sabato 31 agosto 2013


31 AGOSTO 1860, GARIBALDI
ARRIVA A COSENZA: CRONACA DI UN'IMPRESA


A Rogliano Garibaldi emanò i famosi Decreti con cui ridusse il prezzo del sale, indispensabile per conservare gli alimenti e di difficile reperimento; abolì la tassa sul macinato per le granaglie, ad eccezione del frumento. Deliberò soprattutto che gli abitanti poveri di Cosenza e dei Casali potessero esercitare gli usi civici di pascolo e semina gratuitamente nelle terre demaniali della Sila. Era questo il provvedimento tanto atteso dai contadini.


“Chi mai degnamente narrar potrebbe l'ingresso del Dittatore in questa Città? Ci contenteremo perciò di pochi cenni e diremo soltanto che la nostra provincia non fu seconda a nessun'altra nel festeggiare l'arrivo dell'Uomo straordinario, il cui cammino non fu che un continuo trionfo. Da Rogliano a Cosenza percorse dieci miglia tra un popolo numeroso che da paesetti e villaggi era disceso sulla via per contemplare un istante l'aspetto del nostro Liberatore. Il giorno 31 agosto resterà nei nostri cuori perennemente scolpito quando verso un'ora di giorno, lo vedemmo giungere e come torrente sentimmo traboccarci la gioia d'ogni parte”. (Il Monitore Bruzio, Giornale Uffiziale della Calabria Citeriore, 1860).


Nel tardo pomeriggio del 31 agosto del 1860, Garibaldi entrò a Cosenza tra la folla in festa per il suo arrivo. Portato in braccio nel Palazzo del Governo, parlò dal balcone al popolo che nella piazza sottostante manifestava una gioia incontenibile. I cosentini, così come i calabresi in genere, afflitti da una povertà secolare e perciò desiderosi di terre, avevano riposto le loro speranze in Garibaldi. La figura del Nizzardo che combatteva per la liberazione dei popoli oppressi, l'eroe dei due mondi animato dagli ideali di libertà e amore per la Patria, portò una ventata di ottimismo tra i calabresi, stanchi ormai dei continui disordini per la questione silana. L'usurpazione delle terre demaniali in Sila segnava la vita dei contadini e per tutto l'800 essi subirono l'ambigua situazione che era venuta a crearsi: da una parte gli avvocati che rinviavano le sentenze di reintegra dei demani usurpati e dall'altra la stessa monarchia borbonica che gestiva con doppiezza la questione, controllando sia i contadini che i proprietari, al solo scopo di ottenere consensi.


Qualche anno prima, esattamente nell'agosto del 1854, il commissario civile per gli affari della Sila, Pasquale Barletta, aveva pubblicato un Regolamento sulla divisione provvisoria dei demani silani tra Cosenza e i Casali. L'assegnazione fu compiuta tenendo conto della popolazione dei singoli comuni. Una suddivisione provvisoria stabilì le quote di uso per le famiglie indigenti, in base ai componenti del nucleo familiare. Barletta offrì una buona possibilità di lavoro ai contadini che occupavano i terreni o vi esercitavano abusivamente gli usi civici perché li ritenevano usurpati.


Fu in questa situazione di crisi sociale, economica e politica che si inserì l'arrivo di Garibaldi in Calabria: se tra le classi sociali meno abbienti dilagava il malcontento causato dalla questione silana, da quella relativa ai beni ecclesiastici e dai pesanti dazi, tra la borghesia, invece, detentrice del potere amministrativo nelle province e nei comuni, si inseguiva la speranza della dissoluzione del regno borbonico per reimpadronirsi delle proprietà requisite dal commissario Barletta con il decreto del 1854.


Garibaldi sbarcò a Mileto il 19 agosto 1860. La Calabria mostrava ancora le ferite lasciate dalle Idi di marzo di Cosenza del 1844 e dai fratelli Bandiera, così come era ancora vivo il ricordo della spedizione del 1857 capeggiata da Carlo Pisacane e dal calabrese Giovanni Nicotera. Presentava soprattutto una grave arretratezza.


Pochi giorni più tardi giunse a Cosenza la notizia che Garibaldi aveva liberato il territorio reggino e che era in procinto di marciare verso nord. Una moltitudine di coraggiosi cittadini, allora, si riunì davanti al Palazzo dell'Intendenza per osannare il Dittatore, il Re, l'Unità d'Italia. Il Monitore Bruzio così descrisse quei momenti: “La folla accalcata percorreva la città, che vedesi in un baleno illuminata a festa... La lieta novella si spande nei paesi circonvicini, ed ai lontani l'annunzia il telegrafo. Il dì seguente 24 agosto, la Provincia proclama unanimemente l'insurrezione, e al tocco delle campane, vecchi, giovani e fanciulli corrono alle armi”.


