sabato 31 marzo 2012
Una nuova primavera per la scuola pubblica (?)
Marina Boscaino
mercoledì 28 marzo 2012
UOMINI E DONNE CONTRO LE MAFIE:
Mafie, il silenzio delle sdisonorate
«Uccidere le donne riporta l’equilibrio»
Vittime di un presunto codice d’onore, sono almeno 150 le donne uccise dalla criminalità organizzata dal 1896 a oggi.
Attentati, vendette, ritorsioni e induzioni al suicidio le cause principali.
Le loro storie sono adesso raccolte in un dossier, curato dall’associazione romana antimafie daSud.
La curatrice delle ricerche, Irene Cortese:«L’omicidio di una donna fa meno parlare. Ed è troppo spesso nascosto tra le righe della cronaca»
Attentati, vendette, ritorsioni e induzioni al suicidio le cause principali.
Le loro storie sono adesso raccolte in un dossier, curato dall’associazione romana antimafie daSud.
La curatrice delle ricerche, Irene Cortese:«L’omicidio di una donna fa meno parlare. Ed è troppo spesso nascosto tra le righe della cronaca»
«Un dossier che serve innanzitutto a sfatare un’assurda credenza: che i clan, in virtù di un presunto codice d’onore, non uccidono le donne».
Più di 150 storie, raccolte in ordine cronologico in una pubblicazione. Vittime, ognuna a suo modo, di una cultura che vede il femminile come oggetto del possesso, ottimo bersaglio per le vendette.
Innocenti e non, colpevoli in qualche caso di aver alterato la trasmissione della cultura e dei modelli sociali delle mafie, a loro affidati, per amore dei figli o del compagno. Più raramente di se stesse.
«Un elenco che non ha nessuna pretesa di essere esaustivo», sottolinea la curatrice delle ricerche, Irene Cortese, 33 anni, calabrese d’origine, un lavoro da educatrice per i bambini autistici.
Un dossier pubblicato dall’associazione romana antimafie daSud e curato dal collettivo di genere ospitato al suo interno.
«Un giorno abbiamo pensato di intrecciate le due tematiche, il femminile e la criminalità organizzata – spiega Cortese – Anche perché ci siamo rese conto che è sempre complicato cercare notizie su donne vittime di mafia, troppo spesso nascoste tra le righe della cronaca».
Campania, Calabria e Sicilia le regioni principali a fare da scenario agli omicidi.
Il primo, nel 1896, a Palermo.
Quando Cosa Nostra ordina l’uccisione di Emanuela Sansone, 17 anni, figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. E’ una ritorsione: sulla madre di Emanuela, infatti, pende il sospetto di aver denunciato i mafiosi per la fabbricazione di banconote false. Una storia che è un doppio inizio: Giuseppa Di Sano, dopo l’omicidio della figlia, sarà infatti la prima donna a collaborare con la giustizia. Emanuela è il primo ma non certo l’ultimo esempio di una donna uccisa per vendetta.
Come lei, Carmela Minniti, moglie del boss catanese Nitto Santapaola, uccisa nel 1995. «Abbiamo molto discusso tra di noi se inserirla o meno nel dossier, perché si tratta di una figuraborder line – spiega Cortese – Era la moglie di un boss e ha sempre difeso le scelte mafiose dei figli, ma la sua uccisione rientra nella dinamica di vendetta nei confronti del marito». Di più, Carmela Minniti era una donna che contava all’interno dell’organizzazione criminale etnea. «La sua storia dimostra come, anche se organiche, le donne svolgono comunque un ruolo secondario e subordinato nelle mafie».
Le donne boss di cui si inizia a fare un gran parlare. Figure che trovano più spazio grazie anche alla modificazione dei fenomeni criminali in un’ottica più imprenditoriale che di controllo del territorio. Ma che spesso «assumono il potere solo quando il marito o il padre sono latitanti o in carcere».
Un aspetto che l’associazione si promette di indagare in un successivo dossier.
