sabato 31 marzo 2012

Una nuova primavera per la scuola pubblica (?)







                                                                                   


Gridare insieme rende l’urlo più forte. 

Ed è così che (...) a Bologna e in molte città italiane genitori, insegnanti, studenti e ricercatori dei luoghi più diversi d’Italia hanno dato vita ad una convincente mobilitazione, interessante per qualità e quantità, che ci dice che qualcosa (forse) sta cambiando.

 Leggete le parole di quell’urlo.


Sono stati creati per l’occasione un’associazione con l’ambizione di raccogliere le idee e le energie di tanta parte del mondo della scuola che oggi si trova a battersi in condizioni di solitudine, impotenza e separatezza. 

Sono al VI ministro (Berlinguer, De Mauro, Moratti, Fioroni, Gelmini, Profumo) nel corso della mia vita professionale. 

Conosco tanti che ne hanno intercettati alcuni di più (fino al punto da averne probabilmente dimenticati persino i nomi) e che, nonostante ciò, continuano (continuiamo) a credere che valga la pena battersi per la scuola della Costituzione, la scuola dello Stato. 

Lo facciamo quotidianamente nelle nostre scuole e nelle aule delle nostre scuole; lo facciamo (lo abbiamo fatto) fuori, nell’esercizio quotidiano di cittadinanza consapevole; lo facciamo (lo abbiamo fatto) nelle piazza delle manifestazioni che negli ultimi 15 anni hanno costellato la nostra esistenza: tante, partecipate, povere, disertate, oceaniche (ricordate il 30 ottobre 2008, a Roma?), ristrette ma significative, deludenti, entusiasmanti.


Una giornata di mobilitazione generale e nazionale come quella promossa dall’Urlo della Scuola non può che riaccendere la speranza, rinfocolare la convinzione. 

Il sito dell’Urlo ha raggiunto negli ultimi 10 giorni 61mila accessi e 16.500 visitatori. Le adesioni individuali sono state oltre 2600, 280 quelle collettive. Il mondo della cultura ha risposto in maniera massiccia, in una rinnovata alleanza che negli ultimi anni ha lasciato un po’ a desiderare.

Le iniziative sono state molte, con contributi a cura degli stessi partecipanti che potranno direttamente essere visionati sul sito.

 Il 23 si è tenuta a Bologna, la città centro nevralgico della protesta, la Convenzione nazionale per la Scuola Bene comune: pubblica, capace, accogliente; che ha pubblicato una Carta dell’Urlo. Un documento prezioso e integralmente condivisibile, leggere il quale ci ricorda tristemente come anni di usura della democrazia e di disattenzione al dettato costituzionale abbiano reso alcuni principi enunciazioni formali disattese continuamente dalla pratica quotidiana. Con maggiore forza, allora, è il caso di rilanciare quei principi, di ribadirli, di rinfrescarli nelle memorie, nelle pratiche, nelle aspettative per un futuro di civiltà e di equità.


1. La scuola pubblica statale è un bene comune, come l’acqua.


Quello dei beni comuni è uno dei temi più qualificati del dibattito democratico attuale, per quanto riguarda le risorse non solo materiali ma anche immateriali che riguardano l’intera umanità. È bene comune ciò che la comunità considera strumento indispensabile alla vita biologica, psichica, morale e culturale e quindi diritto inalienabile, occasione di crescita e di inclusione a cui tutti devono avere accesso e che non può essere negato a nessuno, per nessuna ragione. 

L’essere bene comune della scuola è, insomma, ciò che la qualifica e nello stesso tempo la fonda per garantire a tutti e a ciascuno cittadinanza piena ed equa.


2. La scuola pubblica statale è il primo e massimo presidio democratico in grado di assicurare uguaglianza di opportunità nella formazione delle nuove generazioni.

 E’ la condizione essenziale affinché cittadini consapevoli, competenti e coscienti dei propri diritti e dei propri doveri possano confrontarsi alla pari con le migliori tradizioni formative internazionali ed essere protagonisti domani di una civile, intelligente “nuova primavera” della comunità globale.


Si tratta di una affermazione con una forte e legittima componente ideale, sormontata da un’esperienza concreta che sta – anno dopo anno – annacquando principi costituzionali a piccoli, inesorabili, miratissimi colpi. 