Subito le autorità municipali dichiararono decaduto il Re Francesco II di Borbone, mentre i cittadini correvano a combattere nei campi organizzati nella provincia con un tale entusiasmo che preoccupò il comandante della brigata di Cosenza, il generale Caldarelli. Egli, dopo aver impegnato le sue forze nel Largo Santa Teresa su Colle Triglio e puntato i cannoni sulla città, il 27 agosto si arrese e si impegnò di non combattere più contro l'Unità d'Italia.


Dopo la resa dell'esercito borbonico a Soveria Mannelli avvenuta il 30 agosto e il passaggio dei soldati borbonici nelle truppe garibaldine del generale Stocco, Garibaldi si avviò verso Rogliano. Durante la sosta ad Acrifoglio, nei pressi di Scigliano, inviò a Donato Morelli il famoso telegramma dal seguente contenuto:“Dite al mondo che ieri coi miei prodi cavalieri feci abbassare le armi a 10.000 soldati comandati dal generale Ghio. Trasmettete a Napoli e ovunque la lieta novella”.


La numerosa armata degli ufficiali napoletani si rivelò incapace e codarda: intimorita dalla notizia dell'imminente arrivo del Dittatore, si arrese dinanzi a un esercito di pochi uomini senza opporre resistenza. Gli storici del tempo descrissero l'euforia della cittadinanza che si mise in cammino per accogliere Garibaldi, considerato il loro salvatore. Scene di fanatismo si verificavano al suo passaggio, alcuni si inginocchiavano, altri gli baciavano le vesti. Grande era la speranza dei contadini per un cambiamento generale delle loro condizioni di vita, che il nuovo governo, forse, avrebbe potuto apportare.


Giunto a Rogliano, Garibaldi nominò Donato Morelli Governatore della Provincia. Sorse quindi un governo provvisorio denominato 'Governo generale della Calabria Citra' che esercitò sul territorio il potere autonomo riconosciuto dal Re Vittorio Emanuele II.


Donato Morelli e suo fratello Vincenzo furono tra i protagonisti del 1848 cosentino.  Processati e condannati dalla Gran Corte Criminale, accolsero dopo diversi anni l'invito dei liberali napoletani a preparare la Calabria alla campagna garibaldina. L'obiettivo era l'unificazione della penisola sotto la monarchia costituzionale dei Savoia. A Cosenza nacque un Comitato Centrale che avrebbe dovuto promuovere l'insurrezione anche con il coinvolgimento dei rappresentanti del regime borbonico. Donato Morelli era sicuro che Garibaldi avrebbe dato un forte impulso al processo di unificazione italiana, ma anche lui e la sua famiglia come i Barracco, i Berlingieri, i Compagna, i Gallucci, i Guzzolini, i Lucifero erano usurpatori di terre demaniali silane.


A Rogliano Garibaldi emanò i famosi Decreti con cui ridusse il prezzo del sale, indispensabile per conservare gli alimenti e di difficile reperimento; abolì la tassa sul macinato per le granaglie, ad eccezione del frumento. Deliberò soprattutto che gli abitanti poveri di Cosenza e dei Casali potessero esercitare gli usi civici di pascolo e semina gratuitamente nelle terre demaniali della Sila. Era questo il  provvedimento tanto atteso dai contadini.


Dopo la sosta a Rogliano, Garibaldi proseguì per Cosenza dove fu accolto da cittadini e autorità in festa. Il Monitore Bruzio così scriveva: “Tutte le carrozze ornate di bandiere erano state ad incontrarlo, mentre la Guardia Nazionale, Legioni Calabre numerosissime schierate in bell'ordine, ed una folla di popolo mai vista, lo aspettavano col guardo raggiante di tripudio. E' impossibile descrivere l'entusiasmo che suscitò il suo apparire. Entrato nel Palazzo del Governo salì le scale portato sulle braccia di onorandi cittadini. Chiamato dal popolo si affaccia dal balcone, e le grida di contento n'andavano a cielo. La vista di quegli armati corsi ad un cenno di Lui, di quel popolo foltissimo, di tante bandiere e lini agitati per l'aria, commosse il suo animo, né sapeva distaccarsi da quel luogo dove ritornò per tre volte. Canti e suoni per tutta la notte dettero alla città spettacolo novissimo e grande... Ringraziate, disse, da parte mia questa brava popolazione per l'accoglienza fattami e dite a tutti che son dolente di non aver potuto correre tutta la Città a cavallo”.


