venerdì 31 maggio 2013

“LA STRAGE DELLE DONNE E I NEGAZIONISTI DI BUONA VOLONTA’”


C’è una vera ragione di allarme sulle donne uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso? 

Si è andata ampliando la reazione negatrice, fino a diventare una campagna.

Lo scandalo sul femminicidio è montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora diventa irrisorio. 

Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è sottolineato che la crescita – impressionante – nella loro quota relativa rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri omicidi, soprattutto quelli di mafia. 

Prima di motivare i dubbi sulla prima affermazione — il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel tempo e nei luoghi — sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. 

A questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra.
Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo patriarcale e un codice penale che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per tutti. 

Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. 

Rinvio, per una replica generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”, 27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari. 

Nella discussione “specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro “femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il secondo all’assassinio. 

Il binomio mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio come, alla lettera, uccisione di donne. 

Gli obiettori all’esistenza di una “emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o exmariti, ex-amanti, ex-fidanzati (e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. 

Questa delimitazione è frutto di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da sguardi estranei.

 Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in cui donne vengono uccise “perché donne”.

 Addito le prostitute assassinate. Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. 

Gli assassinii di prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute. Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo sono senz’altro. 

Nel caso delle prostitute, l’assassino è “il loro partner”. Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e prenda a nolo. 

La nudità esposta delle prostitute da strada – le più allo sbaraglio – è per loro un modo di aderire, per la durata della loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata dunque resa astratta e universale – come la moneta, corpo che sta per tutti i corpi – del piacere che può loro venire, della loro indigente questua di badanti sessuali. 

La gelosia maschile è così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e coltellate, salvo che la si riduca alla differente muscolatura) perché noi uomini intuiamo e temiamo una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessuna presunzione amorosa può del tutto addomesticare. 

Lo sapevano gli antichi, e ne avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridotto le donne in cattività, prime fra gli animali domestici. 

Ne hanno ereditato la nozione, pur non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsamente come una prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di morte una fonte di piacere renitente al comando. 

(Ricordiamo il catalogo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). 

Alle donne che fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa, bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”.

Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa, corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo che no. Eppure sì.

È affare di noi uomini. Le donne che fanno le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto in cui fa il nodo.

 È seccante rileggere i più bei frutti della nostra creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé.
I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato (qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!). 

Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o qualcuno perché è donna – o perché è gay, o perché è ebreo, o nero – sembra loro un’insensibilità costituzionale.

 Il paragone con le minoranze è improprio: le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. 

Le leggi, dicono, valgono per tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e Murgia – e tante altre – occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo il sostegno materiale ai centri antiviolenza.

 Aggravare le pene è il riflesso condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante. 

Di una sola misura c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale: solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze, quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il femminicidio attuato renderà postuma.


La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. 

Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?



                                                                          Adriano Sofri











Fonte: La Repubblica

giovedì 30 maggio 2013

Femminicidio: microfisica di un problema sistemico





Al delitto della giovane Fabiana di Corgliano Calabro è seguita la solita retorica del lutto inatteso e imprevedibile.
 Nulla di più sbagliato: quel delitto (insieme a tanti altri simili ad esso) è frutto di un clima culturale retrivo e opprimente, che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio.



È insopportabile la retorica che vuole “sotto shock” il villaggio, stavolta Corigliano Calabro, in cui si è consumato l’ennesimo femminicidio
È insopportabile la retorica che attribuisce un lutto inatteso e imprevedibile a una famiglia ignara e innocente.