Nessuno ha il coraggio di affermare esplicitamente che deve esistere una scuola di serie A e una di seri B (e C…); né di rappresentare verbalmente, legittimandolo, ciò che da tempo ormai è sotto i nostri occhi: la scuola non è più l’ascensore sociale che la Costituzione mirabilmente rappresenta; ma – paradossalmente – sta diventando sempre più lo strumento di immobilizzazione dei destini sociali: la nascita è ancora una volta e sempre di più l’elemento in base al quale si determina il futuro dell’individuo. 

Atroce notare dunque come il luogo della “rimozione degli ostacoli” – la scuola dello Stato e della Costituzione - si sia negli ultimi anni resa complice (grazie al neoliberismo egemone e alla perdita di senso di quei principi) della cristallizzazione delle esistenze a seconda della provenienza socio-economica.


3. L’inequivocabile processo di privatizzazione della scuola pubblica statale è inaccettabile.

 I presagi di Piero Calamandrei stanno diventando realtà. Già oggi non una sola scuola sarebbe in grado di aprire i battenti senza i contributi “volontari” delle famiglie. La Convenzione insieme alla Costituzione considera tale processo anticostituzionale a partire dagli art. 3, 33 e 34 della nostra Carta Fondamentale, i quali disegnano una scuola dell’obbligo pubblica, laica e gratuita.

4. Il sostegno finanziario statale alle scuole paritarie private è anticostituzionale.

 La Convenzione chiede la soppressione della Legge 10 marzo 2000, n. 62 che da anni aggira furbescamente il dettato dell’art 33 della Costituzione: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.


La legge 62/00 – la legge della parità scolastica, uno degli errori (o delle strategie?) del centrosinistra – oltre a violare il principio della laicità e il dettato costituzionale del “senza oneri per lo Stato” ha dato la stura (tra le numerose, negative conseguenze) ad una progressiva estensione di una contribuzione (eufemisticamente chiamata “volontaria”) da parte delle famiglie che iscrivono i figli alla scuola pubblica. Volontaria, nonostante – appunto – ormai si tratti di un’entrata della quale le scuole non possono fare a meno, affossate come sono da un residuo attivo da parte dello Stato pari a 1,5 mld di euro; dal taglio dei fondi della legge 440/97 (Istituzione del Fondo per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi); dal taglio ai finanziamenti agli enti locali, che si riverbera fisiologicamente anche sulla scuola pubblica; dalla sparizione progressiva di posti di lavoro, che spesso richiede alle famiglie uno sforzo economico aggiuntivo per finanziare integrazioni.

 Iscrivere i propri figli ad una scuola dello Stato piuttosto che ad una scuola paritaria non è e non può essere considerata la stessa cosa. Attraverso l’annullamento di questo enorme divario rischia di passare la dismissione di una serie di principi: stato sociale, laicità, emancipazione garantita a tutti.


5. E’ senza dubbio dimostrata la correlazione fra qualità della formazione e qualità della vita civile, culturale e produttiva di un paese.

 La Convenzione ritiene che i finanziamenti per la formazione scolastica e universitaria in relazione al Pil debbano essere almeno pari alla spesa media europea e che l’obbligo scolastico debba essere portato a 18 anni di età.


Invece, come dimostrano anno dopo anno una serie di pubblicazioni dell’UE, come dell’OCSE – l’Italia spende il 4.6% contro una media europea del 5.2% del Pil. 

Senza considerare il fatto che il dato sincronico non tiene conto degli investimenti fatti nel tempo, molto consistenti in alcuni Paesi, che – non paghi – invece di tesaurizzare, continuano a scommettere (anche economicamente) su un futuro di democrazia e di cittadinanza consapevole. 

La questione dell’obbligo: una scommessa di civiltà perduta. Fioroni diceva, per commentare il mancato innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni, come il governo di cui faceva parte aveva promesso: “Non possiamo mica tenerli dentro [la scuola, ndr] con le catene”.

 L’infelice affermazione nascondeva una verità: innalzamento dell’obbligo scolastico non può concretizzarsi nella scuola così com’è.

