite, dunque da un establishment, poteva esercitare il suo ruolo di coscienza critica e fustigatore delle ipocrisie e ingiustizie di ogni establishment
Solo come membro di un’aristocrazia, sebbene dello spirito, poteva predicare efficacemente l’eguaglianza. Solo avendo una privilegiata voce in capitolo, poteva indignarsi per le masse condannate al silenzio e chiedere la stessa voce per tutti.

Il luogo comune assicura che la figura dell’intellettuale negli ultimi decenni è profondamente cambiata. Con l’esaurirsi/esaudirsi del Sessantotto e il trionfo dell’università di massa, magari, o per lo spostarsi del baricentro della composizione sociale dell’intellettuale dalle professioni umanistiche a quelle tecnico-scientifiche o senz’altro tecnocratiche. Sarà.

2. Innegabile è solo il mutamento sismico che travolge il criterio aristocratico di cultura nel calderone antropologico che non può conoscere gerarchie
Tutto è cultura, mai più alta o popolare, sempre e solo orizzontale, dove filosofia e cibo, opera lirica e canzonette, scienza e superstizione, appartengono allo stesso universo, articolazioni di un unico valore.
Quello del successo/spettacolo. Che in parallelo alla cultura, del resto, si annette la politica. E tutto quanto.

La stessa idea di cultura alta viene culturalmente ridicolizzata. Se il dialetto ha lo stesso rango della lingua nazionale, parlare (e meno che mai scrivere) in buon italiano non può essere più un valore da perseguire (e democrazia garantire la possibilità del buon italiano a tutti). 
Questa rivista non vive affatto di nostalgia, ha dedicato due volumi al cibo (e intende tornare monograficamente sul tema), ma Ferran Adrià e William Shakespeare non appartengono allo stesso universo (e neppure i Beatles e Brecht/Kurt Weill, benché entrambe le compagini siano produttori di «canzoni»): cultura in senso proprio, cultura in senso forte, dunque cultura senza aggettivi, è solo il secondo. 

La cultura senza gerarchie non diventa solo in-differenziata ma inevitabilmente in-differente, e come tale finirà trattata. 
La personalità viene spodestata e surrogata dal personaggio, mentre la distinzione tra diva/o e cultura andava da sé. Il passo ulteriore di imbarbarimento dell’industria culturale, rispetto all’universaleVerblendungszusammenhang («contesto di accecamento») di cui parlava Adorno, è costituito infatti dall’attuale «contesto di blobbizzazione», cioè dalla riduzione di ogni genere e prodotto culturale, e relative differenze qualitative (spesso abissali), a indistinguibile materia di un’unica poltiglia di «intrattenimento dello spirito», magma informe dove tutto è peggio che omologato, magmatizzato nell’in-differente, appunto. 
La cultura deve fare spettacolo, fare evento, svagare, l’indice di qualità si decompone nell’indice di ascolto, il giudizio critico si ingaglioffisce nello share, strumenti confezionati a immagine e interesse delle aziende pubblicitarie, dunque a decretare il successo non è neppure più «il pubblico» ma gli uffici marketing.

Il prestigio si estingue come indicatore indipendente. Diventa una funzione del nuovo indicatore unificato, Uno e Trino come è giusto che sia la divinità: il Dio-Mammona del danaro/potere/successo, misura di tutte le cose. Paradiso liberista che garantisce le basi strutturali della prostituzione intellettuale nella più generale vocazione alla prostituzione di ogni attività. 
Si dirà: è il mercato, bellezza! (Col corollario: vuoi abrogare il mercato? Vuoi tornare al baratto? O al sogno comunista che si è dimostrato incubo? Non ti è bastato l’Urss?). Niente affatto. Si rilegga Adam Smith, Padre fondatore: nel mercato solo le cose hanno un prezzo (lo avevano imparato a loro spese i papi, che perderanno metà del gregge per l’ingordigia di fare mercato dello spirito, dell’aldilà e delle sue indulgenze), proprio perché non hanno prezzo i valori della convivenza (il prestigio intellettuale è uno di questi). 
La società di mercato è tale perché non tutto è merce. Nel mercato (e nella sua giustificazione) hanno un prezzo solo le merci, dunque anche la forza-lavoro ridotta a merce, standardizzata, priva di individualità, fungibile.

3. Padre Adam Smith si è rivelato un sognatore, il virus della merce si è trasmesso dalle cose alle persone, ha colonizzato l’intero mondo di Homo sapiens, ha tutto mercificato sussumendo infine cose, pensieri, azioni nella produzione uniforme di «spettacolo».
 Il mondo borghese nasce invece dichiarando la cultura senza prezzo, inestimabile, e di conseguenza liberali le professioni che la esercitano (professioni borghesi per eccellenza!). 
Paradosso del mondo borghese i cui valori, stili di vita, professioni, vivono una logica antagonistica a quella del mercato, fino a che col trionfo devastante di quest’ultimo, che tutto satura e non lascia crescer fili d’erba di valori autonomi, il borghese viene cancellato dal non olet di ondate ricorrenti del parvenu (come le invasioni barbariche, esattamente).

Nella società del «tutto mercato» dove tutto ha un prezzo perché tutto è spettacolo (anche l’auto di lusso vale per ciò che evoca, più che per la velocità che può raggiungere, vietata in tutte le autostrade, dunque inutilizzabile) non contano i meccanismi legali, le istituzioni e le regole che hanno affermato il mercato stesso, ma sempre più le risorse e i vincoli personali premoderni, da clientes patronus romani più ancora che da stratificazioni di vassallaggio medioevali.
 Il mondo del mercato senza residui è il regime della prostituzione universale.

L’intellettuale è colui che non si prostituisce. Che si oppone alla deriva dell’esistente e al suo Dio/Mammona Uno e Trino che tutto inghiotte e restituisce come blob di danaro/potere/successo, unico prestigio riconosciuto. Di conseguenza: non impegnarsi rischia già il prostituirsi, in proporzione. Il prestigio è ciò che consente la libertà di non assoggettarsi al potere e/o denaro e/o successo. Ma se l’autonomo privilegio del prestigio e del merito si estingue? 

Oggi la sopravvivenza del prestigio è più che a repentaglio. L’arte nasce già come fenomeno di mercato, certamente da Warhol in poi e sempre più come mercato finanziario di titoli tossici, ideuzze autoreferenziali e del tutto avulse da e incompatibili con ogni «fare» artistico (qualche rara eccezione, ovviamente, da Basquiat alla Dumas, come per i concorsi universitari in Italia, però: qualcuno va in cattedra malgrado sia bravo).
 La sequenza prevedeva un tempo prestigio-successo-denaro, ora il kombinat di potere mercante/critico/curatore (anche di museo pubblico!) decide l’investimento che dovrà impinguarsi come ogni investimento, dunque conoscere successo nelle aste e ipso facto prestigio. Qualsiasi «artista» va bene, la scelta è puramente casuale, ogni nullità di «installazione» e ogni cascame di «iperrealismo» oleografico si prestano in-differentemente a diventare valore bancario da proteggere e incrementare.

Visibilità, mercato, prestigio, fanno tutt’uno. Ieri si diventava prima Pasolini e poi si andava in televisione, oggi diventare personaggio televisivo è professione in sé, la luminosa fama per una parolaccia gettata sull’altro ospite (meglio se una donna) consentirà di passare presto per illustre critico d’arte e poi candidato sindaco. 
Con Giulio Carlo Argan, or non è guari, andava alquanto diversamente. La notorietà di Sartre nasce dal suo prestigio, e questo dalle sue opere, Bernard-Henri Lévy nasce da operazione di marketing e già come fenomeno mediatico, il suo contributo alla filosofia vale quello di Damien Hirst all’arte, del resto viene citato sempre come BHL, un brand, come l’intimo DG.