È insopportabile perché ad essere responsabile di questo femminicidio, di tutti quelli avvenuti e di quelli che verranno, è la cultura medievale e sessista condivisa e coltivata nella famiglia, nel villaggio e nel resto del paese.  
È difficile credere che si senta davvero “sotto shock” un paese in cui tutti sapevano che l’assassino era un violento che girava con il coltello in tasca, che già era stato denunciato per aver spaccato il naso alla vittima, prendendola a pugni, per gelosia (denuncia subito ritirata).
 Una madre che, appena vede uscire l’assassino dall’ospedale, gli domanda soltanto, secondo il racconto di Niccolò Zancan su La Stampa: “Dove me l’hai buttata?”. Parole che, di per sé, fanno pensare alla vittima come a un oggetto di cui disfarsi o, nell’ipotesi migliore, a un oggetto da consegnare al primo uomo che se la fosse presa in carico. 
E un padre che si limita ad affermare la sua “mancanza di approvazione” per un uomo che spacca il naso di sua figlia, mostrando apertamente di volerla possedere come un oggetto.

Un villaggio, quello che si presume sotto shock, nel cui bar sport, severo e insindacabile tribunale degli eventi cittadini, circolano commenti dai toni assolutori, che ricordano i problemi che il carnefice, poverino, deve aver avuto per colpa della madre che metteva le corna al padre con un direttore del Comune.
                      Insomma la colpa è sempre di un’altra donna.

Chissà quante volte la famiglia, quel paese, quella cultura, devono aver mandato a Fabiana certi messaggi che la spingevano a sopportare la situazione, a mettere il suo benessere e la sua felicità dopo quella dell’uomo. 
A farle confondere, prima di dire basta, “amore maschile” con “volontà di controllo” e “amore femminile” con “cedimento alla volontà di controllo”.

Messaggi che sono continuati a pervenire subito dopo il femminicidio, con l’arcivescovo (considerato la massima autorità locale, chiamata a consolare la famiglia della vittima e dare pubblicamente una ragione dell’accaduto al posto di una istituzione dello Stato), che dichiara: “Preghiamo per colui che ha commesso il terribile omicidio, perché prendendo consapevolezza della gravità di quanto ha compiuto non sia sopraffatto da irrimediabili sensi di colpa ma si incontri col Dio della verità e della misericordia, che a tutti offre una strada possibile di giustizia, perdono, conversione, cambiamento di vita”.

Quell’arcivescovo che si preoccupa solo di lui, il carnefice, affinché sia perdonato e non sia sopraffatto dai sensi di colpa. 
Direbbe mai un arcivescovo che una donna non deve essere sopraffatta dai sensi di colpa? Quell’Arcivescovo che per rimediare alla vicenda sottolinea il bisogno di “puntare su un umanesimo che vede l’uomo per quello che è, bisogna ripartire dall’uomo e metterlo al centro”. No, caro Arcivescovo, questa vicenda ci insegna che l’uomo è già al centro, semmai è la donna che dovrebbe essere messa al centro. Ma per l’Arcivescovo, così come per il resto dell’umanità che continua a usare la parola “uomo” per riferirsi alla generica umanità, le donne non sono persone.

Fabiana è morta come un cane.
 È stata bruciata viva a 15 anni perché non voleva appartenere a un uomo, a colui che si era messo in testa di esserne il proprietario, con la collaborazione delle famiglie, del paese, della società, del sistema.

Eppure, nelle dichiarazioni del vescovo e nei giornali, nessuna condanna di questo sistema, del clima culturale retrivo e opprimente che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio, descritto bene da Domenico Naso sul Fatto Quotidiano. “La trattava come un oggetto”, hanno riferito i compagni di scuola della vittima ai giornalisti. Ma nessuno ha sentito il bisogno di denunciare l’oggettificazione del corpo femminile che perpetua la pretesa, il diritto, da parte del maschio, di trattare la propria compagna come un oggetto di sua proprietà.

Ecco, un oggetto. Barbara Befani ha scritto su MicroMega, commentando la proposta di Laura Boldrini di limitare l’uso del corpo femminile nella pubblicità, “Il fatto che il prodotto venga sessualizzato con un corpo significa oggettificare il corpo, non valorizzare le caratteristiche del prodotto … Il femminicidio è innanzitutto un fatto culturale e va attaccato da tante direzioni, compreso quello dell’oggettificazione dei corpi nelle pubblicità: la nostra formazione ci insegna a vedere le donne come oggetti e gli uomini come persone.
 Storicamente le donne sono state oggetti con precise funzioni nei confronti degli uomini: cura personale, servizi domestici, servizi sessuali, concepimento e crescita dei figli. Il femminicidio, come dice la parola stessa, è innanzitutto un problema di genere. La donna viene ammazzata in quanto donna: perché l’uomo ha delle aspettative precise sul ruolo della donna che la donna disattende. L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei.” 