Il primo settembre visitò con la divisione Bixio e con molti cosentini il Vallone di Rovito, luogo dell'esecuzione dei fratelli Bandiera e dei loro compagni. Ancora Il Monitore Bruzio: “Era ben giusto versar lagrime pe' Martiri della nostra redenzione. Fu aperta la cassa di ferro che conteneva le ossa di que' trapassati, si spiegò la loro bandiera. La divisione Bixio e gran parte del popolo recati al luogo dove fu consumato il misfatto, udirono le commoventi parole del Generale. E fino il sesso gentile prese parte all'universale commozione... Sì Donne Calabresi, voi ben meritate la stima delle altre sorelle italiane, per le quali ora sta per compiersi il vaticinio del gran poeta Recanatese: Così l'eterna Roma in duri ozii sepolta femmineo fato avviva un'altra volta”.


Garibaldi riprese il viaggio verso Castrovillari. Il 21 settembre 1860, Donato Morelli scrisse al Ministro di Grazia e Giustizia per ribadire che la provincia, già dai primi del mese, avendo riconosciuto come sovrano Vittorio Emanuele II, non avrebbe potuto più ricevere ordini dal governo borbonico. L'otto ottobre, a Napoli, Garibaldi convocò i comizi per accettare o rigettare il plebiscito che voleva l'Italia una e indivisibile.


I Decreti emanati dal Generale durante la sua permanenza a Rogliano crearono speranze tra i ceti poveri, un sogno che durò solo pochi giorni. Il decreto a favore degli abitanti poveri di Cosenza e dei Casali non fu mai attuato perché Morelli, con un altro decreto datato 5 settembre 1860, svuotò le disposizioni di Garibaldi. Il provvedimento non era ben visto dai grandi proprietari che mai avrebbero rinunciato alla difesa dei loro interessi. Cinque giorni dopo l'emanazione, infatti, lo stesso Morelli, appartenente al ceto dei possidenti, ridusse le zone concesse ai contadini per esercitare i diritti di pascolo e di semina e stabilì che questo esercizio non poteva impedire ai proprietari di far valere le proprie ragioni. I contadini rimasero nella loro storica miseria nonostante i tentativi di ribellione che si susseguirono. Con il nuovo Regno ricominciarono le lotte contadine e i fautori subirono una repressione durissima. Nel 1876 il Parlamento legittimò le usurpazioni silane, riconoscendo i possessori di fatto. 


Il passaggio di Garibaldi, atteso e acclamato, rivoluzionario da un punto di vista politico e sociale per i cambiamenti che intendeva attuare in favore della popolazione cosentina, fu vanificato da un figlio di quello stesso popolo, che si adoperò immediatamente affinchè tutto rimanesse come era sempre stato.

                                                 FRANCESCA CANINO

venerdì 30 agosto 2013

Lotta tra Titani:Intervista a Carlo Sini di Leonetta Bentivoglio


 Se la frattura fra Husserl e Heidegger è stata come è stata  una frattura che ha inciso profondamante sul pensiero nel Novecento, allora una riflessione a più largo raggio andrebbe prodotta. 
Il filosofo Carlo Sini non perde questa occasione e  ripercorre le tappe di quella "burrasca intellettuale" in una godibile intervista per dimostrare forse che "Il discepolo fedele è un ripetitore, ma ogni cosa ripetuta muore. L'eccesso di fedeltà produce un'imbalsamazione delle idee".

La frattura tra Martin Heidegger e Edmund Husserl riflette una divaricazione d'interessi, o un tradimento del primo nei confronti del secondo, che ha inciso profondamente su certe crisi del pensiero nel Novecento.
 Autore di un'opera significativa come Essere e tempo (1927), Heidegger fu allievo di Husserl, fondatore della fenomenologia. 
Questo termine può suonare misterioso alle orecchie dei digiuni di filosofia.

 Ma non c'è nulla di criptico nella storia della rottura che separò le sorti dei due filosofi: quel tradimento ha una portata la cui vastità tocca territori tutt'altro che specialistici, poiché è giunto a segnare con estrema concretezza lo sviluppo delle prospettive riguardanti il cambiamento del rapporto dell'uomo con la natura e il divorante espandersi della scienza e della tecnologia.

In questa serie di articoli sui traditori e le loro vittime, il contrasto tra Heidegger e Husserl, e l'onda lunga degli effetti che ne conseguirono sul pensiero del mondo manifestato dalla civiltà occidentale, ci vengono raccontati da uno dei massimi filosofi italiani, Carlo Sini, che ha insegnato per molti anni Filosofia Teoretica all'Università di Milano e che è un esperto riconosciuto dei due pensatori.