4. Sia chiaro, nessuna geremiade e nostalgia per les neiges d’antan
Che conoscevano fior di meccanismi di conformismo e successi immeritati, o talenti emarginati. E nessuna concessione all’aristocraticismo, parodia della cultura come élite dello spirito; disconoscere la grandezza di Simenon scrittore tout court, per via del successo di Maigret, era pura miopia (e del resto non ci sono sussiegosi «critici» che rinnovano la cecità con Camilleri, il cui Re di Girgenti, sia detto en passant, non vale meno dei Viceré di De Roberto?).
 Ma è indubbio che ogni autorevolezza da prestigio viene ingoiata dall’autorità unica trifauce del mercato-potere-successo, garanzia oltretutto, e mediamente parlando, di trionfo della mediocrità. 
La Corazzata Potëmkin resta un capolavoro che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di ogni diplomato, ma viene ricordata ormai, anche presso chi crede di «amare il cinema», solo per una banale battuta fregnona dell’ingegner Fantozzi. Che ha culturalmente vinto. Il merito, mai così citato, è solo merito di mercato e di potere.

Tutto vero, e malinconicamente vero. Ma cambia assai poco rispetto al tema «tradimento dei chierici», di cui si macchiano le personalità pubbliche di riferimento, non già le figure diffuse, di massa, del lavoro intellettuale (che spesso silenziosamente praticano virtù critiche e virtù civiche, anzi, nella scuola dell’obbligo ad esempio). 

L’engagement, come è noto, nasce con Zola e il suo J’accuse sull’affare Dreyfus. Occupiamoci però solo della versione recente, del dopoguerra. L’impegno dell’intellettuale oscilla immediatamente tra fiancheggiamento del partito e rischio personale, Sartre o Camus. La «materia» dell’impegno, è presupposta, radicare e radicalizzare giustizia e libertà per tutti, emancipare l’intero genere umano da ogni forma di oppressione. In concreto questa «vocazione» rivela un potenziale antinomico: la testimonianza individuale è condannata all’impotenza, al «salvarsi l’anima» tanto illusorio quanto più individualistico, da «anima bella», appunto, perché l’emancipazione è un processo storico-sociale, bisogna individuarne lo strumento collettivo, altrimenti si finisce nell’irrilevanza, o addirittura nell’essere utilizzati dal potere.

Ora, lo strumento degli oppressi è il Partito rivoluzionario, «intelligenza collettiva» in possesso delle chiavi della dialettica storica, capace dunque sia di decifrare l’enigma della Storia che di intervenire in essa con il massimo di efficacia liberatoria. 
Impegnarsi per l’emancipazione dell’umanità equivale perciò a iscrivere la propria testimonianza morale nell’orizzonte di azione politica del partito.
In questo ineccepibile realismo c’è una falla, però: la dialettica storica è una pura invenzione, il partito non è il diamante che ha cristallizzato gli interessi storici dei «proletari di tutto il mondo, unitevi», ma una realtà sociologica e ideologica che, laddove al potere, ha prodotto una nuova classe di oppressori: in nome del proletariato, sui lavoratori in carne e ossa. 
Le documentate notizie sull’esistenza di lager nell’Urss di Stalin mandano definitivamente in pezzi la menzogna della catena di equivalenze: rifiuto dell’oppressione-senso della storia-ruolo del proletariato-primato del partito. La rottura tra Sartre e Camus è tutta qui.

5. Ma rivela molto altro. Che la storia non è prevedibile. Dunque, che non è possibile stabilire la connessione tra fini e mezzi, con i primi che riscatterebbero i secondi («Chi giustificherà il fine? La rivolta risponde: i mezzi», Albert Camus, Essais, Gallimard Pléiade, Paris 1977, p. 696). 
Che dunque l’impegno, dell’intellettuale e di ogni cittadino in rivolta, è sempre esposto allo scacco, nel duplice senso della sconfitta e del deragliamento della vittoria in conseguenze non previste, eterogenesi dei fini sempre in agguato (e anzi la normalità della storia).

Poiché la rivolta resta in-certezza, molti intellettuali, malgrado l’inoppugnabile lezione del gulag, continueranno a cercare la rivoluzione e le sue consolatorie certezze (in regime democratico anche senza rischi, fino all’eroismo invece in Spagna o in Vietnam), pegno del conformismo del potere di domani, pur di deresponsabilizzare le proprie scelte (ed errori) all’ammasso delle res gestae dello Spirito del mondo di turno.
 E così finiranno con Mao e il suo finto «ribellarsi è giusto» (solo contro i suoi nemici!) come se fosse un’epopea libertaria, e magari a intonare i domani che cantano insieme al salmodiare teocratico dei muezzin di Khomeini. 

La decisione-per-l’impegno fa tutt’uno perciò, e immediatamente, con la decisione per-quale-impegno. Dalla parte di chi/cosa e in nome di chi/cosa? 

Dalla parte di astrazioni e ipostasi, del proletariato e della rivoluzione, in nome della storia e della sua dialettica in atto, il cui esito pre-scritto di abolizione del presente stato di cose, cioè della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, è il comunismo? O dalla parte degli operai in carne e ossa che a Berlino nel ’53 e a Poznan´ e Budapest nel ’56 (ma già a Kronstadt nel ’21!) entrano in sciopero e in rivolta contro un potere che ha espropriato bensì i capitalisti ma non ha con ciò reso i lavoratori padroni della produzione e dello Stato? 
In nome della concreta giustizia e libertà, qui e ora, che quei lavoratori rivendicano istituendo i loro consigli operai, e che nel Sessantotto gli studenti di Varsavia rivendicheranno gridando «non c’è pane senza libertà», o con l’idea platonica di comunismo, il cui compimento è dialetticamente certo ma sempre rimandato perché non ancora storicamente maturo, il cui strumento e assaggio è intanto l’oppressione burocratica della nuova classe? 
Parlare a nome proprio e in coerenza concreta con i valori proclamati viene tacciato di luciferino orgoglio, quell’«individualismo piccolo borghese» che nella chiesa del comunismo realmente esistente è sempre stato, molto cattolicamente, il peccato inespiabile. In realtà l’apparente modestia dell’intellettuale che si riconosce «uno della massa», eguale ad ogni lavoratore, e perciò si allinea al Partito, unica autorizzata voce collettiva, occulta un bisogno di pre-kantiana e infantile nostalgia per le «dande» morali.

Questa vocazione al conformismo mascherata da realismo storico-dialettico evidenzia però un dilemma autentico. A quali condizioni la testimonianza eticamente coerente sarà anche politicamente efficace? E quale prezzo di «tradimento» di quei valori sarà etico pagare perché riesca la transustanziazione dall’utopia delle anime belle all’effettualità delle conquiste sociali e istituzionali?

6. Etica della responsabilità o etica dell’intenzione? L’aut aut proposto da Max Weber è in realtà profondamente irrealistico. Calcolare le conseguenze del proprio agire politico è infatti impossibile, se si prende atto realisticamente della pervasività dell’eterogenesi dei fini in ogni vicenda di Homo sapiens. L’etica della responsabilità deve assumere – per realismo! – che le conseguenze del nostro impegno scarrocceranno sempre e comunque dalla rotta dell’intenzione, spesso invertendola. Che la rivoluzione contro uno zar potrà approdare all’arcipelago Gulag di un Egocrate, che la rivolta contro uno scià sanguinario o una bolsa dittatura militare può aprire la strada a una più soffocante tirannia teocratica. Motivi ragionevoli e realistici per tenersi lo zar e lo scià?
Ogni rovesciamento apre al meglio come al peggio, sull’esito dei processi storici non esistono garanzie, i verdetti sono sempre revocabili perché il processo storico è permanente. 
Ciascuno può conoscere solo la propria intenzione, che verrà immediatamente sviata dalle intenzioni degli altri che con noi (o contro di noi) sono coinvolti nell’azione. Ciascuno, nel momento in cui agisce, inevitabilmente aliena a tutti gli altri il frutto della propria intenzione. Calcolare il risultato è utopia, risalire dal frutto all’albero è esercizio spesso insensato. Il nostro agire è sempre e strutturalmente anche un agire al buio, agire alla cieca.

