domenica 22 dicembre 2013

Madiba per sempre Madiba: Lincoln dell’Africa






È difficile fare l’elogio di qualsiasi uomo, racchiudere nelle parole non soltanto i fatti e le date che ne hanno segnato la vita, ma la verità fondamentale e intima di quella persona.

Le sue gioie profonde e i suoi dolori; i momenti di pace e le qualità che ne hanno illuminato l’anima. Quanto maggiormente è difficile farlo nel caso di un gigante della storia, che ha messo una nazione intera in marcia verso la giustizia e così facendo ha messo in marcia miliardi di persone in tutto il mondo!

Nato durante la Prima guerra mondiale, molto lontano dai corridoi del potere, dopo un'infanzia trascorsa a fare il pastore di bestiame e a imparare dagli anziani della sua tribù Thembu, Madiba sarebbe emerso come l'ultimo grande liberatore del XX secolo. 
Come Gandhi, egli avrebbe guidato un movimento di resistenza, un movimento che agli esordi aveva ben poche prospettive di successo. Come King, egli avrebbe dato voce forte e potente alle richieste degli oppressi e alla necessità morale di giustizia razziale. 
Avrebbe affrontato una prigionia disumana, iniziata all'epoca di Kennedy e Krusciov e conclusasi nel periodo finale della Guerra Fredda. Uscendo dalla prigione, senza la forza delle armi, al pari di Lincoln avrebbe unificato il Paese proprio mentre esso rischiava di lacerarsi.

Tenuto conto della sua incredibile vita e dell’adorazione che si è guadagnato così meritatamente, si sarebbe tentati di ricordare Nelson Mandela come un’icona, sorridente e serena, distaccata dalle occupazioni ordinarie di uomini comuni. 
Ma Madiba stesso si è sempre opposto strenuamente a questo ritratto senza vita. Al contrario, egli ha sempre insistito per condividere con noi i suoi dubbi e i suoi timori; i suoi errori di valutazione insieme alle sue vittorie. «Non sono un santo — diceva — a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova».

È proprio perché egli riusciva ad ammettere di non essere perfetto — e perché sapeva essere così pieno di buonumore, addirittura di furbizia, malgrado il pesante fardello che trasportava — che noi lo abbiamo amato. Non era un busto di marmo. Era un uomo fatto di carne e di sangue, un figlio e un marito, un padre e un amico.
 Ecco perché abbiamo appreso così tante cose da lui. Ecco perché possiamo apprenderne ancora molte altre da lui. Perché niente di ciò che egli è riuscito a raggiungere era scontato. Nell’arco della sua vita abbiamo visto un uomo guadagnarsi un posto nella storia lottando, con avvedutezza, persistenza e fede. Egli ci dice che cosa è possibile non soltanto nelle pagine di polverosi libri di storia, ma anche nelle nostre stesse vite.

Mandela ci ha insegnato il potere dell’azione, ma anche delle idee; l’importanza della ragione e delle giuste argomentazioni; la necessità di studiare non soltanto coloro con i quali vai d’accordo, ma anche coloro con i quali non vai d’accordo. Mandela ha capito che le idee non possono essere imprigionate tra le mura di un carcere, né messe a tacere dalla pallottola di un cecchino. 
Egli ha trasformato il suo processo nella denuncia dell’apartheid grazie alla sua eloquenza e alla sua passione, ma anche grazie ai suoi studi e alla sua formazione di avvocato. Ha trascorso i decenni passati in prigione a rendere più affilati i suoi ragionamenti, ma anche a diffondere la sua sete di sapere agli altri del movimento. E ha appreso la lingua e le usanze dei suoi oppressori, così da poter riuscire meglio un giorno a comunicare loro in che modo la loro libertà dipendesse dalla sua.

Infine, Mandela ha compreso lo spirito umano e come esso sia legato a quello di tutti. C’è una parola in Sudafrica, Ubuntu, che descrive e condensa questo suo immenso dono: egli ha saputo vedere che siamo tutti legati gli uni agli altri in modi invisibili e che sfuggono allo sguardo; che esiste unione nel genere umano; che possiamo conseguire il nostro pieno successo condividendolo con gli altri e prendendoci cura di chi abbiamo attorno. 
Non possiamo sapere quanto di ciò fosse già innato in lui, o quanto si sia plasmato e forgiato nella sua buia cella solitaria. Ma ne ricordiamo i gesti, piccoli e grandi, come presentare i suoi carcerieri come ospiti d’onore alla sua cerimonia di insediamento come presidente; scendere in campo indossando l’uniforme degli Springbok; aver trasformato una tragedia della sua famiglia nell’invito a lottare contro l’Hiv/Aids.

Questi suoi gesti piccoli e grandi hanno svelato tutta la sua profonda empatia e comprensione. Egli non soltanto ha incarnato l’Ubuntu, il senso di umanità. Ha insegnato a milioni di persone a trovare dentro di sé quella stessa verità.
 C’è stato bisogno di un uomo come Madiba per liberare non soltanto il carcerato, ma anche il carceriere; per dimostrare che ci si deve fidare degli altri così che gli altri si fidino di te; per insegnare che riconciliarsi non significa ignorare un passato crudele, ma che riconciliarsi è un mezzo per opporre a quel crudele passato l’inclusione, la generosità e la verità. 
Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori.

Per il popolo sudafricano, per coloro che egli ha ispirato in tutto il pianeta, il trapasso di Madiba è giustamente motivo di lutto, e occasione per celebrarne la vita eroica, ma io credo che la sua morte debba anche invogliare ciascuno di noi a un’autoriflessione. 
Con onestà, e indipendentemente dalla nostra posizione o dalle circostanze della nostra vita, dobbiamo chiederci: quanto bene ho applicato queste lezioni nella mia stessa vita?

Questa è una domanda che io rivolgo a me stesso, come uomo e come presidente. Sappiamo che come il Sudafrica anche gli Stati Uniti hanno dovuto superare secoli di oppressione razziale. Come è stato vero qui, ci sono voluti i sacrifici di un numero incalcolabile di persone, note e ignote, per vedere l’alba di un giorno nuovo. Michelle e io abbiamo beneficiato di quella lotta. Ma in America e in Sudafrica, e in molti Paesi di tutto il pianeta, non possiamo permettere che il progresso oscuri il fatto che il nostro compito non può dirsi concluso. 
Le lotte che puntano alla vittoria dell’eguaglianza e al suffragio universale possono non essere caratterizzate da quella stessa drammaticità e limpidezza morale di quelle combattute in precedenza, ma non per questo sono meno importanti. 
Perché ancora oggi in tutto il mondo vediamo bambini patire la fame e soffrire per le malattie, vediamo scuole fatiscenti e scarse prospettive per il futuro. Ancora oggi in tutto il mondo uomini e donne sono messi in prigione per le loro idee politiche e sono perseguitati per il loro aspetto fisico, per la loro pratica devozionale, per la persona che amano.

Anche noi dobbiamo agire per il bene della giustizia. Anche noi dobbiamo agire perché la pace prevalga. 
Troppi di noi sono pronti ad abbracciare con gioia l’eredità di Madiba della riconciliazione razziale ma oppongono una strenua resistenza a riforme anche modeste che potrebbero porre fine alla povertà cronica e alle crescenti ineguaglianze. Ci sono troppi leader che si dichiarano solidali con la lotta di Madiba per la libertà, ma che non tollerano il dissenso dei loro stessi popoli. E ci sono troppi di noi che ancora restano in disparte, comodamente compiacenti o cinici quando dovrebbero far ascoltare la loro voce.

Non esistono facili soluzioni per i problemi con i quali siamo alle prese oggi: come promuovere l’eguaglianza e la giustizia, come affermare la libertà e i diritti umani; come porre fine ai conflitti e alle guerre settarie. Ma neppure per quel bambino di Qunu c’erano facili risposte.

Nelson Mandela ci rammenta che ogni cosa può sembrare impossibile finché non la si realizza.
 Il Sudafrica ci dimostra che questa è la verità. 
Il Sudafrica ci mostra che possiamo cambiare.

Non vedremo mai altri Nelson Mandela. Ma permettetemi di dire ai giovani africani e ai giovani di tutto il mondo che voi potete fare vostre le lotte e le conquiste della sua vita.
 Oltre trenta anni fa, quando ero ancora uno studente, appresi chi era Madiba e quali fossero i conflitti della sua terra. Conoscerlo scosse qualcosa dentro di me, nel profondo.
 Mi risvegliò e mi mise in grado di far fronte alle mie responsabilità nei confronti degli altri e di me stesso, e mi avviò lungo la strada che mi avrebbe portato dove mi trovo oggi. Se da un lato so che non riuscirò a eguagliare l’esempio di Madiba, dall’altro so che egli vuole che io voglia migliorare. Egli fa appello a ciò che di meglio c’è dentro di noi.

Quando questo grande liberatore sarà sepolto per riposare in pace; quando saremo ritornati nelle nostre città e nei nostri villaggi e avremo ripreso le nostre routine quotidiane, proviamo a cercare dentro di noi, nel profondo di noi stessi, la sua grande forza, la sua grandezza d’animo.
 E quando la notte si farà scura, quando l’ingiustizia renderà pesante i nostri cuori, o quando i nostri piani ben delineati ci sembreranno irraggiungibili, pensiamo a Madiba, pensiamo alle parole che nelle quattro mura della sua cella gli arrecarono tanto conforto: 
«Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita: io sono il padrone del mio destino; io sono il capitano della mia anima».
                                                                 Barack Obama


Fonte: Repubblica, 11 dicembre 2013


mercoledì 6 novembre 2013

Alla Ricerca dell'Impegno Perduto secondo Camilleri


La tendenza odierna di molti intellettuali italiani appare il disimpegno, contemplata dal rischio di sfociare non di rado nell' aperta indifferenza, le occasioni per ‘sporcarsi le mani’, nell’Italia dei nostri tempi di certo non mancano, ma che funzione svolgono gli intellettuali?


*************************************************************
L’impegno dell’intellettuale è una storia della quale cominciai a sentir parlare nell’immediato dopoguerra, con Sartre e tutti gli altri.
 Allora si chiedeva, da parte della sinistra, ma diciamo pure da parte del Partito comunista, una sorta di integrazione assoluta dell’intellettuale all’interno della politica del partito. 
Insomma, si chiedeva all’intellettuale un impegno civile, ma era un impegno esattamente definito dentro i «paletti» di un’ideologia e di una linea politica: chi sgarrava era fuori. 
Vedi Vittorini. Vedi tanti altri.

Successivamente, con la destalinizzazione e poi il boom, il carattere dell’impegno degli intellettuali è mutato, non più strettamente legato a un’ideologia ma più direttamente ai problemi della società.
C’è stata tutta una letteratura legata alla fabbrica, al boom economico e alla sua critica, prendiamo un autore certamente non «estremo» come Mastronardi…

Poi la critica, il senso politico, anche quello in senso lato sociale, è andato affievolendosi. Perché? Non lo so, eppure dopo l’onda lunga del Sessantotto, parliamo degli anni Ottanta, succede che ci troviamo in una situazione parecchio paradossale: in nove casi su dieci l’intellettuale in Italia non parla del mondo in cui vive, parla d’altro.