 Solo una seria riflessione e determinazione del cosa, del come, del perché insegnare e una conseguente reale riforma della scuola può consentire realmente questo traguardo di democrazia e di uguaglianza: tutti dentro la scuola della Costituzione (non, come ora, anche nelle agenzie formative, nell’apprendistato, nella dispersione), possibilmente fino a 18 anni.


6. Gran parte degli edifici scolastici italiani sono inadeguati e insicuri mentre gli insegnanti sono fra i peggio trattati d’Europa. E’ dimostrato da tutte le ricerche internazionali che là dove si garantisce agli insegnanti dignità economica e condizioni di lavoro adeguate, là dove viene privilegiata la relazione tra gli insegnanti e tra insegnanti e studenti, là dove viene privilegiato il percorso di apprendimento, la qualità dell’insegnamento e dei risultati ne trae un sostanziale vantaggio.

È un punto su cui mi sono soffermata varie volte e su cui è però fondamentale continuare ad insistere. Sui salari dei docenti un recente studio di Eurydice ha per l’ennesima volta confermato la triste realtà economica degli insegnanti italiani.

 Gli edifici scolastici, inoltre, non devono essere solo sicuri, traguardo ancora molto lontano dall’essere raggiunto. Ma devono essere anche accoglienti, dignitosi, per accompagnare il processo di apprendimento con un panorama adeguato in un mondo in cui brutto, kitsch, degrado sono il quotidiano contraltare, al quale siamo ORMAI avvezzi, rispetto al bello effimero cui ammicca l’immaginario collettivo. Pensate che brutto abituarsi al brutto. Pensate a quanto possa essere intrinsecamente deprimente e violento rispetto alla psicologia dei bambini, dei ragazzi, a menti in formazione, a curiosità, fantasie, intuizioni, riflessioni che chiederebbero – per uscire allo scoperto in maniera ottimale – panorami accoglienti. Il non più tanto neo ministro Profumo ha detto che i salari dei docenti sono inadeguati. E sin da novembre ha posto la questione dell’edilizia scolastica al centro delle proprie priorità. Continuiamo ad attendere.


7. E’ proprio nei momenti di crisi che paesi più lungimiranti del nostro per essere credibili, per attrarre investimenti, per progredire, per fare innovazione e depositare brevetti internazionali, per trattenere i migliori cervelli, investono in formazione scolastica, università e ricerca. Si auspica che l’Italia diventi un Paese lungimirante. La Convenzione chiede alla Politica di considerare la formazione scolastica non una spesa sociale ma un investimento strategico per il futuro del Paese e delle persone che lo abitano oggi, come per quelle che lo abiteranno domani.

Ancor più significativa, questa richiesta, in chiave di un’interpretazione lungimirante della scuola (e della società) multietnica verso la quale ci stiamo incamminando.

 Investimento strategico per il futuro significa prima di tutto attribuire alla scuola il ruolo di primo spazio di democrazia, di cittadinanza, di potenziale emancipazione. Uno spazio tanto più prezioso, in quanto in esso transitano – forse per la prima volta e spesso primi della loro famiglia – bambine e bambini, ragazze e ragazzi che saranno gli italiani di domani. Garantire loro attenzione, cura, competenze, cultura significa garantire al nostro (e al loro) Paese un futuro di potenziale libertà, civiltà, democrazia effettiva. 

Viceversa, la creazione – ancora una volta soprattutto ai danni dei più deboli, che non sono in grado di vicariare la scuola – di una dimensione minimale di sviluppo della cittadinanza attraverso l’istruzione e l’educazione è quanto ha caratterizzato le politiche scolastiche degli anni più recenti.


8. Due leggi di iniziativa popolare sostenute dalle firme di centinaia di migliaia di cittadini giacciono ignorate nei cassetti polverosi del Parlamento: “Per una buona scuola per la Repubblica” e “Tutela, governo e gestione pubblica delle acque”. Le due Leggi propongono un’idea organica di governo di due beni comuni cruciali per il benessere sociale: il sistema scolastico e le risorse idriche. Ci chiediamo e chiediamo, è accettabile che la partecipazione popolare alla formazione delle leggi – prevista dalla Costituzione – sia a tal punto svilita da restare senza ascolto e senza risposta? La Convenzione chiede che le due proposte di legge vengano immediatamente messe in discussione in Parlamento con il coinvolgimento dei due Comitati Promotori. Si propone infine di intraprendere un’azione comune per dare concretezza alle due proposte di legge.