Proprio il realismo impone allora l’etica della convinzione, agisci in coerenza con i valori che proclami, e accada quel che accada, perché il risultato della «tua» azione non è mai nelle tue mani ma in quelle di milioni (siamo sette miliardi!) di altre «intenzioni» con cui sei «imbarcato». 
Ci illudiamo che vi sia differenza tra il gesto e l’azione, quest’ultima in vista di un fine e razionalmente orientata ad esso nella scelta dei mezzi, il primo espressione immediata e non calcolata di indignazione, ma in realtà l’uno rimanda all’altra inestricabilmente, dove a fare la differenza è la coerenza rispetto ai valori, non la razionalità del calcolo delle conseguenze, quasi sempre vaneggiante, al dunque.

L’impegno dell’intellettuale suscita ostilità perché è sempre «a sinistra», e non può essere che «a sinistra». Se per sinistra, sia chiaro, si intende il vessillo di valori con cui nasce (liberté, égalité, fraternité), non le organizzazioni che oggi (con sempre più pudibonda ritrosia, del resto) si spacciano per sinistra. 
L’impegno è sempre di lotta, infatti, per ri-formare l’esistente e stravolgerne i connotati di illibertà e diseguaglianza. Chi mette il suo sapere, le sue competenze, la sua cultura al servizio dell’esistente e dei suoi poteri di establishment non è un intellettuale, è un funzionario del conformismo.

L’intellettuale pubblico è l’opposto del cane da guardia culturalmente addestrato, del responsabile marketing che inzucchera di «pensiero» e «razionalità» il presente stato di cose, del sepolcro imbiancato tecnicamente avvertito.
 L’intellettuale è per sua funzione, innanzitutto e necessariamente, portatore di critica, che significa richiamo alla coerenza tra i valori ricamati nelle costituzioni e la quotidiana pratica di governo che li calpesta e schernisce, tra il proclamare a lettere d’oro sopra ogni edificio la triade di valori della «République» salvo corromperli e stracciarli ogni giorno nei peana della Realpolitik. In altri termini: l’intellettuale di destra è una contraddizione in termini.

7. I due grandi partiti che si fronteggiano nelle democrazie sono quelli dell’ipocrisia e della coerenza, ecco perché la politica in democrazia è sempre e innanzitutto,strutturalmente, una questione morale
La democrazia, a guardar bene, nascendo francese col presupposto di «liberté, égalité, fraternité» e ancor prima americana con «the right to pursuit happiness», di-tutti-e-di-ciascuno, è essenzialmente di sinistra e la dialettica democratica dovrebbe tutta risolversi nella competizione tra le cinquanta sfumature della sinistra, a tasso differenziato di coerenza o «tradimento» dei sopracitati valori. Il resto (ogni destra o «centro») è anti-democrazia dentro la democrazia. 

Un presunto «impegno» degli intellettuali conservatori o reazionari è dunque ossimoro (senza poesia), è anti-impegno. L’«intellettuale» di destra o di centro, quando esiste, è personale di servizio, personificazione ennesima del tradimento del chierico. C’è un solo impegno, quello democratico, cioè di sinistra. Il resto è disimpegno o anti-impegno. Quest’ultimo rappresentato da Gentile che lancia il manifesto per l’«impegno» politico degli «intellettuali» a sostegno del regime fascista, il disimpegno esemplificato da Croce, che a Gentile risponde con l’ineffabile rivendicazione che letterati e scienziati non si contaminino con la politica: intellettuale impegnato è invece Piero Gobetti. Chi sta dalla parte della reazione, del privilegio, cioè dalla parte sbagliata, non è un intellettuale ma un officiante della servitù volontaria.

Il «realismo» è il belletto dell’opportunismo, la cui confezione standard è quella del funzionario dell’esistente, ingranaggio dell’establishment. Anche chi si «impegna» solo in presenza della rete di sicurezza delle «sinistre» di partito, però, rischia costantemente l’opportunismo. 
Opportunismo che ha comunque buon gioco nel denunciare le «anime belle» alla Gobetti, perché l’accusa capziosa di moralismo, di mancanza di realismo, e gli altri cascami della nota bisaccia di vituperi con cui scrittore e pensatore e luminare reazionario cercano di (far) dimenticare la propria assiduità al banchetto di ogni casta, evidenzia un problema reale.

Abbiamo visto, e ripetiamo, che l’etica dell’intenzione è la sola realistica perché comunque inevitabile, visto che è illusorio prevedere il «sequel» della propria azione, ma l’autogiustificazione è sempre in agguato e accompagna ogni «migliore intenzione» come la propria ombra. Il rigore morale, stigmatizzato dai «realisti» come «rifiuto a sporcarsi le mani», può effettivamente diventare alibi che paralizza l’azione, la colloca nel cielo del nulla o nella concretezza dell’insignificante, e in entrambi i casi si metamorfizza in etica futile.

Si può eludere l’impegno col minimalismo – mi occupo solo della fontanella, e anzi del mio «particulare», perché la corruzione dei politici e l’onnipotenza della finanza sono inespugnabili – o col massimalismo palingenetico, che sdegna come effimera e inane ogni conquista di giustizia e libertà che non sia vestibolo del sovvertimento dell’impero e riscatto finale della moltitudine. 
Infine, si può eludere l’impegno con la retorica dei valori astratti, tanto sonora e commovente nel declamare da palchi e tv show contro la mafia, quanto di braccino corto nell’offrire solidarietà ai magistrati, nomi e cognomi, che combattendola davvero diventano invisi a palazzi di governo e di «opposizione», senza dimenticare colli più alti.

Il «giusto mezzo» purtroppo non esiste, visto che dipende da dove ciascuno, arbitrariamente, colloca gli estremi da evitare. Quanto più grande è l’ascolto di cui si gode, tanto maggiore il dovere di spendersi e il raggio su cui intervenire, però. 
Il premio Nobel che tace di fronte all’aggressione americana in Vietnam, acconsente. Il premio Strega che in Italia tace di fronte alle infamie berlusconiane e alle vergogne d’inciucio, acconsente. È alibi d’accatto che si tratti di scegliere se aver torto con Sartre o ragione con Aron (quale, poi?), visto che si può avere ragione con Sartre e Russell sul Vietnam e ancor prima con Camus su Ungheria e Spagna.

8. L’impegno, che è sempre riformatore, qui e ora, è anche sempre possibile. Che il contesto socio-mediatico ormai lo vanifichi, perché assorbirebbe in un orizzonte di insignificanza ogni critica, anche la più radicale, rendendola in anticipo funzionale al potere, è la favola francofortese che proprio il prestigio e l’aura degli Adorno smentiva, e ancor più la loro fuga dall’impegno (dalla coerenza logica e tra il dire e il fare) quando nel Sessantotto il verbo della critica si è fatto carne. 
Che il mezzo sia il messaggio, e dunque la presenza in tv ipso facto omologhi, possiede solo una quota di verità, che in verità non bilancia l’alibi: se ti danno la prima serata e milioni di spettatori potenziali, e lavori secondo parresia, e non temi di criticare presidenti e cardinali anziché malvagità astratte, non c’è mezzo che annulli il messaggio, che «bucherà» talmente che non ti inviteranno più, semmai.

Impegnarsi si può
Oltretutto, la caratura del rischio e lo spessore del sacrificio potenziale cui va incontro l’intellettuale, nelle democrazie realmente esistenti (benché mediamente assai poco democratiche) sono francamente minimi: perdere qualche contratto, qualche trasmissione in tv o rubrica sul quotidiano importante, qualche invito nei salotti. Perché si abbia timore anche di questo, e si preferisca rifugiarsi nella miseria civile del disimpegno o nel pusillanime lusso dell’impegno «in carrozza», resta uno dei misteri gaudiosi della cultura italiana. 

Il sapere deve tendere alla neutralità. Quello della scienza è neutrale per definizione, il bosone di Higgs, se verificato, vale come verità della natura tanto nell’Ungheria nostalgica di fascismo che sotto il potere di Fidel o il giogo delle palandrane islamiche.
 Quello delle «scienze umane» è invece ineludibilmente saturo di scelte di valore, che devono essere rese esplicite perché si possa praticare il massimo del rigore nelle zone dove – all’interno di ogni disciplina – è invece attingibile l’accertamento intersoggettivamente cogente. 