Una volta si diceva che la cultura si chiudeva in una sua «torre d’avorio», ed è proprio quello che è successo e che si sta accentuando.
 In peggio, addirittura, perché prima c’era l’impegno, poi il non impegno, e ora un terzo livello, il disinteresse per il mondo in cui si vive, l’indifferenza. 
Gli intellettuali che praticavano un tempo la «torre d’avorio» e magari la teorizzavano, erano consapevoli di questo loro «astrarsi» dalle vicende civili e politiche, ci tenevano a distinguersi, a essere considerati al di fuori, cioè «al di sopra». 
Oggi non c’è neppure questo aristocraticismo. Oggi c’è solo il «particulare»: lo scrittore racconta del suo ombelico, se vi sta bene, bene, altrimenti pazienza. 

Magari qualcuno obietterà che sul proprio ombelico Proust ha scritto un capolavoro in più tomi, che ci sono periodi storici in cui si può parlare ampiamente e splendidamente del proprio ombelico, magari anche oggi. Ma allora avanzo una contro-obiezione e chiedo una «separazione delle carriere»: tu come scrittore parli del tuo ombelico, ma come cittadino non puoi non accorgerti della situazione di disagio e di ingiustizia in cui vive la maggioranza del paese. Almeno come cittadino, ne vuoi parlare? Vuoi spendere una parte del tuo prestigio almeno per «aggregarti» umilmente con chi prende iniziative per combattere quelle ingiustizie? No, neanche questo. Ecco perché siamo a una sorta di grado zero della funzione dell’intellettuale oggi in Italia. Sono pochissimi gli intellettuali che partecipano come cittadini, e questo è un danno, un danno enorme. E anche una colpa. 

Perché se hai una qualche dote, che ti fa in qualche modo distinguere, ritengo un dovere che tu la debba usare impegnandoti come cittadino, è un modo di restituire parte dei privilegi di cui godi. Naturalmente bisogna intendersi sul termine «intellettuale». Mi lamentavo dell’assenza civile degli scrittori, degli artisti, perché altri intellettuali si impegnano, per fortuna. 

Zagrebelsky è un intellettuale, Rodotà è un intellettuale, però nel mio campo, nel campo più vicino al mio, io non trovo un impegno analogo, mentre la situazione del paese imporrebbe l’obbligo più assoluto di una costante par-te-ci-pa-zio-ne!
Il paese vive una situazione grave. La risposta sono le «larghe intese»? Io guardo i 700 mila posti di lavoro persi, denunziati non dalla Fiom ma addirittura dalla Confindustria. Settecentomila posti di lavoro persi in poco tempo, e non è che le immediate prospettive facciano sperare che si recuperino in due o tre anni. In Italia c’è una guerra in atto. Che cosa succede quando avviene una guerra? Spariscono due o tre generazioni, spariscono perché sono morti, rimangono lì sul campo, giovani, belli, di 22, 23, 24, 25 anni, schiattano tutti messi in fila e non hai problemi. Da noi è lo stesso. Noi ci troviamo con due, tre, quattro generazioni alle quali abbiamo levato praticamente ogni speranza di sopravvivenza. Solo che sono vivi.

E c’è qualcuno che ai pochi intellettuali che si impegnano ha la faccia tosta di rimproverare di occuparsi di problemi astratti, con cui non «si mangia», tipo la giustizia, il conflitto di interessi, l’ineleggibilità di Berlusconi, l’autonomia della magistratura, gli attacchi contro la procura di Palermo… come se non fossero cose concrete anche queste.

E allora: è vero, io personalmente Andrea Camilleri, nome e cognome, ho difeso la procura di Palermo e al tempo stesso mi sono trovato più volte accanto alla Fiom per ciò che riguarda i problemi del lavoro. Perché sono certo che c’è un nesso, che bisogna avere una visione delle connessioni tra i problemi. È astratto proprio «settorializzare». Il problema della giustizia è in strettissimo rapporto con il problema dei soldi che ci sono, per esempio. L’evasione fiscale gigantesca, il costo gigantesco della corruzione.

Il funzionamento della giustizia (oltre al problema Berlusconi, che resta cruciale), che snellisca e acceleri i processi, compresi quelli della giustizia civile, perché un investitore straniero che voglia venire in Italia, competente il Foro di Roma (ma non solo), si terrorizza all’idea di un qualsiasi contrasto. 



Se non combatti la tangente l’economia non riparte. Una legge come quella attuale sul falso in bilancio che garanzia dà? Sono tutte «perle» che sembrano slegate dalla crisi economica, ma insieme fanno invece una collana. Pensiamo alla prescrizione, basterebbe abolirla dopo il rinvio a giudizio, e i processi sarebbero infinitamente più rapidi. A parte il fatto che una sentenza per prescrizione lascia tutto in quella ambiguità alla quale noi italiani ci rassegniamo, e che è uno degli elementi peggiori della nostra vita associata. In Italia, i misteri d’Italia non si risolvono mai. 

Qualche giorno fa il presidente Napolitano se ne viene fuori che vorrebbe sapere la verità sull’abbattimento di Ustica. Bene, sono passati trent’anni, è davvero sbalorditivo stare dentro al potere per decenni, e poi «chiedere chiarezza». Della strage di Bologna ancora non sappiamo come davvero siano andate le cose. Nell’ambiguità italiana i personaggi del potere ci sguazzano, perché sono personaggi ambigui, tutti. Poi ti accusano di antipolitica.

Non so se Napolitano sappia, so che anche Cossiga faceva il gioco di chiedere chiarezza, ed era addirittura più diretto, perché indicava ipotesi. So soprattutto che quello dell’ambiguità è in Italia lo sport nazionale. Guardiamo il governo della «larghe intese», un capogruppo del Pdl dice che questo governo non funziona, il vicepresidente del Consiglio di questo governo dice che se non si fa una certa legge il governo se ne va a casa, eppure sono al governo e questo signore ne è addirittura il vicepresidente! Se gli amministratori delegati di una società ragionassero e parlassero così, la società in Borsa andrebbe a vacca nel giro di trenta secondi.

Gli intellettuali, in una situazione così, avrebbero di che pascere, e invece non lo fanno. Alcuni per «non sporcarsi le mani» con la politica, altri per un certo timore di perdere qualche privilegio, di non essere invitati in qualche salotto. Magari dirò una sciocchezza, ma se il bianco è il bianco e il nero è il nero, e tu sei il bianco che comincia a combattere il nero, la situazione è chiara, sai chi sono i tuoi alleati, sai chi sono i tuoi nemici. Ma in un mondo melmoso, paludoso, come quello della politica italiana, probabilmente fa già un po’ di ribrezzo perfino entrarci dentro. Eppure si può e ci si deve rimboccare le maniche e combattere con impegno politico contro la politica ridotta a cosa sporca. È inutile chiamare questo impegno «antipolitica», la politica resta essenziale, è indispensabile alla vita di una nazione. Ma se questa politica diventa una cosa putreolente è chiaro che tu…
Ecco perché gli intellettuali dovrebbero impegnarsi in politica: per farla tornare a essere quella che è stata o, meglio ancora, quella che potrebbe essere.

So che quando pubblico un libro ho un certo numero di lettori. E che nei confronti di un romanzo circa il 99 per cento dei lettori si ferma alla «prima lettura», alla superfice. Però qualcuno va più a fondo. E allora so che anche nel mio piccolo, anche attraverso Montalbano, posso parlare dei problemi dell’Italia di oggi. Se i miei colleghi non vogliono far questo nei loro romanzi, almeno, visto che hanno la possibilità di scrivere sui giornali, di apparire in televisione eccetera, da cittadini esprimano le loro idee, che voglio sperare (anzi ne sono certo) non saranno quelle di una politica di basso conio. 


Lavorare per orientare l’opinione pubblica nel senso di più «giustizia e libertà», per educarla a questi valori, dovrebbe per un intellettuale, per uno scrittore, essere sentito come un dovere. Sentirsi responsabili per la formazione dell’opinione pubblica e, se non si fa nulla, sentirsi come un maestro di scuola che non fa lezione, che viene meno ai suoi doveri.

È triste dirlo, ma effettivamente pochi scrittori e pochi intellettuali lo fanno. Firmare un appello, partecipare a un’iniziativa, significa come dicevo prima «aggregarsi» con chi si è fatto carico di un problema, lo ha individuato meglio di te, lo espone e organizza la lotta per risolverlo. Significa partecipare alla vita sociale. Quelli che dicono che un intellettuale che firma un appello viene meno al suo ruolo non sanno quello che dicono: si può accusare un intellettuale perché partecipa alla vita sociale?

Forse se oggi sono così pochi gli intellettuali impegnati è anzi perché non si può impegnarsi, diciamo così, «in carrozza», con licenza dei superiori, avendo alle spalle un partito. Oggi se ti impegni, devi farlo a nome tuo e basta, ma io trovo che sia più stimolante, avere dietro la rete del partito la trovavo un’esercitazione da circo equestre per bambini. Impegnarsi in prima persona è assai più stimolante e, se mi è concesso, assai più dignitoso.

C’è anche un modo più sottile di evitare l’impegno, restare sul generico, in modo che non sia scomodo per nessuno. Chi è che non aderisce a un manifesto contro la mafia? Perfino Totò Riina aderirebbe… Quando vai all’atto pratico e devi trarre le conseguenze concrete, allora le cose cambiano, devi difendere dei magistrati con nome e cognome, quelli della procura di Palermo, tanto per dire. E allora a impegnarsi con coerenza rimangono in tre o quattro. 

Ci sono atteggiamenti che non capisco. A proposito di procura di Palermo, ad esempio. Non parlo neppure dell’atteggiamento di Napolitano, mi colpisce perfino di più l’atteggiamento della gran parte della stampa italiana rispetto a un atto fatto dal presidente della Repubblica: sono rimasto sinceramente molto turbato che chi ha criticato il presidente sia stato accusato, o poco ci mancava, di lesa maestà, quasi che il presidente della Repubblica fosse «Sua Maestà». E questo mentre non si fa una piega nei confronti di manifestazioni di piazza contro una sentenza, con tanto di parlamentari berlusconiani e con Berlusconi che qualche giorno dopo viene ricevuto dal Quirinale! 

Questo atteggiamento unanime, di conformismo dei media non è che mi ha sconcertato, mi ha quasi spaventato: mi ha atterrito sentire e leggere che non appena si sentisse la voce dell’Altissimo bisognava chiudere immediatamente le registrazioni, bruciarle… Significa confondere il rilievo, la dignità, l’importanza di una carica, che è pur sempre una carica, con una sorta di cattolica infallibilità della medesima. Ripeto: questo mi spaventa.