9. La Convenzione, consapevole dell’esperienza maturata in tatti anni di governi e di politiche miopi e senza visione, si impegna in modo solenne ad opporsi con determinazione ad ogni tentativo di demolizione, impoverimento indebolimento dei principi e delle condizioni indicate in questo decalogo.


10. Per diffondere e sostenere questi principi essenziali la Convenzione, oggi 24 marzo 2012, decide di offrire una casa comune, un’Associazione diffusa, denominata “una nuova primavera per la scuola pubblica”; di dotarsi di una mailing list nazionale, denominata “la rete dei sensibili” e di un “quaderno di lavoro” pubblico accessibile dalla rete. Strumenti di lavoro utili per discutere, proporre, interrogarsi sul “che fare” per l’istruzione pubblica oggi domani e dopodomani. Infine si propone di rendere permanente la “Convenzione nazionale per la scuola Bene Comune.


Buon lavoro. E grazie.

                                                                        Marina Boscaino

mercoledì 28 marzo 2012

UOMINI E DONNE CONTRO LE MAFIE:


Mafie, il silenzio delle sdisonorate
«Uccidere le donne riporta l’equilibrio»

Vittime di un presunto codice d’onore, sono almeno 150 le donne uccise dalla criminalità organizzata dal 1896 a oggi.

Attentati, vendette, ritorsioni e induzioni al suicidio le cause principali. 

Le loro storie sono adesso raccolte in un dossier, curato dall’associazione romana antimafie daSud.

 La curatrice delle ricerche, Irene Cortese:«L’omicidio di una donna fa meno parlare. Ed è troppo spesso nascosto tra le righe della cronaca»

sdisonorate
«Un dossier che serve innanzitutto a sfatare un’assurda credenza: che i clan, in virtù di un presunto codice d’onore, non uccidono le donne».

Più di 150 storie, raccolte in ordine cronologico in una pubblicazione. Vittime, ognuna a suo modo, di una cultura che vede il femminile come oggetto del possesso, ottimo bersaglio per le vendette.

 Innocenti e non, colpevoli in qualche caso di aver alterato la trasmissione della cultura e dei modelli sociali delle mafie, a loro affidati, per amore dei figli o del compagno. Più raramente di se stesse. 

«Un elenco che non ha nessuna pretesa di essere esaustivo», sottolinea la curatrice delle ricerche, Irene Cortese, 33 anni, calabrese d’origine, un lavoro da educatrice per i bambini autistici. 

Un dossier pubblicato dall’associazione romana antimafie daSud e curato dal collettivo di genere ospitato al suo interno.

 «Un giorno abbiamo pensato di intrecciate le due tematiche, il femminile e la criminalità organizzata – spiega Cortese – Anche perché ci siamo rese conto che è sempre complicato cercare notizie su donne vittime di mafia, troppo spesso nascoste tra le righe della cronaca».

CampaniaCalabria e Sicilia le regioni principali a fare da scenario agli omicidi.

 Il primo, nel 1896, a Palermo

Quando Cosa Nostra ordina l’uccisione di Emanuela Sansone, 17 anni, figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. E’ una ritorsione: sulla madre di Emanuela, infatti, pende il sospetto di aver denunciato i mafiosi per la fabbricazione di banconote false. Una storia che è un doppio inizio: Giuseppa Di Sano, dopo l’omicidio della figlia, sarà infatti la prima donna a collaborare con la giustizia. Emanuela è il primo ma non certo l’ultimo esempio di una donna uccisa per vendetta. 

Come lei, Carmela Minniti, moglie del boss catanese Nitto Santapaola, uccisa nel 1995. «Abbiamo molto discusso tra di noi se inserirla o meno nel dossier, perché si tratta di una figuraborder line – spiega Cortese – Era la moglie di un boss e ha sempre difeso le scelte mafiose dei figli, ma la sua uccisione rientra nella dinamica di vendetta nei confronti del marito». Di più, Carmela Minniti era una donna che contava all’interno dell’organizzazione criminale etnea. «La sua storia dimostra come, anche se organiche, le donne svolgono comunque un ruolo secondario e subordinato nelle mafie». 