L’intellettuale è il portatore di questo atteggiamento critico, la volontà di verità, laddove accertabile, ibridata con le scelta di valore della coerenza per la democrazia radicale.
 Se è funzionario di qualcosa, infatti, l’intellettuale è un funzionario della verità. Che ha bisogno della libertà come suo brodo di coltura. E di cui è parte integrante la capacità di smascherare la pretesa «oggettività» delle ideologie dominanti (a partire dalla «scienza» economica) e la volontà di demistificare il carattere «naturale» dei valori correnti (la morale «oggettiva» o «razionale» dei diversi cognitivismi etici). 
L’intellettuale è la cartina di tornasole che rivela gli interessi di establishment spacciati come fatti/valori ed eterne perle di saggezza, tra cui primeggia la menzogna di tutti i Menenio Agrippa fin dagli albori delle asimmetrie di potere: siamo tutti nella stessa barca. Una divorante passione illuminista costituisce il liquido amniotico dell’impegno critico e civile.

9. L’intellettuale è un privilegiato. Tre volte privilegiato, anzi. Ha potuto scegliere il mestiere secondo vocazione o voglia, ne ricava emolumenti assai superiori alla miniera, al call center o alle scartoffie di travet, vive la prerogativa impagabile di essere ascoltato. Il privilegio rende l’intellettuale libero. 
Il prezzo che paga per la coerenza dell’impegno è sempre infimo. La doverosa neutralità del sapere non può propiziare l’indifferenza dell’intellettuale come cittadino, abbiamo visto, poiché l’essenza critica dell’intellettuale è inestricabilmente intrecciata alla vocazione contro l’assoggettamento. 
La critica è già pregna di universalismo concreto, anzi: svolta fino in fondo non può che partorire libertà per l’eguaglianza, la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno. Di ogni individuo, del ciascuno che tutti noi possiamo essere. Quella di Marx era in fondo l’eguaglianza più individualista (o l’individualismo più egualitario): da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. La democrazia radicale è in primo luogo una questione di logica, massacratori di logica, nei versi di Dèmocratie, sono per Rimbaud i plotoni militari della Francia imperialista che hanno appena schiacciato la Comune di Parigi. 

Una razionalizzazione del disimpegno consiste nel ridurre l’impegno innanzitutto e per lo più al «lavoro ben fatto». Il mio impegno è girare un buon film, scrivere un buon romanzo, dirigere in modo geniale un’orchestra, costruire un grattacielo kalo;~ kajgatov~… Intenti encomiabili, che non esauriscono però l’impegno civile dell’intellettuale e spesso neppure lo sfiorano. Sembra che Céline abbia scritto romanzi ammirevoli, è certo che nel frattempo abbia vergognosamente tradito il suo privilegio/dovere di «chierico». 
Senza arrivare all’anti-impegno che bordeggia fascismo e razzismo, le vie del tradimento dei chierici attraverso il disimpegno sono più numerose di quelle della provvidenza.
Ci si può impegnare onorando il proprio mestiere, naturalmente. Veicolando la critica dell’esistente in un romanzo o in un film. E ci sono mestieri nei quali il venir meno della professionalità e dell’impegno fanno tutt’uno (ma quanti sono i giornalisti degni del nome, poiché per definizione il giornalista è una vestale delle «modeste verità di fatto», come le aggettivava polemicamente Hannah Arendt? 
E quanti i giuristi che non hanno tradito logica e diritto, rifiutandosi di baciare la pantofola del colle più alto, che aveva la procura di Palermo in gran dispetto?). 
Tuttavia la forma «per eccellenza» dell’impegno resta quella di spendere come cittadino e nelle battaglie civili il proprio prestigio, la propria «aura» e visibilità scientifica e culturale, tanto più se anche massmediatica. Fenomeno che in Italia sopravvive nell’indigenza. Al punto che sono state considerate eccessive le sacrosante invettive di Tabucchi, o le doverose poesie incivili di Camilleri, o l’esemplare militanza atea e pro eutanasia di Margherita Hack, o l’ovvio sostegno alla Fiom contro le prevaricazioni di Marchionne, e infine ogni firma per ogni buona causa, irrisa (la firma e la causa) da prelati e cheerleaders dello statu quo. 
L’intellettuale sa di essere innanzitutto un cittadino, altrimenti il suo essere critico è già naufragato nel narcisismo e il carattere bifronte del suo privilegio si è risolto nell’univocità del servilismo. 
Sa che il suo dovere di cittadino viene prima, anche se questo priverà l’umanità di qualche capolavoro. Marc Bloch, illustre accademico della Sorbona, storico fra i più grandi, a cinquantasei anni si fa militante tra i militanti del «sortez de la paille les fusils, la mitraille, les grenades», e dopo due anni di Resistenza a Lione viene catturato dai nazisti, torturato e infine condannato a morte. 
Il grande poeta René Char correrà lo stesso rischio come «Capitaine Alexandre» nel maquis delle Basses-Alpes e George Orwell nella guerra di Spagna in difesa della repubblica contro i fascisti.
 Parlare, scrivere, creare è già una modalità dell’agire, nessuno lo sa meglio dell’intellettuale, che sa perfettamente, però, come questo «performativo» possa diventare un alibi per dimenticare il cittadino e con ciò tradire anche il chierico.

10. Al ruolo dell’intellettuale si aprono spazi sempre più grandi, e doveri corrispondenti, quanto più latitano le figure di leader politici e sociali, e quanto più le prospettive di nuovi mondi possibili sembrano chiudersi a quella che Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica.
 Ci si sta rassegnando all’idea che ormai l’indignazione non possa più farsi azione, sia destinata ad avvampare solo come periodico fuoco di paglia di moderne jacqueries, incapaci di sedimentare conquiste di giustizia e libertà perché prive di un’idea di avvenire, di un progetto. 
Esplosioni di massa, magari prolungate, che per la sovranità del privilegio (che ha nel gattopardo il suo emblema) resteranno innocue, o potranno selezionare prepotenze inedite e più agguerrite. Le primavere arabe rischiano di sperimentarlo.

Ma la chiusura dei possibili non è un destino inaggirabile dell’epoca, la pietra inconcussa di una gerarchizzazione sempre più indecente ma sempre più inafferrabile di ogni società nel mondo globalizzato. La lotta continua, è incredibile come fiumane di cittadini non si stanchino di lottare. Rifiutano però di darsi forme organizzate che non le garantiscano in una perdurante autonomia, preferiscono la quasi certezza dell’inanità della lotta anziché un futuro di vittoria tradita, di dialettica sartriana del gruppo in fusione.

La riapertura dei possibili dipende dunque (quasi) tuttao dal versante della soggettività in rivolta, a tutt’oggi incapace di architettare forme organizzative dell’indignazione che nel promuovere efficacia della lotta e dei suoi esiti politico-istituzionali, scongiurino al tempo stesso il rischio che la vittoria si converta in inedita delusione/oppressione.

Il post-post-moderno di una liquidità mannara (forse liquidità, certamente mannara) vede le classi di potere che non calpestano più nella pratica di governo i valori di giustizia e libertà cui pagavano un rituale omaggio alle feste comandate: puntano ormai esplicitamente a cancellare la «legge eguale per tutti», a rendere anche formale la diseguaglianza, a legalizzare l’illegalità, perché non è ragionevole che un Marchionne (un Riva, un Thyssen) che crea lavoro per centinaia di migliaia di persone sia tenuto agli stessi lacci e lacciuoli di un pensionato improduttivo che finisce in galera se ruba una merendina al supermercato. Non è realistico, non è decoroso, non è concepibile, non è sopportabile.
 Leggi e costituzioni devono modernizzarsi, adeguarsi alla necessità di una giustizia diseguale per il potente e il cittadino ordinario. Il reale è razionale, si sa. Ecco perché il capitalismo realmente esistente reclama oggi il diritto allo schiavismo per i suoi salariati, alla trasformazione del cittadino in cliente, alla prostituzione della mente per tutti, pratica l’intreccio corruttivo-governativo (ed eventualmente mafioso) come nuova frontiera del sempiterno non olet e riconosce nel biscazziere a incarnazione finanziaria e nel lenone in versione istituzionale l’aggiornamento «liquido» del capitano d’industria e del professionista politico di weberiana memoria.