Un tale atteggiamento di sudditanza a Napolitano è perfino più inquietante delle stesse scelte fatte dal presidente. Posso ripetere qui quanto ho detto in un confronto pubblico con Massimo Ciancimino: per l’amor del cielo, cerchiamo di essere persone concrete, la trattativa è innegabile, no? Non è difficile da immaginare: da questa parte del tavolo siede Totò Riina e Ciancimino (il padre) dall’altra il generale Mori; è chiaro lo squilibrio di forze, da una parte due generalissimi, Riina e Ciancimino, dall’altra sì e no un caporalmaggiore.

I due avranno chiesto a Mori: «Quali sono le sue commendatizie, Signore? Chi la manda? Chi l’autorizza a venire a trattare? Perché altrimenti noi “nni susemo e nni nni iemo” [qui Camilleri ripete l’espressione in romanesco: “S’alzamo e se n’annamo”, n.d.c.], in quanto lei non ha nessuna voce in capitolo, nessuna autorità». È chiaro che a questo punto i nomi sono stati fatti, ma non solo i nomi, sono state portate le prove che quei nomi corrispondevano a volontà precise. Chiaro? Perché altrimenti non ci sarebbe stata nessuna trattativa. Insomma, troppe volte si dice che si vuole chiarezza ma in realtà di preferisce mantenere la nebbia. È come quando dicevano: Andreotti e Coso si sono baciati? Ma figurati! Non è possibile! Eppure la risposta vera è stata data dall’attore comico siciliano Ciccio Ingrassia: se si sono incontrati, allora si sono anche baciati. Il punto cruciale è in quel se. Il bacio viene di conseguenza e non è neppure essenziale.

Perciò, se la trattativa c’è stata, vuol dire che il caporalmaggiore Mori aveva dietro di se i capi di Stato maggiore che gli avevano dato l’incarico, e aveva la possibilità di dimostrare di averlo effettivamente ricevuto. Perché allora oggi tutti, tranne qualche magistrato sempre più solo e nel mirino, sembrano preferire la nebbia? Non voglio arrivare a dire perché sono tutti coinvolti. Non lo so. Questa voglia di servilismo, questa servitù volontaria, io infatti non riesco a spiegarmela. 
Tra le tante cose che mi preoccupano dell’Italia di oggi, quella che più mi preoccupa è lo stato dell’informazione. L’ambiguità dell’informazione, il detto e non detto, il non chiarire, il tenersi la nebbia. Del resto, la trattativa Stato-mafia, che c’è stata, è una cosa gravissima, ma non ci fu a suo tempo la trattativa Stato-Brigate rosse? 

Tirare fuori la trattativa con la mafia costringe a diverse domande inquietanti, alle quali probabilmente non ci sono risposte. Comunque io non credo che un ministro della Giustizia decida motu proprio l’alleggerimento del 41 bis senza consultare gli altri membri del governo, queste sono fantastorie che possono andare a raccontare agli altri. In realtà i tentativi di accordo ci furono, ed è grave che uno Stato tratti con la mafia. Ma, lo ripeto, questo stesso Stato la prova generale di trattativa con la criminalità organizzata l’aveva fatta con il caso Ciro Cirillo. «Mai trattare con i terroristi» e poi si trattò per la sua liberazione. È stata la prova generale.

Con la mafia non può essere andata diversamente. Oltretutto, quel tavolo di trattativa in cui sedeva Mori era talmente importante che la mafia vi operò addirittura un cambio di «rappresentanza»: poiché l’irragionevolezza di Riina tagliava la strada a qualsiasi trattativa, allora si sono venduti Riina ed è subentrato il «diplomatico» Bernardo Provenzano. Quindi vuol dire: la trattativa c’era ed era seria.

Di fronte a fenomeni così gravi, non capisco il silenzio di troppi intellettuali. Non so come spiegarmelo. In alcuni è pura imbecillità, diciamolo francamente. In altri è assoluto disinteresse, in altri è una sorta di… continuare a convivere con quell’ambiguità di cui parlavamo prima. Poi ci sono quelli che arrivano a dire «ma è storia vecchia, dai, è passata in giudicato, non interessa più». Perché sembra che ormai in Italia le «storie» abbiamo una scadenza di ventiquattr’ore. Dopo ventiquattr’ore spariscono, dalla stampa, dalla televisione, dalla memoria dell’opinione pubblica, spariscono da tutto. 


Eppure una delle funzioni dell’intellettuale è coltivare la memoria. Brutta storia questa perdita di memoria. Anche quando i processi si fanno, dopo trenta o quarant’anni, quante testimonianze non sono più possibili, quanto prove sono state opportunamente perse, e tutto finisce nel dimenticatoio.

Uno storico potrebbe divertirsi a scrivere un’autentica storia d’Italia, una storia del non detto, una storia d’Italia per omissioni, sarebbe interessantissima. Dal delitto Moro a Ustica, dalla stazione di Bologna all’Italicus, dalla Banca dell’Agricoltura a Milano a quella di piazza della Loggia a Brescia, se li mettiamo tutti in fila la storia d’Italia è un continuo succedersi di bombe e di attentati, e di ruolo di alte cariche e perfino presidenti della Repubblica. Stranamente negli ultimi 20-25 anni le stragi cessano, dopo la famosa trattativa, come se tanti anni di bombe avessero provocato dei crateri melmosi dentro i quali affondare e controllare il paese. Attenzione, però, perché l’intellettuale che crede di salvarsi con la non partecipazione rischia di affondare in questa stessa melma.

Perché la mancanza di partecipazione è contagiosa. Se ci sono intellettuali che partecipano, dibattono, polemizzano, si mantiene viva la ricerca delle soluzioni ai problemi. Se gli intellettuali smettono di partecipare, tutto torna nella nebbia e nel silenzio.



 Se ci fosse un Pasolini, oggi magari il Corriere accanto al suo articolo ne pubblicherebbe un altro per smussarne le punte, ma comunque Pasolini lo pubblicherebbe. Ma oggi non c’è un Pasolini, uno Sciascia, neppure un Moravia, che in più momenti è stato lucidissimo e bravissimo sui problemi italiani. Quando manca questo sprone continuo, anche l’intellettuale che si impegna finisce per trovarsi isolato, ha la sensazione che il suo diventi solo uno sfogo di malumore, perché manca il confronto, chi ti controbatte, magari, ma senza eludere i problemi.

La cattiva salute dell’Italia è data oggi anche da questa sorta di melassa dentro la quale tutti ci rotoliamo e dall’omologazione che ne consegue.


 Un giovane intellettuale che comincia a emergere oggi, non emerge perché rappresenta una voce fuori dal coro ma proprio perché sa raccogliere meglio di tutti un desiderio dominante di non impegno, di non partecipazione. Per questo Antonio Tabucchi ci pareva una voce rara. Ma ai tempi di Sciascia e Pasolini, non era una voce rara. Poi è diventata una voce rara, Antonio, perché era ormai l’unico che dicesse le cose con chiarezza e anche con il necessario sdegno. Dopodiché, fine. In realtà gli intellettuali – non vorrei pronunciare parole per cui domani mi diranno «da dove arriva questo a farci lezioni?», ma lo devo dire, con molto dispiacere – gli intellettuali oggi non hanno coscienza neanche del loro tradimento.

Talvolta si concedono un impegno blando, pro forma, sempre tenendosi sulle generali, ma è come fare l’elemosina. Mentre ci sarebbe bisogno che gli intellettuali avessero oggi il coraggio di impegnarsi in prima persona, parlando chiaro, facendo j’accuse concreti, rispondendo solo alle proprie idee, poi se il partito x pensa y non me ne frega niente e se anche il salotto x e il giornale y, io vado avanti comunque…

Non so perché gli intellettuali non lo facciamo, se non in pochi. Cos’hanno da perdere? Eppure molti pensano di essere impegnati, di essere coraggiosissimi. Ma si limitano ai valori generali, e dunque non colpiscono nessuno. Mentre se vuoi lottare contro la mafia devi schierarti con quelli che la mafia la combattono davvero.

Perché mi sono schierato con Caselli, Ingroia, Scarpinato e con tanti altri magistrati che lavorano per sconfiggere la mafia? Ma perché se io voglio essere contro la mafia, quei magistrati ho il dovere di considerarli un prolungamento di questa mia scelta, un braccio mio (e di tutti i cittadini che pensano che con la mafia non si debba convivere), e dunque non posso rinnegare il mio braccio, devo difenderlo.


 Ecco perché ho difeso Ingroia nelle recenti polemiche e non esiterò se qualcun altro si troverà nella stessa posizione. A restare sul generico siamo tutti bravi. Ma l’impegno si dimostra andando nel concreto. Sei contro la disoccupazione, per la difesa dei posti di lavoro? Ma chi è che questa lotta la fa davvero? Landini e la Fiom. E allora devi stare con la Fiom e con Landini, non è che rimani nel generico. 

Ma è proprio questo passo, quello della coerenza e della concretezza, che ripugna a molti intellettuali. O li spaventa.


                                                             Andrea Camilleri



Fonte: MicroMega 6/2013 numero dedicato al tema <<L'Intellettuale e L'Impegno>>.

martedì 5 novembre 2013




Che cosa significa “rappresentanza” in Kant? E come tutto ciò si collega alla distinzione fra forme di Stato e forme di governo? Ne parla Giuseppe Duso, nel suo recente Idea di libertà e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, (Polimetrica, 2012), di cui pubblichiamo, per sua gentile concessione, un estratto.