Ci sono poi le vittime casuali, in qualche caso investite dalle auto di scorta ai magistrati. «La mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti», diceva Paolo Borsellino.
E ancora le vittime ai margini della storia: come una mamma e le sue due bambine uccise nell’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze.
Ci sono poi le storie più note, come quella di Emanuela Setti Carraro, moglie del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, e Candida Morvillo, moglie del magistrato Giovanni Falcone, entrambe rimaste uccise negli attentati organizzati contro i mariti. «Ma la vicenda che forse mi ha colpito di più è quella di Rossella Casini» dice Cortese. Rossella, 21 anni, di Firenze, ha avuto la sfortuna di innamorarsi del ragazzo sbagliato: Francesco Frisina, studente originario di Palmi, la sua famiglia è coinvolta in una faida di ‘ndrangheta. Lui stesso si salva appena, dopo una pallottola in testa. Rossella, che poco sa di mafia, lo convince a parlare. Poi ritratta lei stessa, per salvarlo. E ci riesce: lui, rimasto in silenzio, è salvo. Ma lei verrà uccisa e fatta a pezzi nel 1981. «Chi non conosce le dinamiche mafiose – commenta Cortese – difficilmente si rende conto della pericolosità di quello che le accade».
Delitti d’onore e vendette, in cui l’uccisione delle donne viene utilizzata «per normalizzare una situazione in cui sono sfasati gli equilibri». O per alimentare il silenzio intorno a un altro omicidio: «All’inizio si dice sempre che è stata una questione di donne – aggiunge Cortese – Perché è ancora culturalmente più accettato rispetto a un omicidio di mafia. E, soprattutto, fa meno parlare». Metodi in cui le donne sono sempre un oggetto passivo ma che negli anni sono andati evolvendosi.
Con la più moderna induzione al suicidio, quasi sempre per aver ingerito acido muriatico. «Quasi un rituale, così da quella bocca non potrà uscire più niente».
Come è successo a Santa Boccafusca, detta Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss della ‘ndrangheta di Limbaldi, in provincia di Vibo Valentia, e a Maria Concetta Cacciola, nipote del boss di Rosarno, ultima vittima dell’elenco.
Fatte pentire di essersi pentite.
Un atteggiamento pericoloso per le mafie, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli.
«L’educazione passa per le donne, sono loro a tramandare un codice mafioso – conclude Irene Cortese – La prima rivoluzione potrebbe partire proprio da questo».
Claudia Campese
Più di 150 storie, raccolte in ordine cronologico in una pubblicazione. Vittime, ognuna a suo modo, di una cultura che vede il femminile come oggetto del possesso, ottimo bersaglio per le vendette.
Innocenti e non, colpevoli in qualche caso di aver alterato la trasmissione della cultura e dei modelli sociali delle mafie, a loro affidati, per amore dei figli o del compagno. Più raramente di se stesse.
«Un elenco che non ha nessuna pretesa di essere esaustivo», sottolinea la curatrice delle ricerche, Irene Cortese, 33 anni, calabrese d’origine, un lavoro da educatrice per i bambini autistici.
Un dossier pubblicato dall’associazione romana antimafie daSud e curato dal collettivo di genere ospitato al suo interno.
«Un giorno abbiamo pensato di intrecciate le due tematiche, il femminile e la criminalità organizzata – spiega Cortese – Anche perché ci siamo rese conto che è sempre complicato cercare notizie su donne vittime di mafia, troppo spesso nascoste tra le righe della cronaca».
Campania, Calabria e Sicilia le regioni principali a fare da scenario agli omicidi.
Il primo, nel 1896, a Palermo.
Quando Cosa Nostra ordina l’uccisione di Emanuela Sansone, 17 anni, figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. E’ una ritorsione: sulla madre di Emanuela, infatti, pende il sospetto di aver denunciato i mafiosi per la fabbricazione di banconote false. Una storia che è un doppio inizio: Giuseppa Di Sano, dopo l’omicidio della figlia, sarà infatti la prima donna a collaborare con la giustizia. Emanuela è il primo ma non certo l’ultimo esempio di una donna uccisa per vendetta.