Perché Heidegger tradì il suo maestro Husserl?
«Sembra che a rompere i rapporti sia stato Husserl, sconcertato dall'adesione di Heidegger al nazismo. Vale comunque la pena di rammentare che Heidegger dedicò a Husserl Essere e tempo e glielo consegnò a Friburgo nel giorno del suo compleanno. Husserl, al momento, non lo aprì nemmeno. Lo fece tempo dopo, quand'era cresciuta la fama del suo allievo. E commentò che si trattava del suo stesso pensiero "ma senza fondamento". Lo considerò un tradimento della fenomenologia, che non fu mai abbandonata da Husserl ».

Può spiegare il termine "fenomenologia"?
«E' il tentativo di tornare alle "cose stesse", mettendo tra parentesi le teorie sulle quali abbiamo edificato i nostri saperi. Si vuole fare ritorno all'essere del mondo così come questo si manifesta, in modo genuino e primario, riesaminando, riosservando e ridescrivendo i fenomeni originali. Secondo Husserl dobbiamo aderire alle cose, non nasconderle, servendoci della lingua che ricostruisca una ragione descrittiva. Questa teoria ha plasmato diversi metodi d'approccio scientifico. Ad essa si è ispirata la fenomenologia psichiatrica, dove il paziente viene descritto così com'è, nel suo apparire, e la terapia trova il proprio motore nei dati immediati dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti ».

Qual era la posizione di Heidegger?
«Si convinse che un programma filosofico, pur apprezzabile, che avesse a fondamento l'immediatezza delle cose stesse, fosse già fallito a partire da Platone. Quella filosofia nata per il dominio del logos uccideva se stessa. Da qui la sua critica alla metafisica. Il tentativo fu perciò di ritrovare una verità della realtà in qualcosa che preceda la filosofia, e trovò quel qualcosa nella poesia. Nel "pensiero poetante", come amava ripetere. Non a caso lavorò molto su Rilke».

In che modo Heidegger, in principio, aderì alla fenomenologia?«Per molti versi vi restò ancorato fino all'ultimo. Negli anni Sessanta (Husserl era morto nel '38), Heidegger scrisse di considerarsi legato alla rivelazione fenomenologica, che doveva in gran parte a Husserl. Ma è grande il divario tra i due filosofi, a partire dalle rispettive formazioni. Heidegger proveniva da studi classici, mentre Husserl era un frutto delle scienze matematiche. I suoi riferimenti erano l'illuminismo e Cartesio: era un ebreo votato al culto della ragione. Heidegger invece prendeva le mosse da Aristotele, che arrivava a considerare un fenomenologo più profondo del suo maestro. In sostanza Heidegger è un romantico, e vede la modernità come un pericolo enorme che ha preteso di sostituirsi a Dio e d'impadronirsi della nal'India. Il suo è un pensiero genialmente reazionario».

Husserl, a sua volta, non ebbe forse un rapporto problematico con la modernità?«Sì. Nella sua ultima opera rimasta incompiuta, La crisi delle scienze europee, Husserl evoca i rischi della specializzazione scientifica, che può far perdere il senso della ragione umana e portare l'Europa a divenire un fenomeno meramente antropologico, come la Cina o Ciò che ha determinato la filosofia occidentale attraverso l'impresa della modernità, da Galileo a Cartesio, si mostra solo come volontà di potenza. Anche per Heidegger è necessario abbandonare la ragione devastatrice che rende la terra un deserto. Ma la divergenza dei due filosofi coincide con un'opposizione epocale. Per Husserl il nichilismo, cioè la caduta nella barbarie della scienza che ha perso l'unità del potere, diventa un impegno ulteriore per la ragione, da ricondurre ai suoi compiti veri, in quanto l'illuminismo ha promulgato una ragione incapace d'imporsi. Secondo Heidegger invece, lo svelamento di un essere enigmatico che si sottrae alla ragione occidentale rischia di gettarci nel "futuro della bomba atomica". L'uomo che si autoproclama signore della natura ha compiuto un sacrilegio nei confronti dell'essere, e ci sospinge verso la devastazione».