11. L’ideologia inconsapevole (per chi la subisce) che satura ormai il nostro orizzonte diventa perciò l’etica della lotteria, che sul versante degli oligarchi significa l’hybris di libertà per i titoli tossici e su quello dei sudditi si declina come attesa di miracolismo e rinuncia alle lotte. 

L’impegno dell’intellettuale sarà perciò per un illuminismo di massa, improbo perché sembra non volerlo nessuno, perché anti-consolatorio: abbiamo bisogno di endorfine, però e certamente, non di immunosoppressori dello spirito critico. Improbo e manicheo. Non si combattono le illusioni del pensiero unico, altrimenti, perché mai come oggi l’intellettuale deve farsi custode della parresia contro ogni potere
E solo così della speranza, fuoco che senza lotte si spegne.
Tiriamo le fila e concludiamo. 
Ciò che definisce l’intellettuale – il predicato quintessenziale del suo essere – è l’esercizio del sapere critico
L’intellettuale senza ostinata prassi critica è come il kantiano cielo stellato orbo di luce (senza lumi!), o più prosaicamente la vodka senza alcol: ipotetica del terzo tipo.
Ma l’acido della critica, nel mero procedere della sua applicazione, dissolve nel concetto la legittimità di qualsiasi diseguaglianza materiale, di modo che la semplice fedeltà al compito intellettuale impone l’impegno civico per l’eguale (e reale!) autonomia di tutti e di ciascuno.
 Un intellettuale che non si impegni per la democrazia radicale, dalla parte della vita offesa (poiché ogni ingiustizia è irredimibile e per sempre, nella finitezza dell’esistenza), che non si impegni politicamente per l’approssimazione asintotica di giustizia e libertà, sta negando se stesso perché sta mutilando la coerenza logica-critica che fa tutt’uno col suo essere.

                                                      Paolo Flores d'Arcais












Fonte: MicroMega 5/2013

martedì 29 ottobre 2013

La Gara al Ricordo della Grande Guerra


Iniziato come un sotterfugio per impartire corsi di recupero (di storia, letteratura, musica, arte...) a lettori, ascoltatori o telespettatori afflitti da analfabetismo di ritorno, il "centenario" si è trasformato in una notizia che ogni medium anticipa per primo per non essere “bruciato” dalla concorrenza, innescando così una corsa a precedere gli anniversari che spesso rasenta il ridicolo. 




Con una veloce ricerca su Amazon.de ho contato 61 volumi interamente dedicati alla Prima guerra mondiale usciti in tedesco dal primo gennaio di quest'anno o in prossima uscita. Tutti gli aspetti sono affrontati: la guerra in trincea, quella sottomarina, aerea, le infermiere, la propaganda, persino la nevrosi.

L'ondata editoriale si è scatenata in vista del centenario della Grande Guerra 1914-1918. Ma fino ad agosto in Germania erano usciti solo 22 libri, mentre a settembre c'è stato un'inondazione di titoli: 16 in un solo mese, seguiti dai 12 di ottobre, dai 6 annunciati a novembre e 3 a dicembre. L'aspetto più curioso è che tra questi 61 libri, solo due usciranno a gennaio 2014, cioè nell'anno esatto del centenario.

La febbre dei centenari nell'industria della comunicazione è assai bizzarra di per sé, visto che attiene al nostro sistema numerico. Se avessimo seguito gli antichi babilonesi che contavano in base 6 e 12 (l'anno è diviso in 12 (2x6) mesi di 30 (6x5) giorni, ognuno di 24 ore (2x12), ognuna di 60 minuti (5x12) e così via), staremmo a festeggiare non i decennali, ma i dodecennali e i sessantennali.

Iniziato come un sotterfugio per impartire corsi di recupero (di storia, letteratura, musica, arte...) a lettori, ascoltatori o telespettatori afflitti da analfabetismo di ritorno, il centenario si è trasformato in una notizia che ogni medium anticipa per primo per non essere “bruciato” dalla concorrenza, innescando così una corsa a precedere gli anniversari che spesso rasenta il ridicolo: il più diffuso quotidiano italiano, La Repubblica, dal 28 luglio 2013 scorso ha iniziato il racconto della Grande Guerra scoppiata nel 1914, celebrando così il centenario dell'evento nel suo 99-nario.

Certo, non tutti i centenari vengono celebrati dalla stessa profusione di titoli. Possiamo predire che l'anno prossimo, con la scusa dell'anniversario, in letteratura saranno ricordati il poeta irlandese Dylan Thomas (1914-1952), il messicano Octavio Paz (1914-1998), gli argentini Julio Cortazar (1914-1984) e Adolfo Bioy Casares (1914-1999), gli italiani Giuseppe Berto (1914-1978) e Anna Maria Ortese (1914-1998), il tedesco Arno Schmidt (1914-1979), i francesi Romain Gary (1914-1980) e Marguerite Duras (1914-1996).

Non azzarderemo molto neanche per la celebrazione dei 2000 anni dalla morte dell'imperatore Ottaviano Augusto (63 a. C. - 14 d. C.), i 400 anni del pittore El Greco (1541-1614), i 500 anni dell'architetto rinascimentale Bramante (1444-1514), i bicentenari del filosofo idealista tedesco Johan Gottlieb Fichte (1762-1814) e del libertino marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814).

Già è più problematico il ricordo di Josephine Beauharnais (1762-1814), prima e infedele moglie di Napoleone Bonaparte, mentre è controtendenza ricordare l'anarchico russo Michail Bakunin (1814-1876). E una vena di rimpianto dovrebbe tingere il centenario di Delmira Agustin (1886-1914), una delle più grandi voci della poesia uruguayana, uccisa a soli 28 anni da un ex marito geloso.
I cinefili potranno saziarsi con i film degli attori Alec Guinness (1914-2000), Tyrone Power (1914-1958) e Richard Widmark (1914-2008); mentre gli sportivi riascolteranno la canzone di Paolo Conte dedicata al ciclista italiano Gino Bartali (1914-2000) o sogneranno Marilyn Monroe pensando al campione di baseball Joe Di Maggio (1914-1999) che ne fu marito.

Solo gli specialisti spenderanno parole per Oscar Lewis (1914-1970) che elaborò il concetto di “cultura della povertà”, per Philippe Ariès (1914-1984) che per primo tracciò la “storia della morte in occidente”, o Jean-Pierre Vernant (1914-2007) che fu tra i primi a studiare gli antichi greci con lo stesso sguardo con cui i nostri antropologi guardano agli Yanomani. Ed è estremamente improbabile che qualcuno ricordi Pan Jin-Yu (1914-2010), l'ultima donna al mondo a parlare la lingua Pazeh degli aborigeni taiwanesi, una lingua che si è estinta con lei.

Personalmente preferirei che l'anno prossimo commemorassimo quella persona straordinaria che è l'olandese Etty Hillesum (1914-1943) o il matematico francese Jacques Feldbau (1914-1945) che studiò gli spazi fibrati: ambedue, ebrei, morirono nei Lager. Insieme a loro il capitano tedesco Rudolf Jacobs (1914-1944) che disertò, si unì ai partigiani italiani e fu ucciso in azione. E, perché no, la russa Irina Sebrova (1914-2000), pilota dell'aviazione sovietica durante la seconda guerra mondiale nella squadriglia di sole aviatrici chiamata le Streghe della Notte (non mi risulta che nessun altro paese al mondo avesse una squadriglia di pilote donne). E insieme a lei l'asso della Luftwaffe, il tedesco Erich Schmidt (1914-1941) che abbatté 47 aerei nemici.
O, per tornare a noi, i due scrittori francesi che caddero sul fronte della Marna nel primo anno di guerra: il cattolico Charles Peguy (1873-1914) e Alain Fournier (1886-1914) autore di un solo, ma stupendo romanzo, Il grande Meaulnes.