Idea di liberta e costituzione repubblicana nella filosofia politica di KantBisogna allora mettere a fuoco ciò che Kant intende per quella rappresentanza che costituisce il nucleo centrale dei principi repubblicani: solo così si eviterà di fraintendere il pensiero kantiano e si potrà comprendere il suo contributo specifico all’interno della storia dei concetti politici moderni, contributo che consiste in una problematizzazione filosofica. In tal modo sarà possibile anche intendere il significato che viene a prendere il termine direspublica. Certo questo non è assimilabile all’uso pre-moderno, che indica ciò che accomuna una pluralità di parti politiche, come evidenzia una copiosa iconografia, in cui la repubblica è raffigurata mediante un corpo femminile le cui diverse membra alludono alle parti della società, principe, senato, milizie ecc.. Neppure il termine si risolve totalmente nel quadro della moderna sovranità, segnato dal dualismo radicale di pubblico – come politico – e privato, in cui l’unica comunanza sta nell’aver riconosciuta la sfera del proprio arbitrio e del proprio interesse dal potere unico. Infine il termine non può essere inteso secondo l’assetto delle moderne costituzioni, nelle quali vi è separazione dei poteri e un principio rappresentativo che si basa sull’autorizzazione che i cittadini esprimono mediante il voto. Nel significato del termine repubblicanoriemerge in Kant una nuova comunanza, non riducibile alla sudditanza e alla difesa della propria sfera privata, una nuova appartenenza, al di là dell’unità realizzata dal potere: è l’appartenenza alla sfera pubblica della ragione, che determina per i cittadini un ambito di partecipazione diverso e ulteriore nei confronti di quello del voto[1].
Nella costruzione hobbesiana il rapporto di rappresentanza è totalmente risolto nella forma a cui dà luogo il processo di autorizzazione: il fatto che la volontà del soggetto collettivo non possa essere espressa se non da colui che lo impersona, che lo rappresenta, significa che la volontà espressa dal rappresentante è immediatamente la volontà del popolo. Non c’è nessuna eccedenza della volontà dell’essere collettivo nei confronti della sua espressione empirica attraverso il rappresentante sovrano. In tal modo la funzione rappresentativa si risolve nell’espressione di una volontà arbitraria, che non ha nessun punto di riferimento e nessun obbligo fuori di sé. Così non è in Kant. Il fatto che il vereinigter Wille des Volkes, in quanto grandezza ideale, debba passare attraverso la mediazione rappresentativa, non significa che si identifichi con l’espressione empirica della volontà comune da parte del rappresentante (chiunque esso sia, a seconda della forma dello stato: il monarca, i pochi o tutto il popolo). Non abbiamo qui un meccanismo procedurale legittimante, sia pure ideale, quello proprio della figura del contratto sociale, che, partendo dalla volontà dei singoli, autorizzi l’espressione della volontà comune da parte del rappresentante. “Autorizzare” significherebbe che ognuno non può che ritenere come propria la volontà del rappresentante in ragione del processo di autorizzazione, senza cioè poter giudicare di volta in volta i contenuti della rappresentazione, cioè i contenuti del comando espresso dalla persona legittimata a ciò. In Kant è invece necessario che colui che dà la legge guardi alla ragione e alle sue leggi, che non dipendono da un semplice gioco degli arbitri.
Un tal modo di intendere il principio rappresentativo emerge già nel momento in cui si identifica in esso l’elemento che caratterizza la costituzione repubblicana, che – Kant si preoccupa di precisare – non deve essere scambiata con quella democratica, dal momento che è piuttosto a quest’ultima opposta. Se si intende bene in che cosa consiste questa contrapposizione e dunque il carattere specifico che Kant ravvisa nella democrazia, si potrà capire come la rappresentanza non possa essere ridotta alle procedure costituzionali della democrazia contemporanea, e dunque come la riflessione kantiana sulla rappresentanza non si esaurisca nell’affermazione della democrazia rappresentativa come modello costituzionale. In Sulla pace perpetua il principio rappresentativo viene introdotto in seguito alla distinzione tra leforme di Stato e la forma o il modo del governo.
Questo è un punto che porta con sé una serie di difficoltà e che bisogna cercare di chiarire. Il problema è molto complesso. Infatti Kant distingue le forme di Stato in relazione alle persone (Personen) che detengono il sommo potere statale (oberste Staatsgewalt). In tal modo egli riprende la distinzione tradizionale delle cosiddette forme di governo. Tuttavia tale ripresa è nell’ottica della moderna sovranità che in realtà, in base al concetto dell’uguaglianza degli uomini, esclude che tra di essi possa razionalmente esistere una relazione basata sulla diversità, come quella esistente tra chi governa e chi è governato. Conseguentemente non essendo più pensabile il governo, nel senso antico del termine, viene a perdere di significato la stessa distinzione tra quelle che sono, in senso proprio, forme di governo[2]. Ora Kant, riferendosi a queste forme di Stato o dell’imperium, pensa di indicare le persone che sono depositarie della sovranità e che possono dunque esprimere il proprio comando come comando del corpo collettivo. Ma nella formalità di questa logica il contenuto del comando dipende unicamente dall’arbitrio dei detentori del potere, dell’imperium o della Herrschaft, di colui o di coloro che si trovano nella situazione di essere Herren, detentori appunto del comando, dell’autorità, del potere.
Non è a questo livello, delle forme di Stato, che Kant parla del principio rappresentativo. La rappresentanza emerge piuttosto nell’ambito della forma di governo (forma regiminis), del modo cioè secondo il quale coloro che detengono il potere nella sua pienezza (Machtvollkommenheit) ne fanno uso. È questa la cosa di maggior rilievo, la modalità dell’esercizio del potere, che può avere due soluzioni: o quella repubblicana, o quella dispotica. Ora la differenza tra dispotismo e repubblicanesimo è tutta giocata sulla distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Questa distinzione si riferisce alla modalità dell’uso del potere, che può essere esercitato o come fosse cosa propria, secondo il proprio arbitrio – e allora si ha dispotismo – oppure in modo rappresentativo, cioè riferendosi a regole razionali che indicano la via della legge e che escludono che sia la propria volontà a divenire legge[3].
La distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo non mi pare possa essere identificata con quello che si intende nel momento in cui, in età contemporanea, si parla di divisione dei poteri. Nel contesto kantiano non si tratta di individuare gruppi di persone o corpi dello Stato che, con forme diverse di autorizzazione, esplichino il proprio potere in forma indipendente e tale da poter controllare gli altri poteri. Non è a questo meccanismo costituzionale che Kant allude[4]. Infatti nel testo a cui ci stiamo riferendo si vede come la distinzione del potere legislativo da quello esecutivo si tramuti nell’affermazione del principio rappresentativo: il sistema del governo, se vuole essere repubblicano, e dunque conforme al diritto, non può che essere rappresentativo. Ciò che in questo contesto viene chiamato rappresentativo(ZeF 352-353, M 184-185, G 172-173) o sistema rappresentativo (das repräsentative System) non è legato alla necessità costituzionale che qualcuno eserciti di fatto il potere per tutto il corpo politico, ma piuttosto che l’agire di costui non dipenda dal proprio arbitrio, bensì dalla ragione e dalle sue leggi[5]. Allora la separazione tra esecutivo e legislativo appare consistere in questo: che il detentore del potere (che è colui che di fatto fa le leggi) non si limiti ad esprimere la sua propria volontà, ma piuttosto si riferisca alla volontà legislatrice del popolo.
Allora si può comprendere come, delle tre forme di Stato, quella democratica sia necessariamente dispotica, in quanto si basa sulla assolutizzazione della volontà di tutti: infatti essa stabilisce “un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno, ed eventualmente anche contro uno (che non è d’accordo con loro, e dunque tutti deliberano anche se non sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà”[6]. Naturalmente qui non si tratta semplicemente del potere esecutivo, in quanto la democrazia è una forma di Stato, che implica che il popolo sia legislatore, come appare chiaro nella Rechtslehre, dove vengono distinte le diverse forme in cui si può incarnare il potere sovrano e in cui questo potere si rapporta con il popolo[7]. Il potere sovrano dello Stato (che Kant chiama Beherrschung, Herrschaft, o Souveränität), può avere come depositario o una sola persona, e allora si ha autocrazia, o alcune persone, e allora si ha aristocrazia, o la totalità del popolo, e allora si ha democrazia. In quanto queste tre forme incarnano il potere sovrano, e quest’ultimo si esprime nella formazione della legge, le tre forme imperii costituiscono tre maniere di intendere il potere legislativo e dunque il modo di esprimersi della volontà comune o del comando che costituisce la legge[8]. Conseguentemente le tre forme di Stato implicano anche che i detentori del potere siano coloro che esprimono l’aspetto più alto del potere, quello di fare la legge, riunendo in sé potere legislativo e potere esecutivo. Ciò è da tenere presente, perché quando Kant si riferisce alla forma regiminis, cioè di governo, non si riferisce alle forme diverse che può avere l’esecutivo, ma al modo di esercitare il potere, che può essere o dispotico o repubblicano e cioè rappresentativo.
La critica della democrazia, che qui è intesa come democrazia diretta, non dipende tanto da una mancata distinzione di carattere empirico e fattuale tra potere legislativo e potere esecutivo: in questo caso basterebbe che il popolo legislatore affidasse ad un esecutore, al principe, l’esecuzione delle leggi, alla maniera di Rousseau. Il problema consiste piuttosto nel fatto che, se il popolo è inteso come soggetto empiricamente presente, tende ad esercitare il potere a proprio arbitrio, essendo il soggetto collettivo e non secondo le leggi della ragione: non ha nessun punto di riferimento ideale al di fuori del suo arbitrio eil suo arbitrio viene scambiato per volontà generale. È allora escluso ilprincipio rappresentativo, in quanto ognuno (e tutti insieme) vuole essere sovrano (Herr sein will)[9]. La democrazia, in quanto dispotismo, è caratterizzata dalla mancanza del principio rappresentativo, risultando, in tal modo, priva di forma (Unform). Qui non viene detto che la democrazia corre il rischio di essere dispotica, ma piuttosto che in quanto tale è dispotica: incarna il dispotismo nella forma più pura, si potrebbe dire, in relazione alle altre forme. In quanto il popolo, inteso come reale soggetto della politica trova in sé una volontà che è assoluta, che da niente può essere vincolata.
Il senso della critica alla democrazia e il vero significato del principio rappresentativo possono essere compresi se ci si chiede in quale senso il principio rappresentativo sia principio di forma e perché le tipologie non democratiche (intendendo in questo caso la democrazia come democrazia diretta) non siano, in senso pieno, rappresentative. L’affermazione kantiana che ogni forma di governo che non sia rappresentativa (e dunque il dispotismo, in cui si riassume un uso del potere non  repubblicano, in quanto non ispirato al principio rappresentativo o – e ciò sembra essere la stessa cosa – alla distinzione tra legislativo ed esecutivo) è priva di forma potrebbe suggerire una riflessione basata sul principio rappresentativo quale è nato con Hobbes ed è venuto a caratterizzare lo Stato moderno: solo attraverso il rappresentante la volontà generale può prendere forma e dunque presentarsi in modo determinato[10]. Ma non è tale il senso dell’affermazione kantiana. La forma richiede che colui che detiene il potere non possa esprimersi in modo arbitrario, ma si debba rivolgere alla razionalità della volontà generale e a quell’idea del popolo legislatore che eccede colui che di fatto deve esprimerla, rappresentarla. Se la volontà generale fosse immediatamente quella che il detentore del potere rappresenta, ci sarebbe arbitrio, mancanza di razionalità e di forma. Ritroviamo in tal modo quella sfera della ragione, come superiore alla emanazione della legge, che si è presentata nel Gemeinspruch attraverso la libertà di penna.
Per comprendere cosa Kant intenda per rappresentanza è necessario capire il vero senso della critica alla democrazia e il perché non siano considerate rappresentative monarchia e aristocrazia, cioè l’esercizio del potere pubblico da parte di uno o di pochi. Chiediamoci innanzitutto come mai, se il dovere del legislatore è quello di riferirsi all’idea del contratto originario e dunque al principio di fare le leggi come se (als ob) tutto il popolo le facesse, Kant rifiuti la possibilità che sia tutto il popolo, insieme riunito e concorde[11], a poter legittimamente decidere e ad esercitare il sommo potere. Può sembrare paradossale che si ravvisi nella volontà del popolo il vero sovrano e si rifiuti nello stesso tempo l’idea democratica dell’esercizio del potere da parte del popolo. La ragione non consiste tanto, in questo caso, nella difficoltà di pensare il popolo, nell’accezione dell’insieme di tutti, come empiricamente presente, quanto piuttosto nel fatto che ci si troverebbe di fronte ad un soggetto che può intendere il suo arbitrio – qualunque esso sia – come volontà generale, solamente per il fatto che è costituito dalla totalità dei cittadini. In tal modo andrebbe persa l’eccedenza ideale e razionale della volontà comune nei confronti di chi esercita il potere e si trova ad esprimere la volontà del soggetto collettivo. Si avrebbe identità di potere legislativo e potere esecutivo, nel senso in cui ne parla Kant. Perciò il pensiero del popolo come soggetto empiricamente presente offrirebbe una modalità immanente di legittimazione che perde quel necessario rapporto con la ragione che è principio di forma e che caratterizza un governo repubblicano. Il popolo cioè, in quanto soggetto collettivo,  costituirebbe una fondamento immanente della politica, autosufficiente e perciò assoluto, negando proprio quella eccedenza dell’idea che vedremo essenziale per il pensiero kantiano della prassi.