Heidegger è convinto che l'uomo, con un eccesso d'uso della scienza, abbia tradito il proprio ruolo nella vita?«Esatto. E legge l'avvio di tale tradimento nella filosofia platonica. Si comincia a scambiare l'essere delle origini con una sorta di entificazione, riducendo la rivelazione degli esseri a cose che si possono manovrare, misurare, produrre. Husserl e Heidegger concordano nel sostenere che ridurre l'ente alla sua misura matematica, come fa Galileo, è insufficiente. Però l'uno vuol scavare sotto e andare all'indietro, mentre l'altro si propone di scavare avanti e andare oltre. Heidegger aveva intuito una cosa non chiara a Husserl, e cioè la natura tecnologica della vita moderna: aveva compreso che la tecnica non è un'applicazione della scienza, ma che quest'ultima è una conseguenza della tecnica, laddove Husserl era ancora della vecchia idea che prima si fa la teoria e poi si costruisce la pratica. Per Heidegger il porre l'uomo al centro della natura e farne il suo legislatore è la tragedia dell'Occidente, mentre per Husserl la filosofia equivale alla ragione, che in fin dei conti genera la democrazia. Le correnti nazionalistiche, infatti, tradiscono questo modo di pensare».

Non a caso Heidegger aderì al nazismo.«Questa è stata una vergogna e una rovina per la filosofia. Un vero tradimento: uno dei più influenti filosofi del Novecento ha tradito l'essenza di libertà e umanità che la filosofia incarna. Husserl sosteneva che i filosofi sono i funzionari dell'umanità. Una visione democratico- illuministica intollerabile per Heidegger».

Ma Heidegger fu davvero nazista? Nella famosa intervista concessa allo Spiegel, "Ormai solo un Dio ci può salvare", prende le distanze dal nazismo.«Era un seguace del nazismo della prim'ora, un simpatizzante delle camicie brune. Da figlio di contadini, scorse nel nazismo delle origini una rivolta popolare che tornava alle forze della natura contro quelle che considerava le due degenerazioni della democrazia occidentale, cioè l'illuminismo e il marxismo. Ma quando ci fu "la notte dei lunghi coltelli" capì la pericolosità dell'hitlerismo. Resosi conto delle sue implicazioni, lo rinnegò e fu perseguitato per questo. L'anima nera di Heidegger fu la consorte Elfride, antiebraica e iscritta fin da giovane nei movimenti nazisti. E tanto per inseguire ancora il tema del tradimento, con una digressione in ambito privato, c'è da dire che Heidegger tradì molto sua moglie. Al di là della sua maschera di severa rispettabilità, il grande filosofo non solo visse una tormentata storia d'amore con la più illustre tra le sue allieve, Hanna Arendt, ma ebbe numerose relazioni clandestine».

La nozione di tradimento è frequentata dalla filosofia?«Lo è nella forma nobilitata e un po' idealistica del motto Amicus Plato sed magis amica Veritas.
Ovvero: inevitabile che il buon discepolo tradisca. Sono amico di Platone, ma la verità è più amica. Il discepolo fedele è un ripetitore, ma ogni cosa ripetuta muore. L'eccesso di fedeltà produce un'imbalsamazione delle idee».
                                                              Leonetta Bentivoglio









Fonte: La Repubblica

giovedì 29 agosto 2013

Martin Luther King e l'attualità del insegnamento:“I have a dream”




Esattamente 50 anni fa Martin Luther King 
teneva il suo celebre discorso sull’uguaglianza 
davanti al Lincoln Memorial (“I have a dream”). 
Il ricordo del premio Nobel Stiglitz: "Fu lui che 
mi spinse a studiare economia: nello strano 
mondo dell'economia allora dominante la 
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei 
lavoratori".



Ho avuto la fortuna di trovarmi tra la folla a 
Washington il giorno in cui il Reverendo 
Dottore Martin Luther King Jr. tenne il suo 
entusiasmante discorso “I Have a Dream”, il 28 
agosto 1963. Avevo vent’anni, appena 
diplomato al college e qualche settimana dopo 
avrei iniziato gli studi per la laurea in economia 
al Massachusetts Institute of Technology.


La sera prima della Marcia su Washington per il 
Lavoro e la Libertà ero stato ospite a casa di un 
compagno di college, figlio di Arthur J. 
Goldberg, giudice associato della Corte 
Suprema, che era impegnato a realizzare la 
giustizia economica. Chi avrebbe mai 
immaginato che, 50 anni dopo, quello stesso 
organo, allora apparentemente deciso a dar vita 
a un’America più giusta e aperta, sarebbe 
diventato lo strumento per mantenere le 
diseguaglianze: consentendo alle imprese di 
destinare somme pressoché illimitate al fine di 
influenzare le campagne politiche, dando a 
intendere che il retaggio della discriminazione 
elettorale non esiste più e limitando il diritto 
dei lavoratori e di altri ricorrenti a denunciare 
gli imprenditori e le società per cattiva 
condotta?