E la cultura dominante, almeno nel paese, tale percezione dell’uomo la incoraggia, fino al punto di “perdonare” il femminicidio già pochi istanti dopo che si è compiuto.
 Quanti assassinii feroci sono stati derubricati alla voce “delitto passionale”, che suggerisce il concorso di colpa della vittima stessa, che promuove la violenza più efferata a sintomo di “passione”, un corollario dell’amore in fondo?

Una cultura locale ben raccontata in una lettera inviata al Corriere della Sera da Francesca Chaouqui, trentenne nata in Calabria a poca distanza dal luogo dell’omicidio: “Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio … Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale. Si incassa, si va avanti, ca non è c’ama fa ridi i genti, non dobbiamo far sogghignare la gente, un’espressione tipica per dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. I ragazzi guardano, imparano che la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie, diventa spesso parte di loro”.

Rincara la dose Domenico Naso nell’articolo sopracitato, raccontando di aver visto “ragazzine costrette a ritirarsi da scuola nonostante voti ottimi e menti brillanti, semplicemente perché la “famiglia” aveva scelto per lei. C’era già un fidanzato pronto per lei. O, quando andava bene, semplicemente serviva una mano in più in casa, perché il papà e i fratelli che tornavano stanchi da lavoro volevano il piatto caldo o le camicie stirate”.

Un problema che – nonostante sia diffuso in Calabria – non riguarda però solo la Calabria, così come la mafia, diffusa in Sicilia, non è un problema solo siciliano. Il maschilismo è una bestia sistemica, multilivello, multidimensionale; viene interiorizzato, trasmesso e perpetrato anche dalle donne stesse e riguarda non solo l’Italia ma tutto il mondo, e ha radici storiche profondissime.

La differenza tra l’Italia e i paesi in cui questo problema è tenuto sotto controllo è che negli altri paesi è riconosciuto, se ne parla, viene chiamato col suo nome, viene denunciato.
 E le parole non vengono solo pronunciate, vengono anche scritte, e vengono anche scritte su documenti legali. 
Diventano leggi che diventano anni di prigione per chi si permette di comportarsi in un certo modo.
 E diventano consapevolezza, deterrenti, sanzioni, attenzione; e da parte delle donne orgoglio ed emancipazione.
 C’è ancora tanta strada da fare, a Corigliano e nel resto del mondo, e per questo bisogna lottare affinché il sistema si trasformi e faccia sì che di fronte a queste situazioni le donne si sentano presto in pericolo, che scappino finché sono in tempo, e che possano scegliere di rispettare se stesse come persone invece che come mezzi che la persona-uomo usa per potersi sviluppare come persona, comodamente e senza faticare troppo. 

                                               Barbara Befani e Fabio Sabatini




fonte micromega

mercoledì 29 maggio 2013

Franca...sinceramente Franca... per sè e le Altre...


Le Lotte accanto alle operai, la sua voce contro gli stupri etnici; L'Impegno quotidiano accanto a Dario FO.

La Giornalista Chiara Valentini, che l'ha conosciuta bene racconta la Rame oltre il palcoscenico sua quintessenza di Donna e Artista.   


                          Ciao Franca.


                                                   







La prima volta che avevo incontrato Franca Rame a colpirmi era stata la sua bellezza. Già l'avevo vista a teatro, ne "La signora è da buttare" (la "signora" era l'America..), ultimo sberleffo dai palcoscenici borghesi prima del grande salto nel teatro popolare.

In scena Franca era una straordinaria attrice comica, nella vita di tutti i giorni era uno splendore difficile da immaginare. Eppure quando moltissimo tempo dopo Dario Fo, come regalo per i suoi 80 anni ne aveva scritto la biografia, aveva raccontato di quanto Franca da ragazza era stata tormentata dai complessi, amareggiata da un occhio vagamente strabico e da un seno un po' scarso...