                                                                                      GIUSEPPE DUSO










NOTE
[1] Sulla funzione regolativa del senso comune al di là della sua riduzione al piano empirico dell’accordo delle opinioni, cfr. F. Menegoni, L’a-priori del senso comune in Kant dal regno dei fini alla comunità degli uomini, “Verifiche 19 (1990), pp. 13-50; per il significato politico del senso comune e del giudizio è da tenere presente la nota proposta di H. Arendt, specialmente inThe Life of the Mind, Chicago 1958, tr. it., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.
[2] È da notare che, quando ci si riferisce alla distinzione tra le forme di governo che troviamo nei Greci e in tutto lo sviluppo del pensiero politico fino a Hobbes, senza avere consapevolezza della distinzione tra l’antico principio del governo e il moderno concetto del potere, si interpretano le forme di governo come indicanti il numero diverso delle persone che possiedono il potere supremo, la possibilità della decisione sovrana: in questo modo si intendono tali forme alla luce di quel concetto di sovranità che nasce invece proprio nel tentativo di negazione del fatto che ci sia tra gli uomini chi governa e chi è governato. Quando i termini di monarchiaaristocrazia edemocrazia emergono nel quadro della sovranità, essi non possono venire a indicare altro che diverse forme rappresentative di esercizio del potere sovrano. Le affermazioni qui fatte si possono comprendere nella loro motivazione solo grazie alla radicale distinzione tra governo e potere, per la quale rimando ai miei lavori: La logica del potere, cap. III, La rappresentanza politica, sp. pp. 69-92, e Il potere e la nascita dei concetti politici moderni, ora in S. Chignola e G. Duso, Storia dei concetti e filosofia politica,Franco Angeli 2008, cap. V.
[3] ZeF 352 (M 183, G 172). I problemi relativi alla terminologia kantiana sono sempre assai ardui, anche perché i termini non sempre sono usati in senso rigoroso nel significato che Kant puntigliosamente determina. I problemi aumentano poi nelle traduzioni, in cui si ha spesso un uso poco oculato dei termini, che rende difficile o fa deviare la comprensione concettuale. In M 183 si ha il riferimento alle “tre forme di governo”, mentre in realtà il testo tedesco parla coerentemente delle tre Staatsformen. Infatti Kant aveva appena distinto le forme della Beherrschung o imperii, dal modo del governo (der Regierung oregiminis), ed ora vuole giudicare come le tre forme in cui si esprime la sovranità dello Stato si rapportano, o si possono rapportare, al modo di governo. Se entra nel ragionamento la possibilità che ci siano forme di governo diverse, autocratica, aristocratica e democratica non si riesce più ad intendere il testo che parla di due modalità dell’uso di governo, quella dispotica e quella rappresentativa o repubblicana. Da ciò si può intendere che tale distinzione non è traducibile in termini formali e costituzionali, ma coinvolge piuttosto il problema del concreto agire politico.
[4] Cfr. il saggio di Rametta citato alla nota 25.
[5] Si tenga ben presente ciò quando si leggerà (si veda l’ultimo paragrafo del presente lavoro), nel § 52 della Rechtslehre, che “la vera repubblica non può essere altro che un sistema rappresentativo del popolo”.
[6] ZeF 352 (M. 183, G 172).
[7] Cfr. RL § 51, p.338 (tr. it. 173), dove è chiaramente affermato che autocrazia, aristocrazia e democrazia di distinguono tra loro a seconda di chi è il legislatore.
[8] Per questa distinzione e per la terminologia usata da Kant, oltre al passo cit. di ZeF, e al § 51 della RL, anche i §§ 45 e 49.
[9] ZeF 353, M 184, G 172.
[10] Da questo punto di vista Schmitt afferma il carattere formante della rappresentazione, che è l’elemento di forma nella forma politica, in quanto non c’è costituzione senza l’elemento rappresentativo (cfr. G. Duso,Rappresentanza e unità politica nel dibattito degli anni Venti: Schmitt e Leibholz, in La rappresentanza politica cit., pp. 145-173).
[11] “Soltanto dunque la volontà concorde e collettiva di tutti (der übereinstimmende und vereinigte Wille Aller), in quanto ognuno decide la stessa cosa per tutti e tutti la decidono per ognuno, epperò soltanto la volontà generale collettiva del popolo può essere legislatrice” (RL § 46, 313-314; tr it. 143). Sulla rilevanza dell’als ob insiste anche V. Fiorillo, La concezione politica del Zumenigen Frieden, in La filosofia politica di Kant cit. pp. 45-50.









Giuseppe Duso è stato Professore ordinario di Filosofia politica all’Università degli Studi di Padova. Ha recentemente pubblicato  Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna (ed.), Roma 1999, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma 1999, La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con Gaetano Rametta), Milano 2000, La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Milano 2003.








Fonte: MicroMega Il Rasoio di Occam - Filosofia

domenica 3 novembre 2013

Socrate nostro Patrono







“Il filosofo moderno è spesso un funzionario,
 sempre uno scrittore, e la libertà che gli è
 concessa nei suoi libri ammette una controparte:
 quello che scrive entra fin dall’inizio in un
 universo accademico dove le opzioni di vita sono
 indebolite e le occasioni di pensiero velate [...]
 Ora, la filosofia deposta nei libri ha cessato di
 interrogare gli uomini. Ciò che in essa vi è di
 insolito e di quasi insopportabile si è nascosto
 nella vita decorosa dei grandi sistemi. Per
 ritrovare l’intera funzione del filosofo bisogna
 ricordare che sia i filosofi-autori che leggiamo, sia
 noi stessi in quanto filosofi, non abbiamo mai
 smesso di riconoscere come patrono un uomo che
 non scriveva, che non insegnava, quanto meno
 da una cattedra di stato, che si rivolgeva a coloro che
 incontrava per strada e che ha avuto delle difficoltà
con l’opinione pubblica e con i poteri statali.
 Bisogna ricordarsi di Socrate“

                                            (Merleau-Ponty, Elogio della filosofia)

mercoledì 30 ottobre 2013

Intellettuali: Contraddizione Vivente. Ma a cosa servono?


Far bene il proprio lavoro’. È questa, secondo un certo refrain oggi piuttosto in voga, la più proficua e doverosa forma di impegno per un intellettuale.
 In realtà, dietro tale formula non si cela altro che una razionalizzazione del disimpegno. 
Oggi più che mai, va invece ribadito che l’‘essere impegnato’, per un intellettuale, equivale a mettere il proprio prestigio e la propria visibilità al servizio della causa della democrazia radicale.



1. L’intellettuale pubblico esiste, questo è un fatto. L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta: un altro fatto, sembrerebbe. Esaminiamoli entrambi.

Che l’intellettuale pubblico esista ancora non c’è dubbio. 
Scrittori, filosofi, registi, le cui prese di posizione «fanno rumore», creano dibattito, influiscono sull’opinione pubblica, talvolta costringono partiti e governi a modificare la famosa «agenda», in qualche caso danno addirittura vita a movimenti di massa (Nanni Moretti con i girotondi), non sono affatto scomparsi.
 I ricorrenti «necrologi» in morte dell’intellettuale – genere letterario squisitamente da intellettuali – dimostrano solo il narcisistico attaccamento di qualche intellettuale a un personale wishful thinking, da idiosincrasia di outsider frustrato e/o volontà di scalare posizioni. Più frequentemente l’alibi, da parte di chi è un intellettuale arrivato, per razionalizzare la propria pulsione all’indifferenza quale scelta obbligata, e fare di vizio necessità. 

Insomma, quello dell’intellettuale non costituirà forse un gruppo sociologicamente omogeneo e chiaramente identificabile come un tempo, ma le figure della cultura con prestigio e carisma e conseguente privilegio di essere ascoltate esistono eccome. 
Ciò che latita, semmai, è la disponibilità di queste personalità a mettersi in gioco, a risultare scomode, a farsi dei nemici, a spendersi per gli altri cittadini, anziché curare la propria carriera.

L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta, si dice.
 L’intreccio tra statura professionale e ruolo di riferimento etico-civile, che lo caratterizza, era legato al carattere alto dell’attività culturale, riconosciuta aristocrazia dello spirito, creativa o scientifica che fosse. 
Il prestigio non era legato al successo mediatico, spesso poteva costituirne l’antitesi e la silenziosa denuncia
Esisteva una gerarchia dei generi e della qualità. Nell’universo dell’esistenzialismo si muovevano chansonnier e attrici (di straordinario valore, oltretutto), ma Simone de Beauvoir veniva prima di Juliette Greco, che sarebbe stata la prima a riconoscerlo, benché assai più popolare presso grande pubblico e rotocalchi.
 Le parole, anche le più straordinarie, della più bella canzone, restavano «parole», non versi (un poeta poteva regalare i suoi a un cantante, naturalmente). 
La cultura aveva i suoi ranghi, perfino un film per essere arte doveva chiamarsi Ejzensˇtein o Bergman, altrimenti restava solo spettacolo, per quanto grande.

Figura dialettica, dunque, l’intellettuale, perché reale contraddizione vivente: solo se riconosciuto dai suoi pari e da altre élite, dunque da un establishment, poteva esercitare il suo ruolo di coscienza critica e fustigatore delle ipocrisie e ingiustizie di ogni establishment
Solo come membro di un’aristocrazia, sebbene dello spirito, poteva predicare efficacemente l’eguaglianza. Solo avendo una privilegiata voce in capitolo, poteva indignarsi per le masse condannate al silenzio e chiedere la stessa voce per tutti.

Il luogo comune assicura che la figura dell’intellettuale negli ultimi decenni è profondamente cambiata. Con l’esaurirsi/esaudirsi del Sessantotto e il trionfo dell’università di massa, magari, o per lo spostarsi del baricentro della composizione sociale dell’intellettuale dalle professioni umanistiche a quelle tecnico-scientifiche o senz’altro tecnocratiche. Sarà.

2. Innegabile è solo il mutamento sismico che travolge il criterio aristocratico di cultura nel calderone antropologico che non può conoscere gerarchie
Tutto è cultura, mai più alta o popolare, sempre e solo orizzontale, dove filosofia e cibo, opera lirica e canzonette, scienza e superstizione, appartengono allo stesso universo, articolazioni di un unico valore.
Quello del successo/spettacolo. Che in parallelo alla cultura, del resto, si annette la politica. E tutto quanto.