Le donne boss di cui si inizia a fare un gran parlare. Figure che trovano più spazio grazie anche alla modificazione dei fenomeni criminali in un’ottica più imprenditoriale che di controllo del territorio. Ma che spesso «assumono il potere solo quando il marito o il padre sono latitanti o in carcere».

 Un aspetto che l’associazione si promette di indagare in un successivo dossier.
Ci sono poi le vittime casuali, in qualche caso investite dalle auto di scorta ai magistrati. «La mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti», diceva Paolo Borsellino

E ancora le vittime ai margini della storia: come una mamma e le sue due bambine uccise nell’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze

Ci sono poi le storie più note, come quella di Emanuela Setti Carraro, moglie del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, e Candida Morvillo, moglie del magistrato Giovanni Falcone, entrambe rimaste uccise negli attentati organizzati contro i mariti. «Ma la vicenda che forse mi ha colpito di più è quella di Rossella Casini» dice Cortese. Rossella, 21 anni, di Firenze, ha avuto la sfortuna di innamorarsi del ragazzo sbagliato: Francesco Frisina, studente originario di Palmi, la sua famiglia è coinvolta in una faida di ‘ndrangheta. Lui stesso si salva appena, dopo una pallottola in testa. Rossella, che poco sa di mafia, lo convince a parlare. Poi ritratta lei stessa, per salvarlo. E ci riesce: lui, rimasto in silenzio, è salvo. Ma lei verrà uccisa e fatta a pezzi nel 1981. «Chi non conosce le dinamiche mafiose – commenta Cortese – difficilmente si rende conto della pericolosità di quello che le accade».

Delitti d’onore e vendette, in cui l’uccisione delle donne viene utilizzata «per normalizzare una situazione in cui sono sfasati gli equilibri». O per alimentare il silenzio intorno a un altro omicidio: «All’inizio si dice sempre che è stata una questione di donne – aggiunge Cortese – Perché è ancora culturalmente più accettato rispetto a un omicidio di mafia. E, soprattutto, fa meno parlare». Metodi in cui le donne sono sempre un oggetto passivo ma che negli anni sono andati evolvendosi. 

Con la più moderna induzione al suicidio, quasi sempre per aver ingerito acido muriatico. «Quasi un rituale, così da quella bocca non potrà uscire più niente».

 Come è successo a Santa Boccafusca, detta Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss della ‘ndrangheta di Limbaldi, in provincia di Vibo Valentia, e a Maria Concetta Cacciola, nipote del boss di Rosarno, ultima vittima dell’elenco. 

Fatte pentire di essersi pentite. 

Un atteggiamento pericoloso per le mafie, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli. 

«L’educazione passa per le donne, sono loro a tramandare un codice mafioso – conclude Irene Cortese – La prima rivoluzione potrebbe partire proprio da questo».


                                         Claudia Campese

domenica 25 marzo 2012

Addio a Antonio Tabucchi





                        Tabucchi, un uomo libero


di Marco Travaglio, da ilfattoquotidiano.it

Ci sono momenti in cui il nostro mestiere è davvero feroce, impietoso. E questo è uno di quelli: scopri che un tuo amico è morto e, invece di startene in silenzio a ricordarlo, magari a pregare per lui, ti tocca subito scriverne. Pochi minuti fa ho saputo che è morto Antonio Tabucchi, a Lisbona.

Dicono che “era da tempo malato”. Non l’aveva detto nemmeno agli amici. Sapevo, me ne aveva parlato nell’ultima telefonata dal Portogallo qualche mese fa, di una frattura a una gamba, che aveva aggravato i suoi problemi alla schiena. Altro non so. Quello che so di lui è che era uno dei pochissimi intellettuali internazionali rimasti all’Italia (non direi “in Italia” visto che ci viveva poco, e con sempre maggiore disagio). Temo che la parola “intellettuale” non sarebbe piaciuta a lui così schivo, minimalista, autoironico, antiretorico, quasi autobeffardo. Ma, se la parola “intellettuale” aveva ancora un senso, è proprio perché c’era lui.