Credo che nel corso della vita si fosse rassicurata, visto che anche a ottant'anni continuava ad essere molto bella, con quel sorriso fra il complice e l'ironico soprattutto quando parlava di se stessa, quando si prendeva in giro per gli acciacchi dell'età.

Una delle ultime volte che ero andata a trovarla nella mitica casa milanese di Porta Romana mi aveva fatto vedere quasi con civetteria un piccolo oggetto trasparente. «Vedi, è il mio apparecchio per l'udito. Si, sono diventata un po' sorda, ma perché dovrei nasconderlo? Un'attrice sorda può essere un bel guaio».

Lei in realtà nella vita aveva sempre badato a tamponare i guai degli altri, a cominciare da quelli di suo marito Dario, quel Nobel distrattissimo e sempre occupato a fare almeno tre cose nello stesso tempo («e poi tocca a me rimediare i disastri»).

Anche i testi teatrali di Fo, lo posso testimoniare, non sarebbero stati pubblicati senza Franca a rimettere insieme i copioni, a correggerli con pazienza certosina, persino a rivederli in bozze. «Se avessi impiegato per me il tempo e le energie che ho dedicato a Dario sarei presidente della Repubblica», ripeteva con un certo compiacimento. Glielo avevano riconosciuto anche i giurati di Stoccolma, che l'avevano citata nelle motivazioni del Nobel, rendendola felice come una ragazzina.


Da un certo momento della sua vita, Franca aveva cominciato a camminare da sola, a distaccarsi sul piano teatrale da quel marito così geniale ma anche ingombrante.

Erano state le donne il suo terreno, le loro condizioni e i loro drammi: anche quelli che aveva vissuto lei. Mi riferisco allo stupro e alle sevizie subite nel '73 da una banda di neofascisti. Dopo tre anni di depressione aveva avuto la forza di portarlo in scena in un lungo monologo, senza dire che stava raccontando la sua storia. Ma il pubblico aveva capito. «Alla fine della prima avevo ricevuto l'applauso più lungo della mia carriera», mi ha detto una volta con semplicità.

Poco a poco Franca era diventata una bandiera per le donne. Non solo per i suoi monologhi, quasi versioni al femminile dei 'Misteri buffi' di Dario, ma anche per la passione con cui partecipava a quel che capitava via via, dal sostegno agli scioperi delle operaie alla denuncia degli stupri delle donne in Bosnia. Voglio ricordare che mi aveva consegnato ben 200 mila firme raccolte in tempo brevissimo fra gli spettatori, perché le inoltrassi all'Onu, come molti stavano facendo in tutta Europa, perché lo stupro etnico diventasse un reato contro l'umanità. Cosa che è successa qualche anno dopo.

C'era un'esperienza di cui non parlava volentieri, quella di senatrice nel partito di Di Pietro. Quel periodo a Roma per Franca era stato duro, con dirigenti inafferrabili a cominciare dal segretario, compiti fumosi, parecchia solitudine. La colpiva, come mi aveva raccontato in un'intervista, l'indifferenza dei suoi colleghi senatori, sempre in corsa dietro qualcosa, indifferenti a tutto e a tutti.

Lei una mattina aveva provato a fare un po' di teatro. Ne aveva fermato uno, dicendogli con aria drammatica di avere nella borsetta un coltello insanguinato con cui aveva appena accoltellato una sua nipotina. Ma non era servito. «Ma davvero cara?», le aveva risposto quello sfrecciando via.

In compenso Fo aveva apprezzato, come quasi tutto quel che Franca faceva. «Che cosa ti piace di più di tua moglie?», gli avevo chiesto una volta. «Franca riesce a sdrammatizzare qualsiasi disastro, a trovarci qualcosa di positivo.'"E' sempre e solo teatro' è la battuta della sua vita». E poi aveva aggiunto che «anche per questo è impossibile fare a meno di lei».