La stessa idea di cultura alta viene culturalmente ridicolizzata. Se il dialetto ha lo stesso rango della lingua nazionale, parlare (e meno che mai scrivere) in buon italiano non può essere più un valore da perseguire (e democrazia garantire la possibilità del buon italiano a tutti). 
Questa rivista non vive affatto di nostalgia, ha dedicato due volumi al cibo (e intende tornare monograficamente sul tema), ma Ferran Adrià e William Shakespeare non appartengono allo stesso universo (e neppure i Beatles e Brecht/Kurt Weill, benché entrambe le compagini siano produttori di «canzoni»): cultura in senso proprio, cultura in senso forte, dunque cultura senza aggettivi, è solo il secondo. 

La cultura senza gerarchie non diventa solo in-differenziata ma inevitabilmente in-differente, e come tale finirà trattata. 
La personalità viene spodestata e surrogata dal personaggio, mentre la distinzione tra diva/o e cultura andava da sé. Il passo ulteriore di imbarbarimento dell’industria culturale, rispetto all’universaleVerblendungszusammenhang («contesto di accecamento») di cui parlava Adorno, è costituito infatti dall’attuale «contesto di blobbizzazione», cioè dalla riduzione di ogni genere e prodotto culturale, e relative differenze qualitative (spesso abissali), a indistinguibile materia di un’unica poltiglia di «intrattenimento dello spirito», magma informe dove tutto è peggio che omologato, magmatizzato nell’in-differente, appunto. 
La cultura deve fare spettacolo, fare evento, svagare, l’indice di qualità si decompone nell’indice di ascolto, il giudizio critico si ingaglioffisce nello share, strumenti confezionati a immagine e interesse delle aziende pubblicitarie, dunque a decretare il successo non è neppure più «il pubblico» ma gli uffici marketing.

Il prestigio si estingue come indicatore indipendente. Diventa una funzione del nuovo indicatore unificato, Uno e Trino come è giusto che sia la divinità: il Dio-Mammona del danaro/potere/successo, misura di tutte le cose. Paradiso liberista che garantisce le basi strutturali della prostituzione intellettuale nella più generale vocazione alla prostituzione di ogni attività. 
Si dirà: è il mercato, bellezza! (Col corollario: vuoi abrogare il mercato? Vuoi tornare al baratto? O al sogno comunista che si è dimostrato incubo? Non ti è bastato l’Urss?). Niente affatto. Si rilegga Adam Smith, Padre fondatore: nel mercato solo le cose hanno un prezzo (lo avevano imparato a loro spese i papi, che perderanno metà del gregge per l’ingordigia di fare mercato dello spirito, dell’aldilà e delle sue indulgenze), proprio perché non hanno prezzo i valori della convivenza (il prestigio intellettuale è uno di questi). 
La società di mercato è tale perché non tutto è merce. Nel mercato (e nella sua giustificazione) hanno un prezzo solo le merci, dunque anche la forza-lavoro ridotta a merce, standardizzata, priva di individualità, fungibile.

3. Padre Adam Smith si è rivelato un sognatore, il virus della merce si è trasmesso dalle cose alle persone, ha colonizzato l’intero mondo di Homo sapiens, ha tutto mercificato sussumendo infine cose, pensieri, azioni nella produzione uniforme di «spettacolo».
 Il mondo borghese nasce invece dichiarando la cultura senza prezzo, inestimabile, e di conseguenza liberali le professioni che la esercitano (professioni borghesi per eccellenza!). 
Paradosso del mondo borghese i cui valori, stili di vita, professioni, vivono una logica antagonistica a quella del mercato, fino a che col trionfo devastante di quest’ultimo, che tutto satura e non lascia crescer fili d’erba di valori autonomi, il borghese viene cancellato dal non olet di ondate ricorrenti del parvenu (come le invasioni barbariche, esattamente).

Nella società del «tutto mercato» dove tutto ha un prezzo perché tutto è spettacolo (anche l’auto di lusso vale per ciò che evoca, più che per la velocità che può raggiungere, vietata in tutte le autostrade, dunque inutilizzabile) non contano i meccanismi legali, le istituzioni e le regole che hanno affermato il mercato stesso, ma sempre più le risorse e i vincoli personali premoderni, da clientes patronus romani più ancora che da stratificazioni di vassallaggio medioevali.
 Il mondo del mercato senza residui è il regime della prostituzione universale.

L’intellettuale è colui che non si prostituisce. Che si oppone alla deriva dell’esistente e al suo Dio/Mammona Uno e Trino che tutto inghiotte e restituisce come blob di danaro/potere/successo, unico prestigio riconosciuto. Di conseguenza: non impegnarsi rischia già il prostituirsi, in proporzione. Il prestigio è ciò che consente la libertà di non assoggettarsi al potere e/o denaro e/o successo. Ma se l’autonomo privilegio del prestigio e del merito si estingue? 

Oggi la sopravvivenza del prestigio è più che a repentaglio. L’arte nasce già come fenomeno di mercato, certamente da Warhol in poi e sempre più come mercato finanziario di titoli tossici, ideuzze autoreferenziali e del tutto avulse da e incompatibili con ogni «fare» artistico (qualche rara eccezione, ovviamente, da Basquiat alla Dumas, come per i concorsi universitari in Italia, però: qualcuno va in cattedra malgrado sia bravo).
 La sequenza prevedeva un tempo prestigio-successo-denaro, ora il kombinat di potere mercante/critico/curatore (anche di museo pubblico!) decide l’investimento che dovrà impinguarsi come ogni investimento, dunque conoscere successo nelle aste e ipso facto prestigio. Qualsiasi «artista» va bene, la scelta è puramente casuale, ogni nullità di «installazione» e ogni cascame di «iperrealismo» oleografico si prestano in-differentemente a diventare valore bancario da proteggere e incrementare.

Visibilità, mercato, prestigio, fanno tutt’uno. Ieri si diventava prima Pasolini e poi si andava in televisione, oggi diventare personaggio televisivo è professione in sé, la luminosa fama per una parolaccia gettata sull’altro ospite (meglio se una donna) consentirà di passare presto per illustre critico d’arte e poi candidato sindaco. 
Con Giulio Carlo Argan, or non è guari, andava alquanto diversamente. La notorietà di Sartre nasce dal suo prestigio, e questo dalle sue opere, Bernard-Henri Lévy nasce da operazione di marketing e già come fenomeno mediatico, il suo contributo alla filosofia vale quello di Damien Hirst all’arte, del resto viene citato sempre come BHL, un brand, come l’intimo DG.

4. Sia chiaro, nessuna geremiade e nostalgia per les neiges d’antan
Che conoscevano fior di meccanismi di conformismo e successi immeritati, o talenti emarginati. E nessuna concessione all’aristocraticismo, parodia della cultura come élite dello spirito; disconoscere la grandezza di Simenon scrittore tout court, per via del successo di Maigret, era pura miopia (e del resto non ci sono sussiegosi «critici» che rinnovano la cecità con Camilleri, il cui Re di Girgenti, sia detto en passant, non vale meno dei Viceré di De Roberto?).
 Ma è indubbio che ogni autorevolezza da prestigio viene ingoiata dall’autorità unica trifauce del mercato-potere-successo, garanzia oltretutto, e mediamente parlando, di trionfo della mediocrità. 
La Corazzata Potëmkin resta un capolavoro che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di ogni diplomato, ma viene ricordata ormai, anche presso chi crede di «amare il cinema», solo per una banale battuta fregnona dell’ingegner Fantozzi. Che ha culturalmente vinto. Il merito, mai così citato, è solo merito di mercato e di potere.

Tutto vero, e malinconicamente vero. Ma cambia assai poco rispetto al tema «tradimento dei chierici», di cui si macchiano le personalità pubbliche di riferimento, non già le figure diffuse, di massa, del lavoro intellettuale (che spesso silenziosamente praticano virtù critiche e virtù civiche, anzi, nella scuola dell’obbligo ad esempio). 

L’engagement, come è noto, nasce con Zola e il suo J’accuse sull’affare Dreyfus. Occupiamoci però solo della versione recente, del dopoguerra. L’impegno dell’intellettuale oscilla immediatamente tra fiancheggiamento del partito e rischio personale, Sartre o Camus. La «materia» dell’impegno, è presupposta, radicare e radicalizzare giustizia e libertà per tutti, emancipare l’intero genere umano da ogni forma di oppressione. In concreto questa «vocazione» rivela un potenziale antinomico: la testimonianza individuale è condannata all’impotenza, al «salvarsi l’anima» tanto illusorio quanto più individualistico, da «anima bella», appunto, perché l’emancipazione è un processo storico-sociale, bisogna individuarne lo strumento collettivo, altrimenti si finisce nell’irrilevanza, o addirittura nell’essere utilizzati dal potere.

Ora, lo strumento degli oppressi è il Partito rivoluzionario, «intelligenza collettiva» in possesso delle chiavi della dialettica storica, capace dunque sia di decifrare l’enigma della Storia che di intervenire in essa con il massimo di efficacia liberatoria. 
Impegnarsi per l’emancipazione dell’umanità equivale perciò a iscrivere la propria testimonianza morale nell’orizzonte di azione politica del partito.
In questo ineccepibile realismo c’è una falla, però: la dialettica storica è una pura invenzione, il partito non è il diamante che ha cristallizzato gli interessi storici dei «proletari di tutto il mondo, unitevi», ma una realtà sociologica e ideologica che, laddove al potere, ha prodotto una nuova classe di oppressori: in nome del proletariato, sui lavoratori in carne e ossa. 
Le documentate notizie sull’esistenza di lager nell’Urss di Stalin mandano definitivamente in pezzi la menzogna della catena di equivalenze: rifiuto dell’oppressione-senso della storia-ruolo del proletariato-primato del partito. La rottura tra Sartre e Camus è tutta qui.

5. Ma rivela molto altro. Che la storia non è prevedibile. Dunque, che non è possibile stabilire la connessione tra fini e mezzi, con i primi che riscatterebbero i secondi («Chi giustificherà il fine? La rivolta risponde: i mezzi», Albert Camus, Essais, Gallimard Pléiade, Paris 1977, p. 696). 
Che dunque l’impegno, dell’intellettuale e di ogni cittadino in rivolta, è sempre esposto allo scacco, nel duplice senso della sconfitta e del deragliamento della vittoria in conseguenze non previste, eterogenesi dei fini sempre in agguato (e anzi la normalità della storia).

Poiché la rivolta resta in-certezza, molti intellettuali, malgrado l’inoppugnabile lezione del gulag, continueranno a cercare la rivoluzione e le sue consolatorie certezze (in regime democratico anche senza rischi, fino all’eroismo invece in Spagna o in Vietnam), pegno del conformismo del potere di domani, pur di deresponsabilizzare le proprie scelte (ed errori) all’ammasso delle res gestae dello Spirito del mondo di turno.
 E così finiranno con Mao e il suo finto «ribellarsi è giusto» (solo contro i suoi nemici!) come se fosse un’epopea libertaria, e magari a intonare i domani che cantano insieme al salmodiare teocratico dei muezzin di Khomeini. 