Come lei, Carmela Minniti, moglie del boss catanese Nitto Santapaola, uccisa nel 1995. «Abbiamo molto discusso tra di noi se inserirla o meno nel dossier, perché si tratta di una figuraborder line – spiega Cortese – Era la moglie di un boss e ha sempre difeso le scelte mafiose dei figli, ma la sua uccisione rientra nella dinamica di vendetta nei confronti del marito». Di più, Carmela Minniti era una donna che contava all’interno dell’organizzazione criminale etnea. «La sua storia dimostra come, anche se organiche, le donne svolgono comunque un ruolo secondario e subordinato nelle mafie».
Le donne boss di cui si inizia a fare un gran parlare. Figure che trovano più spazio grazie anche alla modificazione dei fenomeni criminali in un’ottica più imprenditoriale che di controllo del territorio. Ma che spesso «assumono il potere solo quando il marito o il padre sono latitanti o in carcere».
Un aspetto che l’associazione si promette di indagare in un successivo dossier.
Ci sono poi le vittime casuali, in qualche caso investite dalle auto di scorta ai magistrati. «La mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti», diceva Paolo Borsellino.
E ancora le vittime ai margini della storia: come una mamma e le sue due bambine uccise nell’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze.
Ci sono poi le storie più note, come quella di Emanuela Setti Carraro, moglie del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, e Candida Morvillo, moglie del magistrato Giovanni Falcone, entrambe rimaste uccise negli attentati organizzati contro i mariti. «Ma la vicenda che forse mi ha colpito di più è quella di Rossella Casini» dice Cortese. Rossella, 21 anni, di Firenze, ha avuto la sfortuna di innamorarsi del ragazzo sbagliato: Francesco Frisina, studente originario di Palmi, la sua famiglia è coinvolta in una faida di ‘ndrangheta. Lui stesso si salva appena, dopo una pallottola in testa. Rossella, che poco sa di mafia, lo convince a parlare. Poi ritratta lei stessa, per salvarlo. E ci riesce: lui, rimasto in silenzio, è salvo. Ma lei verrà uccisa e fatta a pezzi nel 1981. «Chi non conosce le dinamiche mafiose – commenta Cortese – difficilmente si rende conto della pericolosità di quello che le accade».
Delitti d’onore e vendette, in cui l’uccisione delle donne viene utilizzata «per normalizzare una situazione in cui sono sfasati gli equilibri». O per alimentare il silenzio intorno a un altro omicidio: «All’inizio si dice sempre che è stata una questione di donne – aggiunge Cortese – Perché è ancora culturalmente più accettato rispetto a un omicidio di mafia. E, soprattutto, fa meno parlare». Metodi in cui le donne sono sempre un oggetto passivo ma che negli anni sono andati evolvendosi.
Con la più moderna induzione al suicidio, quasi sempre per aver ingerito acido muriatico. «Quasi un rituale, così da quella bocca non potrà uscire più niente».
Come è successo a Santa Boccafusca, detta Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss della ‘ndrangheta di Limbaldi, in provincia di Vibo Valentia, e a Maria Concetta Cacciola, nipote del boss di Rosarno, ultima vittima dell’elenco.
Fatte pentire di essersi pentite.
Un atteggiamento pericoloso per le mafie, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli.
«L’educazione passa per le donne, sono loro a tramandare un codice mafioso – conclude Irene Cortese – La prima rivoluzione potrebbe partire proprio da questo».
Claudia Campese
domenica 25 marzo 2012
Addio a Antonio Tabucchi
Ci sono momenti in cui il nostro mestiere è davvero feroce, impietoso. E questo è uno di quelli: scopri che un tuo amico è morto e, invece di startene in silenzio a ricordarlo, magari a pregare per lui, ti tocca subito scriverne. Pochi minuti fa ho saputo che è morto Antonio Tabucchi, a Lisbona.