Non ho voglia né competenza per disquisire sul valore letterario dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Ma sono stato testimone del suo modo di concepire la cultura e l’impegno: fu nel 2002, quando cominciò a scrivere sull’Unità perché nessun grande giornale italiano “indipendente” poteva più ospitare gli articoli di uno dei più noti scrittori italiani, tradotto in tutto il mondo, solo perché erano irriducibilmente critici contro il regime di Berlusconi e contro chiunque non vi si opponesse con la necessaria intransigenza. Compreso il presidente Ciampi, che qualche legge vergogna la bocciava ma molte altre le promulgava.

Un giorno Tabucchi, sull’Unità e su Le Monde, criticò duramente Ciampi per una sua apertura sui “ragazzi di Salò”: per protesta il senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, lasciò la presidenza dell’Unità.«Che razza di Nazione è quella dove uno scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le Monde?», si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere, mai di criticarlo. Tabucchi non ne faceva passare nessuna a nessuno. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi.

Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio” (che naturalmente non ci fu). Qualche anno dopo rubò letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale di Parigi, e la vinse. Ricordo la sua soddisfazione appena uscì la sentenza, che riportava il tragicomico interrogatorio di Ferrara, il quale ammetteva che, sì, aveva confessato lui stesso di aver fatto l’informatore a pagamento di un servizio segreto straniero, ma non era vero niente, la sua era solo una “provocazione”: tant’è che – aggiunse – non ci sono le prove. Figurarsi la faccia dei giudici parigini dinanzi a questo “giornalista” ed ex-ministro italiano che si vanta di raccontare frottole sulla propria vita e aggiunge: trovate le prove di quel che scrivo, se ne siete capaci. Infatti fu condannato su due piedi.

Ecco, in quella sentenza, oltre a quello dei giudici, c’era anche tutto lo stupore di Antonio, che essendo un cittadino del mondo prestato all’Italia non riusciva a tollerare tutto ciò che, per assuefazione e rassegnazione, in Italia si ingoia e si digerisce. E si ostinava a chiamare le cose con il loro nome: quello berlusconiano era un “regime”, chi non lo ostacolava era un “complice”, chi lo sosteneva era un “servo”, chi deviava dal dettato costituzionale era un “eversore”, chi violava le leggi era un “delinquente”, chi approfittava delle cariche pubbliche per farsi gli affari suoi era in “conflitto d’interessi”, dunque “ineleggibile”. Per questo Tabucchi era isolato e malsopportato nel mondo degli intellettuali italiani: perché, essendo un uomo libero, mostrava loro col suo esempio ciò che avrebbero dovuto essere e invece non erano. Per viltà, conformismo, sciatteria, convenienza, paraculaggine, quieto vivere.

(25 marzo 2012)

mercoledì 7 marzo 2012

Cesare deve Morire. E i Taviani ne liberano lo spirito

di Giona A. Nazzaro 

Cesare deve morire è il film che proprio non ti aspetti dai Taviani. Certo non a questo punto della loro carriera che da anni ha imboccato una strada tutta in pianura fatta di un cinema prevedibile e ingessato.

Cesare deve morire, al di là dei soliti evitabilissimi sciovinismi della stampa italiana, la quale se il film non avesse vinto il primo premio a Berlino non lo avrebbe degnato nemmeno di un decimo dell’attenzione sin qui tributatagli, è davvero un ottimo lavoro, probabilmente il migliore dei Taviani dai tempi di Kaos. Un’autentica scossa di vita che immette energia in un cinema che pareva aver segnato il passo, immergendolo nuovamente nell’agone delle cose e del mondo.

Ciò che sorprende positivamente è il rischio linguistico che il film accoglie senza colpo ferire. Cesare deve morire non è affatto la documentazione filmata di uno spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti di Rebibbia sotto la guida partecipe e attenta di Fabio Cavalli. Il Giulio Cesare di Shakespeare rielaborato da Cavalli con i Taviani è una complessa operazione linguistica e politica che intrecciando i numerosi piani narrativi sui quali si muove crea un’originale e rigorosa messa in scena drammatica.

Il film si muove, infatti, su almeno tre livelli: quello dell’apparente proposta documentaria (l’ingresso nel complesso carcerario, le riprese a colori delle fasi finali dello spettacolo), la presentazione e la descrizione della provinatura dei detenuti (in bianco e nero nella quale il registro narrativo scivola impercettibilmente verso un regime che oscilla fra cosiddetta finzione e realtà) e il racconto vero e proprio delle prove messo in scena attraverso le dinamiche che il Giulio Cesare attiva nella comunità degli attori e detenuti impegnati nelle prove man mano che lo spazio concentrazionario di Rebibbia diventa il teatro del progredire del lavoro della troupe. Questi livelli del film sono poi unificati nella costruzione filmica dei Taviani che si muove con estrema libertà e coraggio confondendo i piani del racconto e oscillando senza tregua fra cosiddetto documentario, ricostruzione, messa in scena e osservazione pura.