Il discorso di King evocò in me molte emozioni. 
Per quanto fossi giovane e con le spalle coperte, 
facevo parte di una generazione che si rendeva 
conto delle ingiustizie ereditate dal passato e si 
impegnava a correggere quei torti. Nato 
durante la seconda guerra mondiale, sono 
diventato adulto mentre la società americana 
era pervasa da cambiamenti poco appariscenti 
ma inequivocabili.

In qualità di presidente del consiglio degli 
studenti dell’Amherst College, avevo condotto 
un gruppo di alunni a sud per partecipare alle 
manifestazioni di pressione a favore 
dell’integrazione razziale. Non riuscivamo a 
capire la violenza di chi voleva mantenere il 
vecchio sistema di segregazione. La visita ad un 
college riservato ai neri ci aprì gli occhi sulla 
disparità di opportunità educative degli 
studenti di laggiù rispetto a quelle di cui 
godevamo noi, nel nostro college privilegiato. 
Era come giocare su un campo mal livellato, ed 
era fondamentalmente ingiusto. Si trattava di 
un camuffamento dell’idea di sogno americano 
con cui eravamo cresciuti e in cui credevamo.

Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa 
per risolvere questi ed altri problemi, così 
familiari a uno come me cresciuto a Gary, 
nell’Indiana (povertà, disoccupazione 
temporanea e permanente, discriminazioni 
senza fine ai danni degli afroamericani) che 
decisi di diventare un economista.

Ben presto scoprii di essere entrato in una 
strana tribù. Erano pochi gli accademici (inclusi 
parecchi dei miei insegnanti) che avevano 
profondamente a cuore le tematiche che mi 
avevano condotto a questa scelta, la maggior 
parte non si preoccupava delle diseguaglianze; 
la scuola dominante idolatrava (senza averlo 
compreso ) Adam Smith, inchinandosi al 
miracolo dell’efficienza dell’economia di 
mercato. Io pensavo che se quello era il 
migliore dei mondi possibili volevo costruire un 
mondo diverso in cui vivere.

Nello strano mondo dell’economia la 
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei 
lavoratori. Un economista della scuola di 

Chicago , il premio Nobel Robert E. Lucas Jr., 
avrebbe scritto in seguito: «Tra le tendenze che 
nuocciono ad un’economia sana la più seduttiva 
e, a mio avviso, la più velenosa, è concentrarsi 
sul problema della distribuzione». Un altro 
premio Nobel della scuola di Chicago, Gary S. 
Becker, tentava di dimostrare che sui mercati 
del lavoro realmente competitivi la 
discriminazione non poteva esistere. Mentre io 
ed altri scrivevamo pubblicazioni per spiegare i 
sofismi di queste argomentazioni la sua tesi 
trovava orecchie attente.

Come tanti altri, guardando ai 50 anni passati, 
non posso che essere colpito dal divario tra le 
nostre aspirazioni di allora e i risultati ottenuti.
È vero, un “soffitto di vetro” è stato infranto: 
abbiamo un presidente afroamericano.
Ma King capì che la lotta per la giustizia sociale 
doveva essere concepita in termini ampi. Non 
era solo una battaglia contro la segregazione 
razziale, ma per una maggiore eguaglianza e 
giustizia per tutti gli americani. Non per nulla 
gli organizzatori, Bayard Rustin e A. Philip 
Randolph, avevano dato alla manifestazione il 
nome di “Marcia su Washington per il Lavoro e 
la Libertà”.

Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti 
razziali era stato minato, persino rovesciato, dal 
crescere della disparità economica nell’intero 
Paese.
La battaglia contro la discriminazione esplicita, 
purtroppo, è tutt’altro che terminata: a 50 anni 
di distanza dalla Marcia e 45 anni dopo 
l’approvazione del Fair Housing Act (che 
proibisce la discriminazione nella vendita, 
affitto e finanziamento di alloggi ndt) le grandi 
banche statunitensi, come la Wells Fargo, 
continuano ad attuare discriminazioni in base 
alla razza, prendendo di mira nelle loro 
predatorie attività di finanziamento i più 
vulnerabili dei nostri concittadini. La 
discriminazione sul mercato del lavoro è 
permeante e profonda.