Sarebbe forse il caso di ricordare che la Grande Guerra segna la nascita di un simbolo del nazionalismo il cui centenario ci fa riflettere: infatti è in onore dei morti nella prima guerra mondiale che ogni paese eresse un monumento al Milite ignoto. L'Inghilterra nell'Abbazia di Westminster (1919), la Francia sotto l'arco di Trionfo a Parigi (1920), l'Italia nel Vittoriano a Roma (1921), gli Stati uniti ad Arlington (Virginia, 1921), la Germania su Unter den Linden (1931) a Berlino. Benedict Anderson ha scritto pagine memorabili sul valore fondamentale che ha per il nazionalismo moderno la “sconosciutezza” di quel cadavere in quella tomba: il suo anonimato è garanzia di collettività, per cui la nazione si riconosce nei suoi caduti “sconosciuti”, e perciò interamente suoi. Tra parentesi: oggi il Milite non potrebbe più restare ignoto, sarebbe identificato dall'analisi del Dna. Un'altra istituzione che sembrava dover durare millenni e invece finisce al macero in meno di un secolo.

Ci sarà modo di riparlare delle enormi, durature conseguenze che ebbe la Grande Guerra. Ma atteniamoci al tema del ricordo. Due elementi risaltano. Il primo è la memoria totalmente asimmetrica che ne hanno tedeschi da un lato e francesi, italiani, inglesi dall'altro. Per i tedeschi la guerra più devastante del XX secolo è stata la Seconda: quella è per la Germania la “Grande Guerra”: tra il 1939 e il 1945 furono uccisi 7 milioni di tedeschi, mentre nella prima guerra erano stati “solo” 2 milioni 40 mila (morirono anche 1,2 milioni di sudditi dell'impero austro-ungarico). Il contrario avviene negli altri paesi. Tenendo conto che nella seconda guerra mondiale morirono molti più civili (per bombardamenti, retate, occupazione, deportazioni), mentre nella prima le perdite furono quasi tutte militari, morirono 1,4 milioni francesi nella prima guerra e solo 610.000 nella seconda; 654.000 italiani nella prima e 415.000 nella seconda, 750.000 inglesi nella prima e 512.000 nella seconda. Anche il numero dei morti divide le coscienze europee.

Un secondo aspetto curioso del ricordo della Grande Guerra è la filmografia, in particolare quella americana. Se uno osserva la produzione di Hollywood, trova una caterva sconfinata di film sulla guerra civile (1861-1865) e altrettanti sulla seconda guerra mondiale, ma trova pochissimo sulla prima guerra mondiale, come se non ci fosse stata o come se non avesse lasciato tracce nella memoria collettiva. E infatti anche la produzione libraria statunitense per il centenario della Grande guerra è assai più povera di quella europea.

PS. Aspettando gli anniversari dell'anno prossimo, mi sia consentito augurare che in questo 2013, qualcuno celebri il tricentenario di uno degli intellettuali che hanno più contribuito a combattere l'asservimento e a rendere più civili la nostra società, quel Denis Diderot che nacque nel 1713. Senza di lui e senza le sue battaglie, non ci sarebbe neanche un giornale come quello in cui appare quest'articolo.

                                                              Marco d'Eramo

 







Fonte: Die Tageszeitung  del 27 Ottobre 2013

lunedì 21 ottobre 2013

Trotula semplicemente Trotula


Presciuttini_Trotula
Leggere le poche notizie certe sulla vita di Trotula de Ruggiero dev’essere stata una tentazione davvero irresistibile per Paola Presciuttini. 
Il punto è che a quest’autrice va come prima cosa il merito di aver ricercato e scoperto le gesta della prima donna che si batté per portare agli occhi della scienza medica il corpo femminile con le sue specificità e peculiarità. 
La Salerno dell’anno Mille è lo sfondo di questa vicenda:hippocratica civitas per eccellenza, Salerno visse un Medioevo tutt’altro che oscuro: per ragioni di studio, militari o mercantili il ricambio costante di persone e idee promosse una cogerie culturale di primo livello per l’epoca.
 Alcuni documenti riportano la sua esperienza come levatrice sia presso le case della povera gente che presso le dimore della nobiltà salernitana, inoltre sappiamo che Trotula fece parte delle cosiddette Mulieres Salernitanae e cioè quel gruppo di donne eccezionalmente ammesse alla scuola di medicina e portatrici della tradizionale cultura erboristica.
 Né a Giovanni Plateario che l’ebbe in sposa né ai figli Giovanni e Matteo, anch’essi medici, fu tributato altrettanto onore nelle arti mediche. 
Sappiamo anche che era molto bella e che non amava coprire il capo con il velo che le donne solitamente indossavano. 
Trotula ci lascia il De passionibus Mulierumconsiderato il primo trattato di ostetricia e ginecologia. 
In età moderna si ripartirà dagli scritti di Trotula per sviluppare gli studi ginecologici e questo rende fondamentale e fondante il suo lavoro.
 In più si sa che al suo funerale migliaia di persone seguirono il feretro, come fosse una regina, probabilmente una forma di gratitudine a una solerte e infallibile levatrice… Poco altro. 
Ma nel romanzo c’è molto di più. Prima di tutto c’è una storia, raccontata da svariati personaggi: la tata analfabeta, il precettore benedettino, il marito geloso, la cugina sottomessa, i figli medici e il fratello cuoco…
Trotula prende vita sulle pagine e non delude nemmeno per un attimo. La vicenda di una donna curiosa e combattiva, madre e medico, che si confronta giorno dopo giorno con la società dell’epoca e con il ruolo a cui il suo genere era relegato.
 Eppure se c’è una cosa che Presciuttini dimostra con questa vicenda è che le consuetudini e le leggi divine o umane, possono essere sovvertite, cambiate, aggirate, rifiutate. 
“L’idealizzazione della sua figura, divenuta quasi leggendaria, ha portato alcuni studiosi a metterne in dubbio la storicità.” (dalla pagina su Trotula di Wikipedia): infatti il personaggio immaginato da Presciuttini fa esplodere regole imposte al femminile per ottenere un risultato che oggi capiamo come inevitabile, ma allora assolutamente lontano a venire. In alcune cose Trotula sarebbe all’avanguardia, esistenzialmente parlando, ancora oggi.
 Non facile il compito di rendere verosimile una storia incredibile già nei dati certi, eppure Presciuttini riesce nell’impresa, forte della ricerca pluriennale sulla figura della sua protagonista e  di un’evidente capacità di costruire personaggi e trama. Per sintetizzare i molti temi importanti procederemo quindi per dogmi, e per superamento degli stessi:
La donna deve restare nell’ignoranza. Ricerca, studio e approdo alla scuola di medicina dopo la morte per parto della madre. L’autrice immagina la figura del precettore, il benedettino Gerardo, come fondamentale per la prima istruzione di Trotula in quanto frate aperto e dalle conoscenze “eretiche”, per fortuna in epoca pre inquisizione… Alla scuola di medicina primeggia nella sua classe fino a scontrarsi con la pratica di aprire i cadaveri dei maiali per capire come curare il corpo umano, già favorevole alla dissezione e alla chirurgia.  Tuttavia la formazione medica di Trotula segue anche una via parallela: quella della sapienza pratica delle cosiddette praticone, figure a metà tra la fattucchiera, l’erborista e l’ostetrica. Il personaggio di Costanza, una di queste “praticone” è fondamentale e incredibilmente importante per capire la figura di Trotula: la differenza tra le due è certo nei natali. La nobile De Ruggiero poteva ambire alla scuola di medicina e alla teoria e alla ricerca medica, invece le donne che quotidianamente facevano nascere i bambini e curavano la gente della campagne dovevano arrangiarsi con la conoscenza delle erbe e formule magico-rituali.
La donna non può diventare magistraAlcune lezioni date in età avanzata  alla scuola medica salernitana e i trattati che ella scrisse confutano anche questa regola. Eppure non ottenne una cattedra: forse una genesi del soffitto di vetro dovrebbe partire da questa vicenda.
La donna è di proprietà del marito. Qui serve un excursus: la gelosia di Giovanni Plateario, marito di Trotula e medico anch’esso, esplode tutta d’un tratto. Non facile per un uomo, a quel tempo, avere al fianco una donna nettamente più portata nelle medicina, una donna libera e ribelle alle convenzioni sociali, in grado di parlare con medici di sesso maschile provenienti da terre lontane per confrontarsi sulle pratiche della materia. Presciuttini qui supera se stessa: spurio il tema della violenza sulle donne, ma mai superfluo in questo periodo! InTrotula c’è anche spazio per una versione Medievale del “No Means No”, che dimostra come mettere fine a una relazione pericolosa è una scelta che allora come ora comporta anche degli sforzi e dei sacrifici, ma che non può assolutamente comportare ripensamenti e atteggiamenti ambigui.
La donna deve partorire con dolore. Questo è scritto nella Bibbia. IlDe passionibus Mulierum riporta alcuni metodi per evitare la morte delle donne durante il parto talmente innovativi che se fosse stato letto e insegnato dalla sua comparsa, molte donne avrebbero vissuto di più. Ma non solo: la salute delle donne è curata a partire dal presupposto rivoluzionario che le donne in alcun caso debbano provare dolore: checchè ne dica la Bibbia tutto è rimediabile e curabile. Trotula per la prima volta sfida i dolori propriamente femminili nonostante questi fossero visti come sorte naturale del genere in questione. Il corollario a questo tipo di ricerca è che le patologie femminili vanno riconosciute e curate perchè la donna, per la società, è importante almeno quanto l’uomo.
La donna non deve provare piacere. Che la carne della donna sia fatta per provare piacere è una deduzione medica per la nostra eroina. La costrizione alla purezza qui viene trattata come una di quei dogmi da far esplodere, andando a scandagliare quel mistero terrificante che il piacere femminile costituisce agli occhi degli uomini. Che sia uno sguardo medico o quotidiano, questo comporterebbe, come molte delle tematiche qui trattate, una riflessione a sé stante. In una società, quella odierna, che stigmatizza un pantalone troppo corto, la donna senza velo che fu Trotula de Ruggiero nell’anno Mille già insegnava la disobbedienza all’insegna di una libertà profonda, consapevole.
Oggi questo tipo di imposizioni, a vari livelli, più o meno esplicitamente, sono ancora percepite come valide. Per questo il romanzo sulla vita di Trotula è attuale e oltre a raccontare la figura semisconosciuta di una grande nostra antenata (di tutte le donne!) indaga su una posizione femminile ancora tutta da costruire. Partire dal rifiuto delle norme imposte è forse il primo passo per l’autoderterminazione e per un radicale miglioramento delle condizioni di vita e salute delle donne. Spero davvero che la forza divulgativa del romanzo diffonda la storia della super donna che fu Trotula de Ruggiero come esempio e speranza per una femminilità vessata e, a volte, silente.