Ciò che impressiona del film dei Taviani è l’attenzione attraverso la quale lo spazio del carcere è rielaborato attraverso il testo scespiriano. Cesare deve morire è prima di tutto un film sul lavoro: il lavoro del teatro, il lavoro di un testo rielaborato per raccontare una situazione, il lavoro del linguaggio che si reinventa in un contesto ostile. Poi, inevitabilmente, pone un problema politico già insito nel dramma di Shakespeare ma rielaborato in forme originali attraverso le relazioni che il regime teatrale crea nei rapporti fra i detenuti: la difesa della democrazia e la gestione del potere attraverso le relazioni che il lavoro della politica offre a coloro che l’agiscono o ne sono agiti. Sfruttando al massimo le limitazioni ambientali del carcere, il film attinge a una potente vertigine d’astrazione che restituisce i Taviani al grande movimento di rinnovamento del cinema italiano e non solo del quale sono stati protagonisti con i loro capolavori degli anni Settanta.

Ogni inquadratura del film, soprattutto le parti girate in bianco e nero, si presenta con un’urgenza rara nel cinema italiano d’oggi; un urgenza alla quale ultimamente solo Bellocchio e Martone hanno dato forma e vita in misura convincente e politica al tempo stesso. Senza contare che in un cinema nazionale nel quale i dialetti e i regionalismi sono utilizzati solo in chiave comica, livellando sempre verso il basso, voci, accenti e differenze, Cesare deve morire, con il suo coro di voci napoletane, romane e siciliane ci restituisce il suono di un paese di fatto rimosso dai racconti dei media ufficiali.

Infine, l’attenzione con la quale il montaggio di Roberto Perpignani segue lo svolgersi del racconto, creando una dimensione autenticamente epica, nel senso proprio di Brecht, delle immagini, è il corollario ideale alla tensione impressa dai Taviani alle inquadrature del film.

Tutti questi elementi producono una tensione fortissima del racconto nel quale i volti dei protagonisti sono scolpiti dal taglio della luce e delle ombre. I corpi, infatti, entrano in un fecondo drammatico non solo con gli spazi del carcere, ma anche con le strutture formali del racconto, creando così un effetto di rispecchiamento inquietante e ricco di implicazioni formali e politiche.

Cesare deve morire è uno dei pochi film italiani degli ultimi anni dove il valore dell’inquadratura torna a essere un fatto linguistico centrale e portante. Per questo motivo sorprende la frattura emotiva provocata dal controcampo sui secondini che osservano le prove dei detenuti. Un errore politico, dove si abbandona momentaneamente il campo dei detenuti per spostarsi in quello delle “guardie” grazie al privilegio conferito ai registi dal loro status di uomini liberi, laddove sarebbe stato meglio, se non altro per la durata del film, di stare sempre nel campo dei detenuti e partecipare della loro immobilità (considerato che c’è anche la magnifica evasione immobile data dal poster che ricopre una delle pareti delle celle). Peccato dunque che questa frattura non sia stata nemmeno segnalata con un cambio di regime cromatico, cosa che se non altro avrebbe segnalato il cambiamento di stato. In questo modo diventa difficile stare nella scena dei detenuti e allo stesso tempo osservarla da “fuori”, dal punto di vista privilegiato dei secondini. Un vero e proprio punto morto etico di un film che invece rilancia in maniera inequivocabile la centralità di una posizione etica e morale nel fare cinema.

Cesare deve morire restituisce dunque il cinema dei fratelli Taviani a una libertà che questo sembrava avere perso da molto tempo. Che questa ritrovata vitalità e libertà i Taviani l’abbiano rinnovata a Rebibbia è solo uno dei numerosi meriti di un film coraggioso e necessario.