Dagli studi emerge che i candidati con nomi che 
evocano origini afroamericane ricevono un 
numero minore di convocazioni a colloqui. La 
discriminazione assume nuove forme; in molte 
città americane le forze dell’ordine agiscono 
ancora in base a pregiudizi razziali, ad esempio 
con fermi e perquisizioni, che a New York sono 
diventati la regola. Il tasso di detenzione in 
America è il maggiore del mondo, anche se 
finalmente pare che gli Stati a corto di fondi 
inizino a capire quanto sia folle, se non 
inumano, sprecare tanto capitale umano 
attraverso la detenzione di massa. Quasi il 40 
per cento dei detenuti sono neri. Questa 
tragedia è stata validamente documentata da 
Michelle Alexander ed altri giuristi.

I numeri parlano da soli: non è stato colmato 
significativamente il divario tra il reddito degli 
afroamericani (o ispanici) e quello degli 
americani bianchi negli ultimi 30 anni. Nel 
2011, il reddito medio delle famiglie nere era di 
40,495 dollari, pari al solo 58 percento del 
reddito medio delle famiglie bianche.

Passando dal reddito al patrimonio si riscontra 
ancora una forte ineguaglianza. Arrivati al 2009 
la ricchezza media dei bianchi era venti volte 
superiore a quella dei neri. La Grande 
recessione del 2007-9 ha colpito 
particolarmente gli afroamericani (come 
avviene in genere per chi si trova al livello più 
basso della scala sociale). Tra il 2005 e il 2009 
la loro ricchezza media è diminuita del 53 per 
cento, più del triplo rispetto a quella dei 
bianchi: un divario record. Ma la cosiddetta 
ripresa è stata poco più di una chimera: più del 
100 per cento dei guadagni è andato all’un per 
cento al vertice della scala sociale, un gruppo in 
cui, inutile dirlo, non si annoverano molti 
afroamericani.

Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se 
non fosse stata interrotta bruscamente dal 
proiettile di un assassino. Trentanovenne al 
momento della morte, oggi avrebbe 84 anni. 
Probabilmente avrebbe approvato i tentativi del 
presidente Obama di riformare la sanità 
americana e di tutelare la sicurezza sociale per 
gli anziani, i poveri e i disabili, ma è difficile 
immaginare che un uomo di tale statura morale 
avrebbe guardato all’America di oggi con un 
atteggiamento che non fosse di angoscia.

Al di là della retorica sul Paese delle 
opportunità, le prospettive di un giovane 
americano dipendono più dal reddito e dal 
livello di istruzione dei suoi genitori di quanto 
non avvenga in quasi tutti gli altri Paesi 
avanzati. Così il retaggio di discriminazione e 
mancanza di opportunità educative e lavorative 
si perpetua da una generazione all’altra.
Data questa carenza di mobilità, il fatto che 
ancora oggi il 65 per cento dei bambini 
afroamericani viva in famiglie a basso reddito 
non fa presagire bene per il loro futuro e quello 
della nazione.
Gli uomini con il solo diploma di scuola 
superiore hanno visto diminuire enormemente 
il loro reddito reale negli ultimi vent’anni, un 
declino che ha interessato a dismisura gli 
afroamericani.

La segregazione esplicita su base razziale nelle 
scuole è proibita dalla legge ma in realtà la 
segregazione nell’istruzione si è accentuata 
negli ultimi decenni, come hanno documentato 
Gary Orfield ed altri studiosi.
In parte il motivo è che il Paese registra una 
maggior segregazione economica. E più 
probabile che i bambini neri poveri vivano in 
comunità in cui la povertà è concentrata. 
Stando ai dati forniti dall’Economic Policy 
Institute sono circa il 45% , contro il 12% dei 
bambini poveri bianchi.

Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte 
della mia attività accademica e pubblica negli 
ultimi decenni – incluso il servizio presso il 
Consiglio dei consulenti economici 
dell’amministrazione Clinton e, in seguito, 
presso la Banca Mondiale, è stata dedicata alla 
riduzione della povertà e dell’ineguaglianza. 
Spero di aver saputo rispondere all’appello 
lanciato da King mezzo secolo fa.
King aveva ragione quando diceva che il 
persistere di queste discrepanze è un cancro 
nella nostra società, mina la nostra democrazia 
e indebolisce la nostra economia. Il suo 
messaggio era che le ingiustizie del passato si 
potevano evitare. Ma sapeva anche che sognare 
non bastava.

                               Joseph Stiglitz



Fonte: da Repubblica




 © The New York Times 2013 (Traduzione di 
Emilia Benghi)

giovedì 22 agosto 2013

Contro la Pusillanimità: per Superare i Distopici Contorcimenti



Che la suadente forma della politica potesse assumere forme neglette, non è un’affermazione originale, sebbene certa politica sia stata in grado di far dismettere a molti di noi il gusto del divertimento, della partecipazione e di ogni più fulgida immaginazione ottimistica per le sorti della cittadina acrese.