Non riesco a pensare a come sarà difficile per Dario, per il figlio Jacopo, per i tantissimi che hanno voluto bene magari da lontano a questa coppia straordinaria abituarsi all'idea che Franca Rame in una mattina di maggio se n'è andata.



                                                              





Fonte:  L'Espresso

La Giustizia ai tempi della crisi planetaria


«La sfida oggi è affrontare la crisi umana: diseguaglianza, deprivazione e insicurezza economica e ambientale. Dal nuovo libro dell'economista indiano, "Sull'ingiustizia", in questi giorni in libreria per Erikson, alcuni spunti di riflessione


Amartya Sen, Economista di fama internazionale e premio Nobel nel 1998,  propone una sintesi potente e ragionata della sua riflessione sulla giustizia, riflessione che — a partire da quella che fu l’opera più importante della sua carriera, L’idea di giustizia — costituisce l’oggetto privilegiato dei suoi studi.
Ponendosi sul versante opposto a quello dell’istituzionalismo trascendentale — che, figlio di un certo Illuminismo, porta direttamente dal principio del contratto sociale (Hobbes, Locke, Rousseau) e da Kant al neocontrattualismo di Rawls e ai suoi epigoni più recenti — Sen sceglie un approccio alternativo che trova i suoi riferimenti metodologici nel filone che va da Adam Smith a John Stuart Mill, passando per Jeremy Bentham e Karl Marx.

In Lui prende forma una teoria della giustizia comparativa e non astratta (che non si concentra sull’isolamento di un modello ma analizza le istituzioni concrete e i comportamenti reali), relazionale e non utilitarista (che rifiuta la centralità del reddito optando per quella delle capacità), che si serve della scelta sociale come strumento di indagine, che valorizza le preferenze individuali e la loro pluralità eleggendo il confronto pubblico come loro spazio di dialogo.
Arricchito dai commentari critici di ricercatori che operano in Francia, Cina e Stati Uniti, Sull’ingiustizia conduce il lettore al cuore del dibattito contemporaneo internazionale su temi quanto mai attuali, che ci riguardano e interrogano con urgenza: la giustizia sociale, lo sviluppo sostenibile, i diritti individuali e la responsabilità collettiva.

Possiamo comprendere la gravità della crisi globale in corso solo se esaminiamo quel che sta accadendo alla vita reale degli esseri umani, specialmente alle persone meno privilegiate, al loro benessere e alla loro libertà di vivere vite umane dignitose. 
Non possiamo cogliere la gravità dei problemi che si trovano ad affrontare limitandoci a considerare il Pil e altri indicatori che descrivono le condizioni economiche della libertà umana invece della libertà umana in se stessa: la sua portata e tangibilità, e naturalmente la sua deprivazione e il suo declino.
 E sarebbe opportuno preoccuparsi dei guai e delle tribolazioni delle persone del mondo intero invece di restare confinati con lo sguardo ai nostri più prossimi vicini. Per riuscirvi, il perseguimento della giustizia globale è di una importanza ineludibile. (...)

Difformemente dall’approccio del contratto sociale che, costitutivamente, deve essere limitato alle persone di un particolare Stato sovrano, l’approccio alternativo può coinvolgere persone di qualunque parte del mondo, poiché l’enfasi in questo caso è sull’accordo ragionato invece che sul contratto sociale basato sullo Stato.
 Questa differenza rende possibile discutere della «giustizia globale», che è essenziale per affrontare problemi come le crisi economiche globali, il riscaldamento globale o la prevenzione e la gestione delle pandemie globali (come l’epidemia dell’Aids).

In contrasto con il vecchio approccio del contratto sociale alla giustizia che ha finora dominato l’indagine filosofica e professionale della giustizia, troviamo in questo approccio alternativo una focalizzazione sulla vita delle persone invece che soltanto sulle istituzioni, e una concentrazione di accordo ragionato rispetto a come far progredire la giustizia invece di cercare un ipotetico contratto capace di stabilire una serie di istituzioni perfettamente giuste. Ciò può costituire la base di un ragionamento globale invece del perseguimento della giustizia in nazioni separate con modi circoscritti. (...)