(7 aprile 2011)

domenica 4 marzo 2012

CIAO LUCIO! "Aspettiamo che Ritorni la Luce, di Sentire una Voce Aspettiamo senza avere Paura.... Domani"




                                                               



I grandi se ne vanno così, un giorno come tanti altri, mentre ti stai svegliando, magari mentre saluti la donna che ami con un sorriso, se ne vanno come sono venuti al mondo, in silenzio, portando al cuore l’ultimo applauso del pubblico per stringerlo a sé, per renderlo eterno.

E così, all’improvviso, ci ha lasciato Lucio Dalla, uno dei cantautori più emozionali del nostro tempo, che è riuscito a penetrare nel codice genetico della musica italiana cambiandola per sempre.
Se Lucio Battisti ha rivoluzionato la musica leggera con Mogol, Dalla ha ibridato le molteplici tradizioni che il nostro Paese conserva, creando un miscuglio di sonorità dove la leggerezza della musica faceva da contrafforte ai temi non sempre spensierati che Dalla cantava.
 Ma il piccolo grande bolognese apparteneva al mondo, era un jazzista nero di New Orleans e un consumato blues man di periferia, uno scugnizzo che saltellava tra le note di una canzone e un poeta delicato che raccontava un amore rivolto sempre al futuro.
Lucio Dalla era questo soprattutto, un uomo che rimirava l’orizzonte con passione e speranza, pensando più al giorno, al mese e all’anno che verrà che a quello appena trascorso.
 La sua morte sembra innaturale, sembra quasi un furto, una cosa da scatenare una guerra tra uomini e dèi, perché la presenza di Lucio Dalla nella vita culturale del Paese era qualcosa di certo e inequivocabile, quel mondo fatto di “tante finestrelle colorate”, di “disperati ed erotici stomp”, di mari che luccicano, di “santi che pagano il pranzo”, di figli sperati e sogni scoloriti, in quel mondo ci siamo nati e vissuti senza badare tanto alle generazioni e alle cose che cambiavano, in quel mondo non esiste il tempo della storia, ma solo quello del cuore che batte e non sa fermarsi.
Dalla è morto come il grande tenore Caruso, in un hotel che si affacciava su uno specchio d’acqua, come Caruso ha saputo essere uno spregiudicato innovatore della voce e della parola cantata, come Caruso ha legato il suo destino al suo vagare per il mare della scoperta.
 Era un esploratore Dalla, che guardava ogni cosa con gli occhi e la curiosità del bambino, lo stesso bambino che si condeva lazzi e sorrisi durante i concerti, trasformandolo in una dolce figura circense.

Con Lucio Dalla perdiamo i suoi occhi, capaci di ridere del futuro e del presente, di raccontare di quella volta che incontrò una puttana o che strinse la mano ad un re, perché Dalla era così, aulico e popolare, elegante e straccione, piccolo e forte, basso ma alto, era la contraddizione più bella della musica d’autore e ci mancherà, non basteranno le raccolte che ci propineranno e che forse compreremo, ci mancherà la canzone che parlerà alla nostra anima senza farcelo pesare.
Rimane il rammarico per non averlo potuto salutare per bene, per non aver pensato a quanto fosse importante la sua presenza sul palco dell’Ariston mentre dirigeva e cantava “Nanì” il suo ultimo regalo, perché come scriveva Foster Wallace “è difficile notare quello che vedi tutti i giorni”, ma “Nanì” è il suo testamento, è la sincera storia di quanto amore si può dare senza pretenderlo in cambio e se lo avessimo saputo prima che Lucio Dalla avrebbe fatto finire così il primo atto lo avremmo abbracciato un po’ di più e lui ci avrebbe sussurrato: “Amore mio non devi stare in pena,
questa vita è una catena,
qualche volta fa un po’ male”.

Se in questi giorni volete capire meglio la figura di Lucio Dalla, vi consiglio il libro-Dvd, “Gli occhi di Lucio”, scritto con Marco Alemanno. E’ una biografia pura, senza orpelli, dove stelle e parole vanno di pari passo e dove con la fisarmonica sotto braccio possiamo ritrovare la semplicità di un grande innovatore della canzone italiana.

Autori: Lucio Dalla & Marco Alemanno
Titolo: Gli Occhi di Lucio. Con CD Audio. Con DVD
Editore: Bompiani
Pagine: 168
Costo: 20,50 euro