La decisione-per-l’impegno fa tutt’uno perciò, e immediatamente, con la decisione per-quale-impegno. Dalla parte di chi/cosa e in nome di chi/cosa? 

Dalla parte di astrazioni e ipostasi, del proletariato e della rivoluzione, in nome della storia e della sua dialettica in atto, il cui esito pre-scritto di abolizione del presente stato di cose, cioè della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, è il comunismo? O dalla parte degli operai in carne e ossa che a Berlino nel ’53 e a Poznan´ e Budapest nel ’56 (ma già a Kronstadt nel ’21!) entrano in sciopero e in rivolta contro un potere che ha espropriato bensì i capitalisti ma non ha con ciò reso i lavoratori padroni della produzione e dello Stato? 
In nome della concreta giustizia e libertà, qui e ora, che quei lavoratori rivendicano istituendo i loro consigli operai, e che nel Sessantotto gli studenti di Varsavia rivendicheranno gridando «non c’è pane senza libertà», o con l’idea platonica di comunismo, il cui compimento è dialetticamente certo ma sempre rimandato perché non ancora storicamente maturo, il cui strumento e assaggio è intanto l’oppressione burocratica della nuova classe? 
Parlare a nome proprio e in coerenza concreta con i valori proclamati viene tacciato di luciferino orgoglio, quell’«individualismo piccolo borghese» che nella chiesa del comunismo realmente esistente è sempre stato, molto cattolicamente, il peccato inespiabile. In realtà l’apparente modestia dell’intellettuale che si riconosce «uno della massa», eguale ad ogni lavoratore, e perciò si allinea al Partito, unica autorizzata voce collettiva, occulta un bisogno di pre-kantiana e infantile nostalgia per le «dande» morali.

Questa vocazione al conformismo mascherata da realismo storico-dialettico evidenzia però un dilemma autentico. A quali condizioni la testimonianza eticamente coerente sarà anche politicamente efficace? E quale prezzo di «tradimento» di quei valori sarà etico pagare perché riesca la transustanziazione dall’utopia delle anime belle all’effettualità delle conquiste sociali e istituzionali?

6. Etica della responsabilità o etica dell’intenzione? L’aut aut proposto da Max Weber è in realtà profondamente irrealistico. Calcolare le conseguenze del proprio agire politico è infatti impossibile, se si prende atto realisticamente della pervasività dell’eterogenesi dei fini in ogni vicenda di Homo sapiens. L’etica della responsabilità deve assumere – per realismo! – che le conseguenze del nostro impegno scarrocceranno sempre e comunque dalla rotta dell’intenzione, spesso invertendola. Che la rivoluzione contro uno zar potrà approdare all’arcipelago Gulag di un Egocrate, che la rivolta contro uno scià sanguinario o una bolsa dittatura militare può aprire la strada a una più soffocante tirannia teocratica. Motivi ragionevoli e realistici per tenersi lo zar e lo scià?
Ogni rovesciamento apre al meglio come al peggio, sull’esito dei processi storici non esistono garanzie, i verdetti sono sempre revocabili perché il processo storico è permanente. 
Ciascuno può conoscere solo la propria intenzione, che verrà immediatamente sviata dalle intenzioni degli altri che con noi (o contro di noi) sono coinvolti nell’azione. Ciascuno, nel momento in cui agisce, inevitabilmente aliena a tutti gli altri il frutto della propria intenzione. Calcolare il risultato è utopia, risalire dal frutto all’albero è esercizio spesso insensato. Il nostro agire è sempre e strutturalmente anche un agire al buio, agire alla cieca.

Proprio il realismo impone allora l’etica della convinzione, agisci in coerenza con i valori che proclami, e accada quel che accada, perché il risultato della «tua» azione non è mai nelle tue mani ma in quelle di milioni (siamo sette miliardi!) di altre «intenzioni» con cui sei «imbarcato». 
Ci illudiamo che vi sia differenza tra il gesto e l’azione, quest’ultima in vista di un fine e razionalmente orientata ad esso nella scelta dei mezzi, il primo espressione immediata e non calcolata di indignazione, ma in realtà l’uno rimanda all’altra inestricabilmente, dove a fare la differenza è la coerenza rispetto ai valori, non la razionalità del calcolo delle conseguenze, quasi sempre vaneggiante, al dunque.

L’impegno dell’intellettuale suscita ostilità perché è sempre «a sinistra», e non può essere che «a sinistra». Se per sinistra, sia chiaro, si intende il vessillo di valori con cui nasce (liberté, égalité, fraternité), non le organizzazioni che oggi (con sempre più pudibonda ritrosia, del resto) si spacciano per sinistra. 
L’impegno è sempre di lotta, infatti, per ri-formare l’esistente e stravolgerne i connotati di illibertà e diseguaglianza. Chi mette il suo sapere, le sue competenze, la sua cultura al servizio dell’esistente e dei suoi poteri di establishment non è un intellettuale, è un funzionario del conformismo.

L’intellettuale pubblico è l’opposto del cane da guardia culturalmente addestrato, del responsabile marketing che inzucchera di «pensiero» e «razionalità» il presente stato di cose, del sepolcro imbiancato tecnicamente avvertito.
 L’intellettuale è per sua funzione, innanzitutto e necessariamente, portatore di critica, che significa richiamo alla coerenza tra i valori ricamati nelle costituzioni e la quotidiana pratica di governo che li calpesta e schernisce, tra il proclamare a lettere d’oro sopra ogni edificio la triade di valori della «République» salvo corromperli e stracciarli ogni giorno nei peana della Realpolitik. In altri termini: l’intellettuale di destra è una contraddizione in termini.

7. I due grandi partiti che si fronteggiano nelle democrazie sono quelli dell’ipocrisia e della coerenza, ecco perché la politica in democrazia è sempre e innanzitutto,strutturalmente, una questione morale
La democrazia, a guardar bene, nascendo francese col presupposto di «liberté, égalité, fraternité» e ancor prima americana con «the right to pursuit happiness», di-tutti-e-di-ciascuno, è essenzialmente di sinistra e la dialettica democratica dovrebbe tutta risolversi nella competizione tra le cinquanta sfumature della sinistra, a tasso differenziato di coerenza o «tradimento» dei sopracitati valori. Il resto (ogni destra o «centro») è anti-democrazia dentro la democrazia. 

Un presunto «impegno» degli intellettuali conservatori o reazionari è dunque ossimoro (senza poesia), è anti-impegno. L’«intellettuale» di destra o di centro, quando esiste, è personale di servizio, personificazione ennesima del tradimento del chierico. C’è un solo impegno, quello democratico, cioè di sinistra. Il resto è disimpegno o anti-impegno. Quest’ultimo rappresentato da Gentile che lancia il manifesto per l’«impegno» politico degli «intellettuali» a sostegno del regime fascista, il disimpegno esemplificato da Croce, che a Gentile risponde con l’ineffabile rivendicazione che letterati e scienziati non si contaminino con la politica: intellettuale impegnato è invece Piero Gobetti. Chi sta dalla parte della reazione, del privilegio, cioè dalla parte sbagliata, non è un intellettuale ma un officiante della servitù volontaria.

Il «realismo» è il belletto dell’opportunismo, la cui confezione standard è quella del funzionario dell’esistente, ingranaggio dell’establishment. Anche chi si «impegna» solo in presenza della rete di sicurezza delle «sinistre» di partito, però, rischia costantemente l’opportunismo. 
Opportunismo che ha comunque buon gioco nel denunciare le «anime belle» alla Gobetti, perché l’accusa capziosa di moralismo, di mancanza di realismo, e gli altri cascami della nota bisaccia di vituperi con cui scrittore e pensatore e luminare reazionario cercano di (far) dimenticare la propria assiduità al banchetto di ogni casta, evidenzia un problema reale.

Abbiamo visto, e ripetiamo, che l’etica dell’intenzione è la sola realistica perché comunque inevitabile, visto che è illusorio prevedere il «sequel» della propria azione, ma l’autogiustificazione è sempre in agguato e accompagna ogni «migliore intenzione» come la propria ombra. Il rigore morale, stigmatizzato dai «realisti» come «rifiuto a sporcarsi le mani», può effettivamente diventare alibi che paralizza l’azione, la colloca nel cielo del nulla o nella concretezza dell’insignificante, e in entrambi i casi si metamorfizza in etica futile.

Si può eludere l’impegno col minimalismo – mi occupo solo della fontanella, e anzi del mio «particulare», perché la corruzione dei politici e l’onnipotenza della finanza sono inespugnabili – o col massimalismo palingenetico, che sdegna come effimera e inane ogni conquista di giustizia e libertà che non sia vestibolo del sovvertimento dell’impero e riscatto finale della moltitudine. 
Infine, si può eludere l’impegno con la retorica dei valori astratti, tanto sonora e commovente nel declamare da palchi e tv show contro la mafia, quanto di braccino corto nell’offrire solidarietà ai magistrati, nomi e cognomi, che combattendola davvero diventano invisi a palazzi di governo e di «opposizione», senza dimenticare colli più alti.

Il «giusto mezzo» purtroppo non esiste, visto che dipende da dove ciascuno, arbitrariamente, colloca gli estremi da evitare. Quanto più grande è l’ascolto di cui si gode, tanto maggiore il dovere di spendersi e il raggio su cui intervenire, però. 
Il premio Nobel che tace di fronte all’aggressione americana in Vietnam, acconsente. Il premio Strega che in Italia tace di fronte alle infamie berlusconiane e alle vergogne d’inciucio, acconsente. È alibi d’accatto che si tratti di scegliere se aver torto con Sartre o ragione con Aron (quale, poi?), visto che si può avere ragione con Sartre e Russell sul Vietnam e ancor prima con Camus su Ungheria e Spagna.

8. L’impegno, che è sempre riformatore, qui e ora, è anche sempre possibile. Che il contesto socio-mediatico ormai lo vanifichi, perché assorbirebbe in un orizzonte di insignificanza ogni critica, anche la più radicale, rendendola in anticipo funzionale al potere, è la favola francofortese che proprio il prestigio e l’aura degli Adorno smentiva, e ancor più la loro fuga dall’impegno (dalla coerenza logica e tra il dire e il fare) quando nel Sessantotto il verbo della critica si è fatto carne. 
Che il mezzo sia il messaggio, e dunque la presenza in tv ipso facto omologhi, possiede solo una quota di verità, che in verità non bilancia l’alibi: se ti danno la prima serata e milioni di spettatori potenziali, e lavori secondo parresia, e non temi di criticare presidenti e cardinali anziché malvagità astratte, non c’è mezzo che annulli il messaggio, che «bucherà» talmente che non ti inviteranno più, semmai.