Per comprendere il contrasto fra una visione della giustizia focalizzata sull’accordo e una focalizzata sulla realizzazione, può essere utile fare riferimento a una vecchia distinzione tratta dalla letteratura sanscrita sull’etica e la giurisprudenza
Consideriamo due parole diverse niti e nyayaciascuna delle quali significa giustizia nel sanscrito classico. Fra gli usi principali del termine niti vi sono la proprietà organizzativa e la correttezza della condotta. A differenza di niti la parola nyaya fornisce un concetto esauriente di giustizia realizzata. In questa prospettiva, i ruoli delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto siano importanti, devono essere valutati nella prospettiva più vasta e inclusiva del nyaya che è ineludibilmente legata al mondo così come si manifesta realmente, e non solo alle istituzioni o alle leggi che ci capita di avere.

Per considerare una particolare applicazione di quanto stiamo dicendo, i primi teorici legali indiani parlavano con disprezzo di ciò che chiamavano matsyanyaya, «la giustizia nel mondo dei pesci», dove il pesce grosso può impunemente divorare il pesce piccolo
Ci ammoniscono che evitare il matsyanyaya è parte essenziale della giustizia e che è cruciale assicurarsi che la giustizia dei pesci non possa invadere il mondo degli esseri umani. Il riconoscimento centrale qui è che la realizzazione della giustizia nel senso del nyaya non riguarda solo la valutazione delle istituzioni e delle leggi, bensì la valutazione delle società medesime. 
Indipendentemente dal grado di appropriatezza delle organizzazioni stabilite, se un pesce grosso può ancora divorare un pesce piccolo a suo piacimento, deve esserci una palese violazione della giustizia umana in quanto nyaya. (...)

Il mercato è un’istituzione tra le tante. A parte la necessità di politiche pubbliche a favore dei poveri nella cornice economica (politiche legate all’educazione di base e alla salute, alla creazione di posti di lavoro, alle riforme terriere, all’accesso al credito, alle protezioni legali, all’aumento delle possibilità e del potere delle donne, ecc.), la distribuzione dei benefici delle interazioni internazionali dipende anche da una varietà di accordi globali (fra cui accordi commerciali, leggi chiare, iniziative mediche, scambi educativi, risorse per la divulgazione tecnologica, politiche ecologiche e ambientali, ecc.). 
Sono tutte questioni suscettibili di discussione e costituirebbero argomenti importantissimi per il dialogo globale, accogliendo critiche provenienti da vicino e da lontano. Fra i modi in cui la democrazia globale può essere perseguita vi sono il fermento pubblico attivo, il commento delle notizie e la discussione critica, e tutto questo può essere esercitato senza attendere che vi sia uno Stato globale.

La sfida oggi è il rafforzamento di questo processo di partecipazione già attivo, da cui dipenderà largamente il perseguimento della giustizia globale. 
È chiaro che sarebbe necessario risolvere oggi la crisi finanziaria ed economica, ma oltre a questo vi è la sfida della crisi umana connessa alla diseguaglianza, alla deprivazione e all’insicurezza economica e politica oltreché ambientale. 
Riuscire a pensare travalicando i confini nazionali e porsi coscientemente problemi sulla giustizia globale può rafforzare i canali che già esistono per migliorare la libertà umana e la giustizia sociale e può aprirne di nuovi al servizio di questa causa così importante. I problemi che dobbiamo affrontare oggi possono essere cospicui e difficili, ma la sfida di superare queste avversità globali non è solo un impegno necessario, può anche essere un’entusiasmante impresa globale.

La disperazione è una caratteristica soggettiva delle menti prigioniere, non una caratteristica oggettiva del mondo in cui viviamo. Le nostre menti hanno la capacità di una prospettiva e di una comprensione molto vaste, e le nostre riflessioni possono essere ulteriormente allargate dall’uso della nostra capacità di riflettere valendoci anche dei ragionamenti che sanno trascendere i confini nazionali.
 Non vi è alcuna reale necessità di rinchiudere le nostre fervide menti in scatolette di provincialismo. 
«Dovunque vi sia un’ingiustizia, c’è una minaccia alla giustizia in ogni altro luogo del mondo», disse Martin Luther King, Jr., in una lettera dal carcere di Birmingham, mezzo secolo fa, nell’aprile del 1963.
 Sarebbe difficile oggigiorno trovare un programma più urgente del perseguimento delle istanze di giustizia globale.