Dicono che “era da tempo malato”. Non l’aveva detto nemmeno agli amici. Sapevo, me ne aveva parlato nell’ultima telefonata dal Portogallo qualche mese fa, di una frattura a una gamba, che aveva aggravato i suoi problemi alla schiena. Altro non so. Quello che so di lui è che era uno dei pochissimi intellettuali internazionali rimasti all’Italia (non direi “in Italia” visto che ci viveva poco, e con sempre maggiore disagio). Temo che la parola “intellettuale” non sarebbe piaciuta a lui così schivo, minimalista, autoironico, antiretorico, quasi autobeffardo. Ma, se la parola “intellettuale” aveva ancora un senso, è proprio perché c’era lui.
Non ho voglia né competenza per disquisire sul valore letterario dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Ma sono stato testimone del suo modo di concepire la cultura e l’impegno: fu nel 2002, quando cominciò a scrivere sull’Unità perché nessun grande giornale italiano “indipendente” poteva più ospitare gli articoli di uno dei più noti scrittori italiani, tradotto in tutto il mondo, solo perché erano irriducibilmente critici contro il regime di Berlusconi e contro chiunque non vi si opponesse con la necessaria intransigenza. Compreso il presidente Ciampi, che qualche legge vergogna la bocciava ma molte altre le promulgava.
Un giorno Tabucchi, sull’Unità e su Le Monde, criticò duramente Ciampi per una sua apertura sui “ragazzi di Salò”: per protesta il senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, lasciò la presidenza dell’Unità.«Che razza di Nazione è quella dove uno scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le Monde?», si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere, mai di criticarlo. Tabucchi non ne faceva passare nessuna a nessuno. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi.
Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio” (che naturalmente non ci fu). Qualche anno dopo rubò letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale di Parigi, e la vinse. Ricordo la sua soddisfazione appena uscì la sentenza, che riportava il tragicomico interrogatorio di Ferrara, il quale ammetteva che, sì, aveva confessato lui stesso di aver fatto l’informatore a pagamento di un servizio segreto straniero, ma non era vero niente, la sua era solo una “provocazione”: tant’è che – aggiunse – non ci sono le prove. Figurarsi la faccia dei giudici parigini dinanzi a questo “giornalista” ed ex-ministro italiano che si vanta di raccontare frottole sulla propria vita e aggiunge: trovate le prove di quel che scrivo, se ne siete capaci. Infatti fu condannato su due piedi.
Ecco, in quella sentenza, oltre a quello dei giudici, c’era anche tutto lo stupore di Antonio, che essendo un cittadino del mondo prestato all’Italia non riusciva a tollerare tutto ciò che, per assuefazione e rassegnazione, in Italia si ingoia e si digerisce. E si ostinava a chiamare le cose con il loro nome: quello berlusconiano era un “regime”, chi non lo ostacolava era un “complice”, chi lo sosteneva era un “servo”, chi deviava dal dettato costituzionale era un “eversore”, chi violava le leggi era un “delinquente”, chi approfittava delle cariche pubbliche per farsi gli affari suoi era in “conflitto d’interessi”, dunque “ineleggibile”. Per questo Tabucchi era isolato e malsopportato nel mondo degli intellettuali italiani: perché, essendo un uomo libero, mostrava loro col suo esempio ciò che avrebbero dovuto essere e invece non erano. Per viltà, conformismo, sciatteria, convenienza, paraculaggine, quieto vivere.
(25 marzo 2012)
mercoledì 7 marzo 2012
Cesare deve Morire. E i Taviani ne liberano lo spirito
di Giona A. Nazzaro
Cesare deve morire è il film che proprio non ti aspetti dai Taviani. Certo non a questo punto della loro carriera che da anni ha imboccato una strada tutta in pianura fatta di un cinema prevedibile e ingessato.