Impegnarsi si può
Oltretutto, la caratura del rischio e lo spessore del sacrificio potenziale cui va incontro l’intellettuale, nelle democrazie realmente esistenti (benché mediamente assai poco democratiche) sono francamente minimi: perdere qualche contratto, qualche trasmissione in tv o rubrica sul quotidiano importante, qualche invito nei salotti. Perché si abbia timore anche di questo, e si preferisca rifugiarsi nella miseria civile del disimpegno o nel pusillanime lusso dell’impegno «in carrozza», resta uno dei misteri gaudiosi della cultura italiana. 

Il sapere deve tendere alla neutralità. Quello della scienza è neutrale per definizione, il bosone di Higgs, se verificato, vale come verità della natura tanto nell’Ungheria nostalgica di fascismo che sotto il potere di Fidel o il giogo delle palandrane islamiche.
 Quello delle «scienze umane» è invece ineludibilmente saturo di scelte di valore, che devono essere rese esplicite perché si possa praticare il massimo del rigore nelle zone dove – all’interno di ogni disciplina – è invece attingibile l’accertamento intersoggettivamente cogente. 

L’intellettuale è il portatore di questo atteggiamento critico, la volontà di verità, laddove accertabile, ibridata con le scelta di valore della coerenza per la democrazia radicale.
 Se è funzionario di qualcosa, infatti, l’intellettuale è un funzionario della verità. Che ha bisogno della libertà come suo brodo di coltura. E di cui è parte integrante la capacità di smascherare la pretesa «oggettività» delle ideologie dominanti (a partire dalla «scienza» economica) e la volontà di demistificare il carattere «naturale» dei valori correnti (la morale «oggettiva» o «razionale» dei diversi cognitivismi etici). 
L’intellettuale è la cartina di tornasole che rivela gli interessi di establishment spacciati come fatti/valori ed eterne perle di saggezza, tra cui primeggia la menzogna di tutti i Menenio Agrippa fin dagli albori delle asimmetrie di potere: siamo tutti nella stessa barca. Una divorante passione illuminista costituisce il liquido amniotico dell’impegno critico e civile.

9. L’intellettuale è un privilegiato. Tre volte privilegiato, anzi. Ha potuto scegliere il mestiere secondo vocazione o voglia, ne ricava emolumenti assai superiori alla miniera, al call center o alle scartoffie di travet, vive la prerogativa impagabile di essere ascoltato. Il privilegio rende l’intellettuale libero. 
Il prezzo che paga per la coerenza dell’impegno è sempre infimo. La doverosa neutralità del sapere non può propiziare l’indifferenza dell’intellettuale come cittadino, abbiamo visto, poiché l’essenza critica dell’intellettuale è inestricabilmente intrecciata alla vocazione contro l’assoggettamento. 
La critica è già pregna di universalismo concreto, anzi: svolta fino in fondo non può che partorire libertà per l’eguaglianza, la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno. Di ogni individuo, del ciascuno che tutti noi possiamo essere. Quella di Marx era in fondo l’eguaglianza più individualista (o l’individualismo più egualitario): da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. La democrazia radicale è in primo luogo una questione di logica, massacratori di logica, nei versi di Dèmocratie, sono per Rimbaud i plotoni militari della Francia imperialista che hanno appena schiacciato la Comune di Parigi. 

Una razionalizzazione del disimpegno consiste nel ridurre l’impegno innanzitutto e per lo più al «lavoro ben fatto». Il mio impegno è girare un buon film, scrivere un buon romanzo, dirigere in modo geniale un’orchestra, costruire un grattacielo kalo;~ kajgatov~… Intenti encomiabili, che non esauriscono però l’impegno civile dell’intellettuale e spesso neppure lo sfiorano. Sembra che Céline abbia scritto romanzi ammirevoli, è certo che nel frattempo abbia vergognosamente tradito il suo privilegio/dovere di «chierico». 
Senza arrivare all’anti-impegno che bordeggia fascismo e razzismo, le vie del tradimento dei chierici attraverso il disimpegno sono più numerose di quelle della provvidenza.
Ci si può impegnare onorando il proprio mestiere, naturalmente. Veicolando la critica dell’esistente in un romanzo o in un film. E ci sono mestieri nei quali il venir meno della professionalità e dell’impegno fanno tutt’uno (ma quanti sono i giornalisti degni del nome, poiché per definizione il giornalista è una vestale delle «modeste verità di fatto», come le aggettivava polemicamente Hannah Arendt? 
E quanti i giuristi che non hanno tradito logica e diritto, rifiutandosi di baciare la pantofola del colle più alto, che aveva la procura di Palermo in gran dispetto?). 
Tuttavia la forma «per eccellenza» dell’impegno resta quella di spendere come cittadino e nelle battaglie civili il proprio prestigio, la propria «aura» e visibilità scientifica e culturale, tanto più se anche massmediatica. Fenomeno che in Italia sopravvive nell’indigenza. Al punto che sono state considerate eccessive le sacrosante invettive di Tabucchi, o le doverose poesie incivili di Camilleri, o l’esemplare militanza atea e pro eutanasia di Margherita Hack, o l’ovvio sostegno alla Fiom contro le prevaricazioni di Marchionne, e infine ogni firma per ogni buona causa, irrisa (la firma e la causa) da prelati e cheerleaders dello statu quo. 
L’intellettuale sa di essere innanzitutto un cittadino, altrimenti il suo essere critico è già naufragato nel narcisismo e il carattere bifronte del suo privilegio si è risolto nell’univocità del servilismo. 
Sa che il suo dovere di cittadino viene prima, anche se questo priverà l’umanità di qualche capolavoro. Marc Bloch, illustre accademico della Sorbona, storico fra i più grandi, a cinquantasei anni si fa militante tra i militanti del «sortez de la paille les fusils, la mitraille, les grenades», e dopo due anni di Resistenza a Lione viene catturato dai nazisti, torturato e infine condannato a morte. 
Il grande poeta René Char correrà lo stesso rischio come «Capitaine Alexandre» nel maquis delle Basses-Alpes e George Orwell nella guerra di Spagna in difesa della repubblica contro i fascisti.
 Parlare, scrivere, creare è già una modalità dell’agire, nessuno lo sa meglio dell’intellettuale, che sa perfettamente, però, come questo «performativo» possa diventare un alibi per dimenticare il cittadino e con ciò tradire anche il chierico.

10. Al ruolo dell’intellettuale si aprono spazi sempre più grandi, e doveri corrispondenti, quanto più latitano le figure di leader politici e sociali, e quanto più le prospettive di nuovi mondi possibili sembrano chiudersi a quella che Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica.
 Ci si sta rassegnando all’idea che ormai l’indignazione non possa più farsi azione, sia destinata ad avvampare solo come periodico fuoco di paglia di moderne jacqueries, incapaci di sedimentare conquiste di giustizia e libertà perché prive di un’idea di avvenire, di un progetto. 
Esplosioni di massa, magari prolungate, che per la sovranità del privilegio (che ha nel gattopardo il suo emblema) resteranno innocue, o potranno selezionare prepotenze inedite e più agguerrite. Le primavere arabe rischiano di sperimentarlo.

Ma la chiusura dei possibili non è un destino inaggirabile dell’epoca, la pietra inconcussa di una gerarchizzazione sempre più indecente ma sempre più inafferrabile di ogni società nel mondo globalizzato. La lotta continua, è incredibile come fiumane di cittadini non si stanchino di lottare. Rifiutano però di darsi forme organizzate che non le garantiscano in una perdurante autonomia, preferiscono la quasi certezza dell’inanità della lotta anziché un futuro di vittoria tradita, di dialettica sartriana del gruppo in fusione.

La riapertura dei possibili dipende dunque (quasi) tuttao dal versante della soggettività in rivolta, a tutt’oggi incapace di architettare forme organizzative dell’indignazione che nel promuovere efficacia della lotta e dei suoi esiti politico-istituzionali, scongiurino al tempo stesso il rischio che la vittoria si converta in inedita delusione/oppressione.

Il post-post-moderno di una liquidità mannara (forse liquidità, certamente mannara) vede le classi di potere che non calpestano più nella pratica di governo i valori di giustizia e libertà cui pagavano un rituale omaggio alle feste comandate: puntano ormai esplicitamente a cancellare la «legge eguale per tutti», a rendere anche formale la diseguaglianza, a legalizzare l’illegalità, perché non è ragionevole che un Marchionne (un Riva, un Thyssen) che crea lavoro per centinaia di migliaia di persone sia tenuto agli stessi lacci e lacciuoli di un pensionato improduttivo che finisce in galera se ruba una merendina al supermercato. Non è realistico, non è decoroso, non è concepibile, non è sopportabile.
 Leggi e costituzioni devono modernizzarsi, adeguarsi alla necessità di una giustizia diseguale per il potente e il cittadino ordinario. Il reale è razionale, si sa. Ecco perché il capitalismo realmente esistente reclama oggi il diritto allo schiavismo per i suoi salariati, alla trasformazione del cittadino in cliente, alla prostituzione della mente per tutti, pratica l’intreccio corruttivo-governativo (ed eventualmente mafioso) come nuova frontiera del sempiterno non olet e riconosce nel biscazziere a incarnazione finanziaria e nel lenone in versione istituzionale l’aggiornamento «liquido» del capitano d’industria e del professionista politico di weberiana memoria.

11. L’ideologia inconsapevole (per chi la subisce) che satura ormai il nostro orizzonte diventa perciò l’etica della lotteria, che sul versante degli oligarchi significa l’hybris di libertà per i titoli tossici e su quello dei sudditi si declina come attesa di miracolismo e rinuncia alle lotte. 

L’impegno dell’intellettuale sarà perciò per un illuminismo di massa, improbo perché sembra non volerlo nessuno, perché anti-consolatorio: abbiamo bisogno di endorfine, però e certamente, non di immunosoppressori dello spirito critico. Improbo e manicheo. Non si combattono le illusioni del pensiero unico, altrimenti, perché mai come oggi l’intellettuale deve farsi custode della parresia contro ogni potere
E solo così della speranza, fuoco che senza lotte si spegne.
Tiriamo le fila e concludiamo. 
Ciò che definisce l’intellettuale – il predicato quintessenziale del suo essere – è l’esercizio del sapere critico
L’intellettuale senza ostinata prassi critica è come il kantiano cielo stellato orbo di luce (senza lumi!), o più prosaicamente la vodka senza alcol: ipotetica del terzo tipo.
Ma l’acido della critica, nel mero procedere della sua applicazione, dissolve nel concetto la legittimità di qualsiasi diseguaglianza materiale, di modo che la semplice fedeltà al compito intellettuale impone l’impegno civico per l’eguale (e reale!) autonomia di tutti e di ciascuno.
 Un intellettuale che non si impegni per la democrazia radicale, dalla parte della vita offesa (poiché ogni ingiustizia è irredimibile e per sempre, nella finitezza dell’esistenza), che non si impegni politicamente per l’approssimazione asintotica di giustizia e libertà, sta negando se stesso perché sta mutilando la coerenza logica-critica che fa tutt’uno col suo essere.

                                                      Paolo Flores d'Arcais












Fonte: MicroMega 5/2013