                                                         Amartya Sen








Fonte: L’Unità

martedì 28 maggio 2013

NO la COSTITUZIONE NO




Sono 60 le associazioni che hanno aderito e saranno presenti alla manifestazione del 2 giugno a Bologna (piazza Santo Stefano – dalle ore 13.30). Dalle associazioni nazionali per la legalità e il lavoro come LIBERA, ANPI, CGIL e FIOM a quelle che più direttamente si ispirano alla difesa della Costituzione. 
Una rete di movimenti grandi e piccoli ramificati sul territorio da Palermo a Rovigo, da Bari a Pistoia che dalla mobilitazione del 2 giugno iniziano un percorso comune. “Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni”.

Dal palco di piazza Santo Stefano interverranno insieme a Gustavo Zagrebelsky e Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà e Roberto Saviano, Salvatore Settis e Nando dalla Chiesa, Susanna Camusso e Alessandro Pace, Maurizio Landini e Carlo Smuraglia, Lorenza Carlassare e Beppe Giulietti, Raniero La Valle e Giovanna Maggiani Chelli, Alberto Vannucci e Giovanni Bachelet.

Hanno aderito:
Rosy Bindi, Paolo Flores D’Arcais, Roberta De Monticelli, Felice Casson, Pippo Civati, Giovanna Corrias Lucente, Davide Mattiello, Cristina Scaletti, Nadia Urbinati, Daria Bonfietti, Antonio Ingroia, Paolo Nerozzi, Antonio Borghesi, Sandra Zampa, Silvana Amati, Ernesto Bettinelli, Corrado Stajano, Giovanna Borgese, Antonio Caputo, Sergio Lo Giudice.

I circoli di LeG e le associazioni presenti hanno organizzato treni e pullman da Brescia, Torino, Firenze, Milano, Vicenza, Bassano del Grappa, Padova, Parma, Perugia, Ravenna, Roma, Senigallia, Civitanova Marche. 
 
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. 
Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un’altra.
 L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. 
L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. 
Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.

Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico.
 Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. 
L’incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. 
L’ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione – rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta – è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo.
 Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. 
Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.

Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto.
 Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. E’ già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?

Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l’armatura del potere di chi ne dispone. 
La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?

Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. 
Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.

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Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso.
 Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. 
Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. 
E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. 
La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. 
Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.

Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. 
Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia.
 Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza.
 Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.

Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.

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La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. 
Ma oggi se ne immagina un’altra, farraginosa e facente capo a un’assemblea, chiamata “convenzione”. 
Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. 
Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell’architettura della politica. 
L’odierna procedura – da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce – è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento.
 Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l’ostilità del Senato), per concludersi con l’approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. 
Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s’immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l’accaduto.
 Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex post non è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s’è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse – come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni – che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent’anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l’umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?

Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. 
L’argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l’azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l’obbligo di fedeltà alla Costituzione che c’è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?

Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. 
Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.

Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione.
 Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. 
La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. 
Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche. Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell’azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. 
Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl’interessi.

La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge.
 Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze. I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. 
Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati”) sono nell’interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d’una legge sulla democrazia nei partiti, anch’essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo.
 Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorrere poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell’una, e la sua sconfitta nell’altra. Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. 
Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? 
Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare – ma chi presta più attenzione a questi dettagli? – che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale).

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E allora? C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? 
Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. 
Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare.
 Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni. 
Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. 
Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. 
Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. 
Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.



                                               Gustavo Zagrebelsky

Nell'andar via di ognuna di loro c'è ognuna di Noi...