Cesare deve morire, al di là dei soliti evitabilissimi sciovinismi della stampa italiana, la quale se il film non avesse vinto il primo premio a Berlino non lo avrebbe degnato nemmeno di un decimo dell’attenzione sin qui tributatagli, è davvero un ottimo lavoro, probabilmente il migliore dei Taviani dai tempi di Kaos. Un’autentica scossa di vita che immette energia in un cinema che pareva aver segnato il passo, immergendolo nuovamente nell’agone delle cose e del mondo.
Ciò che sorprende positivamente è il rischio linguistico che il film accoglie senza colpo ferire. Cesare deve morire non è affatto la documentazione filmata di uno spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti di Rebibbia sotto la guida partecipe e attenta di Fabio Cavalli. Il Giulio Cesare di Shakespeare rielaborato da Cavalli con i Taviani è una complessa operazione linguistica e politica che intrecciando i numerosi piani narrativi sui quali si muove crea un’originale e rigorosa messa in scena drammatica.
Il film si muove, infatti, su almeno tre livelli: quello dell’apparente proposta documentaria (l’ingresso nel complesso carcerario, le riprese a colori delle fasi finali dello spettacolo), la presentazione e la descrizione della provinatura dei detenuti (in bianco e nero nella quale il registro narrativo scivola impercettibilmente verso un regime che oscilla fra cosiddetta finzione e realtà) e il racconto vero e proprio delle prove messo in scena attraverso le dinamiche che il Giulio Cesare attiva nella comunità degli attori e detenuti impegnati nelle prove man mano che lo spazio concentrazionario di Rebibbia diventa il teatro del progredire del lavoro della troupe. Questi livelli del film sono poi unificati nella costruzione filmica dei Taviani che si muove con estrema libertà e coraggio confondendo i piani del racconto e oscillando senza tregua fra cosiddetto documentario, ricostruzione, messa in scena e osservazione pura.
Ciò che impressiona del film dei Taviani è l’attenzione attraverso la quale lo spazio del carcere è rielaborato attraverso il testo scespiriano. Cesare deve morire è prima di tutto un film sul lavoro: il lavoro del teatro, il lavoro di un testo rielaborato per raccontare una situazione, il lavoro del linguaggio che si reinventa in un contesto ostile. Poi, inevitabilmente, pone un problema politico già insito nel dramma di Shakespeare ma rielaborato in forme originali attraverso le relazioni che il regime teatrale crea nei rapporti fra i detenuti: la difesa della democrazia e la gestione del potere attraverso le relazioni che il lavoro della politica offre a coloro che l’agiscono o ne sono agiti. Sfruttando al massimo le limitazioni ambientali del carcere, il film attinge a una potente vertigine d’astrazione che restituisce i Taviani al grande movimento di rinnovamento del cinema italiano e non solo del quale sono stati protagonisti con i loro capolavori degli anni Settanta.
Ogni inquadratura del film, soprattutto le parti girate in bianco e nero, si presenta con un’urgenza rara nel cinema italiano d’oggi; un urgenza alla quale ultimamente solo Bellocchio e Martone hanno dato forma e vita in misura convincente e politica al tempo stesso. Senza contare che in un cinema nazionale nel quale i dialetti e i regionalismi sono utilizzati solo in chiave comica, livellando sempre verso il basso, voci, accenti e differenze, Cesare deve morire, con il suo coro di voci napoletane, romane e siciliane ci restituisce il suono di un paese di fatto rimosso dai racconti dei media ufficiali.
Infine, l’attenzione con la quale il montaggio di Roberto Perpignani segue lo svolgersi del racconto, creando una dimensione autenticamente epica, nel senso proprio di Brecht, delle immagini, è il corollario ideale alla tensione impressa dai Taviani alle inquadrature del film.
Tutti questi elementi producono una tensione fortissima del racconto nel quale i volti dei protagonisti sono scolpiti dal taglio della luce e delle ombre. I corpi, infatti, entrano in un fecondo drammatico non solo con gli spazi del carcere, ma anche con le strutture formali del racconto, creando così un effetto di rispecchiamento inquietante e ricco di implicazioni formali e politiche.