                                                       Cassandra Velicogna

Bibliografia: Paola Presciuttini Trotula, Meridiano Zero, Bologna 2013 pagg 416 € 18

venerdì 18 ottobre 2013

Intervista a Piergiorgio Odifreddi di Maria Mantello


Il “De rerum natura” di Lucrezio ha folgorato sulla strada della razionalità filosofica contrapposta alle illusioni e paure religiose Piergiorgio Odifreddi, che lo ha tradotto in prosa accompagnando ogni pagina con un suo articolato commento a fronte, dove sottolinea l’attualità delle grandi intuizioni scientifiche contenute in questo poema, che definisce il «più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione».

Il Lucrezio in versione Odifreddi (“Come stanno le cose, il mio Lucrezio, la mia Venere” – edito da Rizzoli), forse farà storcere il naso ai puristi, ma è straordinario per la potenza comunicativa delle efficaci soluzioni linguistico-letterarie, che iniziano fin dalla traduzione del titolo.

La fisica non finge ipotesi, come qualcun altro dopo Lucrezio dirà, perché descrive le cose. E cosa deriva da causa, quindi conoscere gli eventi della natura significa spiegare in modo empirico-razionale i nessi causali con cui la natura si autogenera e diviene. Quindi, la riflessione sulle cose della natura è chiarire come le cose della natura stanno. Ecco allora che “De rerum natura” è eccellentemente reso da Odifreddi con “Come stanno le cose”.

Una traduzione è anche atto creativo, perché bisogna penetrare l’autore e il senso profondo delle sue parole. É in questa combinazione di parole-atomo che avviene la mediazione linguistica delle relazioni tra significato e significante. Un lavoro di complicità tra autore originario e autore della traduzione fondamentale soprattutto di fronte ad una lingua da cui ci separano secoli. E penso che Odifreddi in questa ineludibile complicità si sia anche divertito nel fare sua l’opera a tal punto da sottotitolarla: il mio Lucrezio, la mia Venere.

E proprio con l’invocazione a Venere l’epicureo Lucrezio apre il suo componimento.
Venere è dea madre, natura-matrice, da dove tutto nasce. Venere amore tensione e compimento. Natura tutta autosufficiente nelle sue aggregazioni atomiche semplici e complesse. Connessioni nell’essere e dell’essere natura, di cui l’uomo è parte integrante nella sua corporalità: fisicità di ogni sua funzione, mente compresa.
E in questa corporalità vita-materia non c’è posto per nessun dio.

Da questo tema siamo partiti per parlare con Piergorgio Odifreddi del suo ultimo libro in questa intervista che ci ha concesso.

Lucrezio lo si potrebbe definire ateo, materialista, laico a tutto tondo... 

A voler essere precisi, Lucrezio non era ateo: credeva negli dèi, anche se pensava che se ne stessero a casa loro, incuranti delle vicende umane. Lo potremmo più precisamente definire un deista anticlericale: ce l'aveva soprattutto con "i preti" e la religione organizzata. Un po' come Voltaire, molti secoli dopo.

Lucrezio filosofo scienziato-visionario?

Lucrezio non era uno scienziato, così come non lo era Epicuro, al quale egli si ispirava. La loro era una visione umanistica, ma solidamente basata sulla scienza del loro tempo. La visionarietà di Lucrezio, che nel mio commento cerco di far emergere, deriva dal fatto che la scienza greca era arrivata molto avanti, come racconta Lucio Russo in "La rivoluzione dimenticata".
Ad esempio, il fatto che nel vuoto i corpi cadono con la stessa velocità, e che questa velocità è accelerata, era stato scoperto dai greci in generale, e da Ipparco in particolare. Lucrezio testimonia, con il suo poema, che questa tradizione scientifica era ancora viva ai suoi tempi. Ma poi si perse, e fu appunto dimenticata. Quei fatti furono dunque riscoperti da Galileo e Newton, e leggerli oggi in Lucrezio sa dunque di visionarietà. Ma Newton ammette, nei suoi Scoli classici, l'esistenza di questa sapienza antica, citando ampiamente Lucrezio a suo testimone.

Lucrezio al mito contrappone la razionalità...
L'idea centrale del libro di Lucrezio è appunto quella di sostituire le spiegazioni mitologiche e umanistiche dei fenomeni della natura, con spiegazioni scientifiche. Non sempre centra la spiegazione corretta, a volte è indeciso fra varie possibili spiegazioni e le riporta tutte come ipotesi, altre volte è fortunato e spiega le cose correttamente. Ma è il suo atteggiamento di fondo, che conta: gli eventi della natura vanno spiegati con la testa, e non con la pancia. Cioè, vanno spiegati in maniera scientifica, e non fantastica.

Lucrezio: “Perché mai i fulmini di Giove non risparmiano i templi e le statue degli dèi, e anzi distruggono gli uni e le altre?”. Non solo congeniale al matematico “impertinente” Odifreddi, ma di grande importanza educativa per il pensiero analitico-critico.
Sicuramente l'atteggiamento di Lucrezio, che è allo stesso tempo "divulgativo e impertinente", ha fatto scattare in me una simpatia per l'autore e la sua opera. Il De Rerum Natura è il libro che mi sarebbe piaciuto scrivere. Ma essendo già stato scritto, l'ho tradotto in prosa e commentato, per rivitalizzarlo e cercare di diffonderlo, soprattutto nelle scuole.