Fabiana, sedici anni, Corigliano Calabro, è l’ennesima vita che scompare per mano di un uomo violento, un ragazzo di un anno più grande di lei. 
Fabiana, come ha raccontato la madre, era una ragazza che aveva tutta la vita davanti, sogni, progetti e ambizioni da realizzare. 
E’ stata uccisa dal fidanzato per aver pronunciato un no.
Le dinamiche che hanno portato al suo omicidio appartengono al repertorio di un classico caso di femminicidio: il possesso, il disconoscimento del desiderio femminile da parte maschile, la chiusura e la solitudine di Fabiana. 
La compagna di scuola ha, infatti, dichiarato alla stampa “noi non l’abbiamo mai capita”. 
Niente di straordinario, perché, spesso, è difficile penetrare nel mondo di una donna che vive una relazione violenta.
L’opinione pubblica e i media se, da un lato, hanno denunciato e descritto l’omicidio di Fabiana, come un caso di femminicidio e non come un raptus di natura passionale, dall’altro, hanno rivelato una certa miopia nel volere trovare un’ulteriore chiave di lettura nella cultura di provenienza del ragazzo.
 Alcuni neurologi e psichiatri intervistati in trasmissioni televisive e radiofoniche hanno interpretato il gesto del fidanzato come un atto di violenza intriso di “tribalismo calabrese”, così alcuni articoli di giornalisti e opinionisti si sono concentrati sulla componente “mafiosa” della cultura calabrese.
Come è successo nei confronti di migranti, anche nel caso di Fabiana, la violenza di genere rischia di essere utilizzata per costruire discorsi pubblici che insistono sulla minaccia incombente della diversità e dell’inferiorità culturale.
Il migrante che commette violenza è lo straniero, il diverso, colui che con la sua presenza mette in pericolo l’identità unica e monolitica di una supposta comunità (etnica, nazionale, morale). 
Nel caso dell’omicidio di Fabiana, invece, la violenza è originata dall’alterità calabrese, portatrice di una cultura arretrata e subalterna che spinge ineluttabilmente a usare violenza nei confronti delle donne.
Questa narrazione “convenzionale” del femminicidio rischia di costruire a livello simbolico e discorsivo la pericolosità sociale di categorie o mondi etnici e culturali, con l’effetto di distogliere lo sguardo dalla radice trasversale e politica della violenza di genere.

Come associazione daSud, impegnata nella costruzione di un nuovo immaginario antimafia e antisessista, prendiamo distanza politica da simili interpretazioni che eludono il cuore del problema: nel nostro paese, le donne muoiono perché donne, indipendentemente dalla razza, dall’etnia e dalla cultura dell’uomo violento.
Inoltre riteniamo che, nel racconto del femminicidio, fare riferimento alla specificità culturale di un territorio tradisca un’interpretazione erronea delle culture, concepite come monoliti e non come “processi” che hanno nel cambiamento, nella revisione e reinterpretazione di pratiche la loro ragion d’essere.
Il Femminicidio è un fenomeno complesso, non dice solo della violenza estrema che pone fine alla vita di una donna, ma di una violenza sistemica e trasversale che pervade tutti gli “ambiti vitali”, dalla famiglia, alla scuola, all’organizzazione sociale.
La ratifica della Convenzione di Istanbul, da ieri in discussione alla Camera, segna un traguardo fondamentale perché assume la violenza alle donne come un fatto strutturale e pervasivo della nostra società.
 Passaggi decisivi ma non definitivi. L’impegno delle Istituzioni deve essere quello di portare al centro del dibattito la soggettività delle donne e la piena libertà femminile, per riaprire uno spazio oscurato dalla nube retorica della “dignità delle donne” e per avviarsi verso un processo di elaborazione collettiva della violenza di genere che chiama in causa non solo la pluralità dei soggetti coinvolti per il suo contrasto (istituzioni, operatori antiviolenza, magistrati, medici, ect.) ma la società civile tutta”. 
Nessuno può esimersi da questo compito che impone, in primo luogo, di mettere in discussione l’ordine asimmetrico delle relazioni tra i generi oggi così profondamente connesso alla “crisi del maschile”, chiave ineludibile per uno sradicamento della cultura del dominio.