Cesare deve morire è uno dei pochi film italiani degli ultimi anni dove il valore dell’inquadratura torna a essere un fatto linguistico centrale e portante. Per questo motivo sorprende la frattura emotiva provocata dal controcampo sui secondini che osservano le prove dei detenuti. Un errore politico, dove si abbandona momentaneamente il campo dei detenuti per spostarsi in quello delle “guardie” grazie al privilegio conferito ai registi dal loro status di uomini liberi, laddove sarebbe stato meglio, se non altro per la durata del film, di stare sempre nel campo dei detenuti e partecipare della loro immobilità (considerato che c’è anche la magnifica evasione immobile data dal poster che ricopre una delle pareti delle celle). Peccato dunque che questa frattura non sia stata nemmeno segnalata con un cambio di regime cromatico, cosa che se non altro avrebbe segnalato il cambiamento di stato. In questo modo diventa difficile stare nella scena dei detenuti e allo stesso tempo osservarla da “fuori”, dal punto di vista privilegiato dei secondini. Un vero e proprio punto morto etico di un film che invece rilancia in maniera inequivocabile la centralità di una posizione etica e morale nel fare cinema.
Cesare deve morire restituisce dunque il cinema dei fratelli Taviani a una libertà che questo sembrava avere perso da molto tempo. Che questa ritrovata vitalità e libertà i Taviani l’abbiano rinnovata a Rebibbia è solo uno dei numerosi meriti di un film coraggioso e necessario.
(7 aprile 2011)
Cesare deve morire è il film che proprio non ti aspetti dai Taviani. Certo non a questo punto della loro carriera che da anni ha imboccato una strada tutta in pianura fatta di un cinema prevedibile e ingessato.
Cesare deve morire, al di là dei soliti evitabilissimi sciovinismi della stampa italiana, la quale se il film non avesse vinto il primo premio a Berlino non lo avrebbe degnato nemmeno di un decimo dell’attenzione sin qui tributatagli, è davvero un ottimo lavoro, probabilmente il migliore dei Taviani dai tempi di Kaos. Un’autentica scossa di vita che immette energia in un cinema che pareva aver segnato il passo, immergendolo nuovamente nell’agone delle cose e del mondo.
Ciò che sorprende positivamente è il rischio linguistico che il film accoglie senza colpo ferire. Cesare deve morire non è affatto la documentazione filmata di uno spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti di Rebibbia sotto la guida partecipe e attenta di Fabio Cavalli. Il Giulio Cesare di Shakespeare rielaborato da Cavalli con i Taviani è una complessa operazione linguistica e politica che intrecciando i numerosi piani narrativi sui quali si muove crea un’originale e rigorosa messa in scena drammatica.
Il film si muove, infatti, su almeno tre livelli: quello dell’apparente proposta documentaria (l’ingresso nel complesso carcerario, le riprese a colori delle fasi finali dello spettacolo), la presentazione e la descrizione della provinatura dei detenuti (in bianco e nero nella quale il registro narrativo scivola impercettibilmente verso un regime che oscilla fra cosiddetta finzione e realtà) e il racconto vero e proprio delle prove messo in scena attraverso le dinamiche che il Giulio Cesare attiva nella comunità degli attori e detenuti impegnati nelle prove man mano che lo spazio concentrazionario di Rebibbia diventa il teatro del progredire del lavoro della troupe. Questi livelli del film sono poi unificati nella costruzione filmica dei Taviani che si muove con estrema libertà e coraggio confondendo i piani del racconto e oscillando senza tregua fra cosiddetto documentario, ricostruzione, messa in scena e osservazione pura.