Atomi, vuoto come spazio geometrico, buchi neri sono già in qualche modo nella concezione di Lucrezio?
Le intuizioni scientifiche di Lucrezio, e degli scienziati dimenticati a cui egli si ispirava, sono veramente moltissime. Per questo, ho pensato, invece di riportare a fronte della traduzione il testo originale, come si fa di solito, di sfruttare lo spazio per scrivere un libro parallelo di commento.
Se posso fare un paragone immodesto, l'obiettivo era lo stesso di Fuoco pallido di Nabokov: scrivere un libro fatto solo di note, dalle quali però emergesse, alla fine, una storia autonoma e indipendente. Che nel mio caso è la storia della scienza, dall'atomismo alla cosmologia, rivisitata nella forma di un commento a uno straordinario poema latino.









Fonte: MicroMega

E se il Femminismo fosse l'Ancella del Capitalismo?





Come femminista ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. 

Ultimamente ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. 

Mi preoccupa, in particolare, che la nostra critica del sessismo fornisca oggi giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

Quasi fosse un crudele scherzo del destino, il movimento per la liberazione delle donne sembra essersi avviluppato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti nel costruire la società del libero mercato. 

Questo potrebbe spiegare perché una serie di idee femministe, che un tempo facevano parte di una visione del mondo radicale, oggi vengono utilizzate a fini individualistici.

 In passato, le femministe criticavano una società dove si promuoveva il carrierismo, adesso viene consigliato alle donne di “affidarsi”. Il movimento delle donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi festeggia le imprenditrici. 

La prospettiva di allora valorizzava la “cura” e l’interdipendenza umana, ora incoraggia il progresso individuale e la meritocrazia.

Ciò che si nasconde dietro tutto questo è un cambiamento di rotta del paradigma capitalista. 

Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista. 

La seconda ondata del femminismo è emersa come critica al capitalismo di prima maniera, ma infine è diventata ancella del capitalismo contemporaneo.

Con il senno di poi, possiamo sostenere che il movimento di liberazione delle donne ha contemporaneamente puntato a due diversi futuri possibili.

 In un primo scenario, esso ha disegnato un mondo in cui l’emancipazione di genere andava di pari passo con la democrazia partecipativa e la solidarietà sociale; nel secondo , ha promesso nuove forme di liberalismo, in grado di garantire alle donne, così come agli uomini, i “beni” dell’autonomia individuale, un ampliamento delle scelte, l’avanzamento meritocratico. 

Il femminismo di “seconda generazione” è stato, insomma, ambiguo in questo senso. Compatibile con entrambe le rappresentazioni della società, dunque suscettibile di due diverse concezioni della storia.

A mio parere, questa ambivalenza del femminismo in questi ultimi anni si è risolta a favore della seconda impostazione, quella liberista-individualista. Ma non perché noi donne siamo state vittime passive di seduzioni neoliberiste. Al contrario, noi stesse abbiamo direttamente contribuito a far raggiungere al capitalismo questo stadio di sviluppo attraverso tre blocchi di idee importanti.

Il primo contributo è rappresentato dalla nostra critica al “salario familiare”: il modello del maschio breadwinner e della femmina casalinga è stato centrale per il capitalismo stato-assistito, così per come esso era organizzato.

 La critica femminista a quel modello ora aiuta a legittimare il “capitalismo flessibile”.

 Questa nuova forma organizzativa del capitale contemporaneo si basa molto sul lavoro femminile salariato, soprattutto a basso costo, nei servizi e nella manifattura, garantito non solo da giovani donne single, ma anche da donne sposate e donne con figli; non solo da donne razzializzate, ma da donne di tutte le nazionalità ed etnie. Le donne si sono riversate nel mercato del lavoro globalizzato e il modello del capitalismo stato-assistito basato sul “salario familiare” è stato sostituito da una nuova e più moderna “norma” – apparentemente approvata dal femminismo: quella di una famiglia con due percettori di reddito.

Non importa che la realtà che sta alla base di questo nuovo paradigma sia il basso livello dei salariali, la riduzione della sicurezza del lavoro, il peggioramento degli standard di vita, un forte aumento del numero delle ore lavorate per garantire un reddito al ménage, l’allargamento di doppi – quando non tripli o quadrupli – ruoli e un aumento della povertà , sempre più concentrata sulle donne capofamiglia.

 Il neoliberismo trasforma un orecchio di scrofa in una borsa di seta, raccontandoci una storia di empowerment femminile. 

Si appella alla critica femminista del “salario familiare” per giustificare lo sfruttamento: sfrutta il sogno dell’emancipazione femminile come motore dell’accumulazione capitalistica.

Il femminismo ha anche fornito un secondo contributo all’ethos neoliberale. Nell’era del capitalismo di stato organizzato, abbiamo giustamente criticato una visione politica ristretta, così intensamente centrata sulla disuguaglianza di classe che non vi trovavano posto le ingiustizie “non economiche”, come per esempio la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione riproduttiva. 

Rifiutando l’economicismo e politicizzando “il personale”, le femministe hanno ampliato l’agenda politica generale, aggiungendo a essa il tema della costruzione gerarchica della differenza di genere.

 Il risultato avrebbe dovuto essere quello di espandere la lotta per la giustizia sociale, comprendendo sia gli elementi culturali che economici.

 Il risultato effettivo è stato invece una concentrazione estrema del femminismo sul tema dell’“identità di genere”, a scapito delle questioni che hanno a che vedere con il pane e con il burro. 

Vediamola peggio ancora: la svolta femminista verso una politica identitaria si è alleata fin troppo strettamente con un neoliberismo in crescita che non desiderava altro che reprimere ogni ricordo delle battaglie per l’uguaglianza sociale. 

In effetti, abbiamo assolutizzato la critica del sessismo culturale proprio nel momento in cui le circostanze avrebbero richiesto di raddoppiare l’attenzione intorno alla critica dell’economia politica.

Infine, il femminismo ha contribuito al neoliberismo con un terzo filone di pensiero: la critica al paternalismo dello stato sociale. 

Innegabilmente progressista nell’epoca del capitalismo di stato fordista, il giudizio negativo del femminismo è coinciso con la guerra del neoliberismo contro “lo stato balia” e i suoi più recenti cinici abbracci con le Ong.

 Un esempio significativo è rappresentato dal “microcredito”, il programma di piccoli prestiti bancari per le donne povere nel sud del mondo. Propagandato come un processo di potenziamento dal basso verso l’alto, alternativo a decisioni di vertice e alla burocrazia dei progetti statali, il microcredito è stato presentato come uno degli antidoti femministi alla povertà e alla sottomissione delle donne. In questo, ciò che è mancato è la consapevolezza di un’ulteriore coincidenza inquietante: il microcredito è fiorito proprio nel momento in cui gli stati abbandonavano gli impegni macro-strutturali per combattere la povertà, impegni che i prestiti su piccola scala non possono assolutamente sostituire.

 Anche in questo caso, quindi, l’ideale femminista è stato ripreso dal neoliberismo. Una prospettiva originariamente finalizzata a democratizzare lo stato, responsabilizzando i cittadini, viene impiegata ora per legittimare la mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale.

In tutti questi casi, l’ambivalenza del femminismo si è risolta a favore di un (neo)individualismo liberista. Ma certamente l’altro lato di noi, cioè le prospettive rappresentate dal femminismo solidale, potrebbe essere ancora in vita. La crisi attuale offre la possibilità di ampliare ancora di più quell’impostazione, ricollegando il sogno di liberazione della donna con la visione di una società solidale. A tal fine, le femministe hanno bisogno di rompere la relazione pericolosa con il neoliberismo, recuperando ai propri fini i tre “contributi” di cui abbiamo parlato.

In primo luogo, si dovrebbe rompere il falso legame tra la nostra critica al “salario familiare” e ciò che sono diventati gli attuali approdi del capitalismo del lavoro precario, combattendo per una forma di vita che non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura.

 In secondo luogo, dovremmo fermare lo scivolamento della critica all’economicismo verso una politica identitaria, implementando la lotta per trasformare l’ordine del discorso fondato su valori culturali patriarcali con la lotta per la giustizia economica. 

Infine, sarebbe necessario recidere il legame tra la critica alla statalizzazione e al fondamentalismo del libero mercato, recuperando il concetto di democrazia partecipativa come un mezzo per rafforzare i poteri pubblici necessari a vincolare il capitale a finalità di giustizia.


                                                                Nancy Fraser










Fonte: The Guardian, traduzione da quaderni.sanprecario.info