Ciò che impressiona del film dei Taviani è l’attenzione attraverso la quale lo spazio del carcere è rielaborato attraverso il testo scespiriano. Cesare deve morire è prima di tutto un film sul lavoro: il lavoro del teatro, il lavoro di un testo rielaborato per raccontare una situazione, il lavoro del linguaggio che si reinventa in un contesto ostile. Poi, inevitabilmente, pone un problema politico già insito nel dramma di Shakespeare ma rielaborato in forme originali attraverso le relazioni che il regime teatrale crea nei rapporti fra i detenuti: la difesa della democrazia e la gestione del potere attraverso le relazioni che il lavoro della politica offre a coloro che l’agiscono o ne sono agiti. Sfruttando al massimo le limitazioni ambientali del carcere, il film attinge a una potente vertigine d’astrazione che restituisce i Taviani al grande movimento di rinnovamento del cinema italiano e non solo del quale sono stati protagonisti con i loro capolavori degli anni Settanta.
Ogni inquadratura del film, soprattutto le parti girate in bianco e nero, si presenta con un’urgenza rara nel cinema italiano d’oggi; un urgenza alla quale ultimamente solo Bellocchio e Martone hanno dato forma e vita in misura convincente e politica al tempo stesso. Senza contare che in un cinema nazionale nel quale i dialetti e i regionalismi sono utilizzati solo in chiave comica, livellando sempre verso il basso, voci, accenti e differenze, Cesare deve morire, con il suo coro di voci napoletane, romane e siciliane ci restituisce il suono di un paese di fatto rimosso dai racconti dei media ufficiali.
Infine, l’attenzione con la quale il montaggio di Roberto Perpignani segue lo svolgersi del racconto, creando una dimensione autenticamente epica, nel senso proprio di Brecht, delle immagini, è il corollario ideale alla tensione impressa dai Taviani alle inquadrature del film.
Tutti questi elementi producono una tensione fortissima del racconto nel quale i volti dei protagonisti sono scolpiti dal taglio della luce e delle ombre. I corpi, infatti, entrano in un fecondo drammatico non solo con gli spazi del carcere, ma anche con le strutture formali del racconto, creando così un effetto di rispecchiamento inquietante e ricco di implicazioni formali e politiche.
Cesare deve morire è uno dei pochi film italiani degli ultimi anni dove il valore dell’inquadratura torna a essere un fatto linguistico centrale e portante. Per questo motivo sorprende la frattura emotiva provocata dal controcampo sui secondini che osservano le prove dei detenuti. Un errore politico, dove si abbandona momentaneamente il campo dei detenuti per spostarsi in quello delle “guardie” grazie al privilegio conferito ai registi dal loro status di uomini liberi, laddove sarebbe stato meglio, se non altro per la durata del film, di stare sempre nel campo dei detenuti e partecipare della loro immobilità (considerato che c’è anche la magnifica evasione immobile data dal poster che ricopre una delle pareti delle celle). Peccato dunque che questa frattura non sia stata nemmeno segnalata con un cambio di regime cromatico, cosa che se non altro avrebbe segnalato il cambiamento di stato. In questo modo diventa difficile stare nella scena dei detenuti e allo stesso tempo osservarla da “fuori”, dal punto di vista privilegiato dei secondini. Un vero e proprio punto morto etico di un film che invece rilancia in maniera inequivocabile la centralità di una posizione etica e morale nel fare cinema.
Cesare deve morire restituisce dunque il cinema dei fratelli Taviani a una libertà che questo sembrava avere perso da molto tempo. Che questa ritrovata vitalità e libertà i Taviani l’abbiano rinnovata a Rebibbia è solo uno dei numerosi meriti di un film coraggioso e necessario.
(7 aprile 2011)
domenica 4 marzo 2012
CIAO LUCIO! "Aspettiamo che Ritorni la Luce, di Sentire una Voce Aspettiamo senza avere Paura.... Domani"
I
grandi se ne vanno così, un giorno come tanti altri, mentre ti stai svegliando,
magari mentre saluti la donna che ami con un sorriso, se ne vanno come sono
venuti al mondo, in silenzio, portando al cuore l’ultimo applauso del pubblico
per stringerlo a sé, per renderlo eterno.
E così, all’improvviso, ci ha
lasciato Lucio Dalla, uno dei cantautori più emozionali del nostro tempo, che è
riuscito a penetrare nel codice genetico della musica italiana cambiandola per
sempre.
Se
Lucio Battisti ha rivoluzionato la musica leggera con Mogol, Dalla ha ibridato
le molteplici tradizioni che il nostro Paese conserva, creando un miscuglio di
sonorità dove la leggerezza della musica faceva da contrafforte ai temi non
sempre spensierati che Dalla cantava.
Ma il piccolo grande bolognese apparteneva
al mondo, era un jazzista nero di New Orleans e un consumato blues man di
periferia, uno scugnizzo che saltellava tra le note di una canzone e un poeta
delicato che raccontava un amore rivolto sempre al futuro.
Lucio
Dalla era questo soprattutto, un uomo che rimirava l’orizzonte con passione e
speranza, pensando più al giorno, al mese e all’anno che verrà che a quello
appena trascorso.
La sua morte sembra innaturale, sembra quasi un furto, una
cosa da scatenare una guerra tra uomini e dèi, perché la presenza di Lucio
Dalla nella vita culturale del Paese era qualcosa di certo e inequivocabile,
quel mondo fatto di “tante finestrelle colorate”, di “disperati ed erotici
stomp”, di mari che luccicano, di “santi che pagano il pranzo”, di figli
sperati e sogni scoloriti, in quel mondo ci siamo nati e vissuti senza badare
tanto alle generazioni e alle cose che cambiavano, in quel mondo non esiste il
tempo della storia, ma solo quello del cuore che batte e non sa fermarsi.
Dalla
è morto come il grande tenore Caruso, in un hotel che si affacciava su uno
specchio d’acqua, come Caruso ha saputo essere uno spregiudicato innovatore
della voce e della parola cantata, come Caruso ha legato il suo destino al suo
vagare per il mare della scoperta.
Era un esploratore Dalla, che guardava ogni
cosa con gli occhi e la curiosità del bambino, lo stesso bambino che si condeva
lazzi e sorrisi durante i concerti, trasformandolo in una dolce figura
circense.
Con Lucio Dalla perdiamo i suoi occhi, capaci di ridere del futuro e
del presente, di raccontare di quella volta che incontrò una puttana o che
strinse la mano ad un re, perché Dalla era così, aulico e popolare, elegante e
straccione, piccolo e forte, basso ma alto, era la contraddizione più bella
della musica d’autore e ci mancherà, non basteranno le raccolte che ci
propineranno e che forse compreremo, ci mancherà la canzone che parlerà alla
nostra anima senza farcelo pesare.
Rimane
il rammarico per non averlo potuto salutare per bene, per non aver pensato a
quanto fosse importante la sua presenza sul palco dell’Ariston mentre dirigeva
e cantava “Nanì” il suo ultimo regalo, perché come scriveva Foster Wallace “è
difficile notare quello che vedi tutti i giorni”, ma “Nanì” è il suo
testamento, è la sincera storia di quanto amore si può dare senza pretenderlo
in cambio e se lo avessimo saputo prima che Lucio Dalla avrebbe fatto finire
così il primo atto lo avremmo abbracciato un po’ di più e lui ci avrebbe
sussurrato: “Amore mio non devi stare in pena,
questa vita è una catena,
qualche
volta fa un po’ male”.
Se in questi giorni volete capire
meglio la figura di Lucio Dalla, vi consiglio il libro-Dvd, “Gli occhi di
Lucio”, scritto con Marco Alemanno. E’ una biografia pura, senza orpelli, dove
stelle e parole vanno di pari passo e dove con la fisarmonica sotto braccio
possiamo ritrovare la semplicità di un grande innovatore della canzone
italiana.
Autori: Lucio Dalla & Marco
Alemanno
Titolo: Gli Occhi di Lucio. Con
CD Audio. Con DVD
Editore: Bompiani
Pagine: 168
Costo: 20,50
euro
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