Il pianto lugubre e desueto, così come i toni cupi e ricattatori, o talvolta quelli canzonatori e cabarettistici del locale consiglio comunale, sono per tutti uno scenario politico apocalittico e surrettizio, verso cui – nostro malgrado- siamo tutti capaci di proiettare frustrazioni politiche e preoccupazioni socio economiche più o meno realistiche e concrete.

Non è per nulla difficile manifestare sconcerto per l’attuale situazione politica del nostro paese, sicuri come siamo che il grave momento storico continuerà a pesare senza troppe indulgenze sul quadro complessivo della nostra stessa civile convivenza.

Non sono certa si possa racchiudere l’immagine del consiglio comunale acrese solo con quella del tracollo o della paralisi; magari più propriamente con quella dell’implosione o del rigor mortis. Poiché ciascuna di queste immagini è comunque del tutto inefficace e poco rappresentativa della realtà in atto.

Da mesi infatti siamo più soliti assistere a forme di teatro di figura, in cui c’è spazio sempre e solo per i soliti figuri più o meno sinceri, gli stessi volti le stesse parole, con poche misere e meschine idee per la testa, qualche considerazione di facciata e l’abisso impetuoso di chi ha scavato un solco profondissimo tra la necessità di adempiere al proprio ruolo pubblico, ed il bisogno di una efficace sensata funzione politica.

Sembra uno stallo incontrovertibile, in cui la politica locale come quella nazionale, è manifestata con tutta evidenza, in forme alquanto consuete e per nulla dabbene.

Si obietterà che poichè un risultato elettorale è pur sempre un risultato; ciò che conta è sempre il merito, delle azioni politiche da giudicare; tuttavia oltre le distanze e/o le pseudo differenze, restano comunque le “scelte” cioè quei risultati che in politica contano più di ogni altra cosa.

I “bilanci politici” che il buon senso dovrebbe indurre a produrre per lo più franchi e veritieri, non sempre infatti sono in grado di compiere severe e dignitose rappresentazioni dei segni tracciati nella locale storia – se non in propria discolpa. 

È vero sulla realtà effettiva o percepita, contano sempre i
risultati; forse poco più delle affermazioni contano, al di sopra di ogni altra cosa sempre ed in ogni caso i risultati prodotti.

La storia è noto la scrive chi vince, ma i vinti possono comunque tentare di ascrivere sempre un’altra di storia - la loro – per poi far decidere solo ai posteri “l’ardua sentenza,” del proprio valore.

La costellazione sintomatica di “contorcimenti” quella cioè che ha fatto risaltare alle luci della ribalta cittadina personalità politiche di spicco della locale società acrese, in un ping pong talvolta stucchevole e francamente invadente; ci ha infatti travolti e in alcuni casi anestetizzati tutti.

Non sono più in uso ormai da tempo, dibattiti politici o pubblici incontri, nei quali parlar di Politica con la Gente e non di personalistiche elucubrazioni! 

Accade infatti con una certa frequenza, che anziché farci assistere a sensate analisi di merito e sostanza politica; a confronti di spessore culturale, ideale e/o presunto -non importa se pragmatici o tecnicistici– si palesi altresì con inequivocabile merito o demerito, con toni e livelli per lo meno discutibili, la “derubricazione” di attività di pura facciata e di non efficace funzione politica specifica.

Continuiamo ad assistere -anche nell’ultima seduta consiliare- alla misura dalla noia e dalla delusione più infima, oltre che al preoccupante livello della febbre politica, che andrebbe altresì attenzionata in una civica sorveglianza da parte di ciascun cittadino acrese, non fosse altro che per difendere noi stessi dai nostri errori e dalle ubriacature.

Si colgono squallore e irriverente impudenza con conclamata impreparazione, di cui non è causa solo l’inesperienza, bensì l’incapacità dell’adempimento delle proprie funzioni, che rappresenta una pericolosa minaccia ai complessivi livelli politici.

Come cittadina mi sento offesa tutte le volte che è denigrata e vilipesa la mia intelligenza politica e culturale, che insulta me, la mia città e la sua storia politica e culturale.

Le vicende di reali o presunte incompatibilità con altre cariche degli enti locali o di amministrazioni ed incarichi, sono solo l’ultimo schiaffo in viso, che come cittadini stiamo ricevendo tutti, da mesi inermi.

Una sberla a ciascuno di noi che inchioda ciascun amministratore alle proprie responsabilità.

È scaduto complessivamente il livello delle conversazioni politiche (che dubito finanche continui a svolgersi nelle sezioni dei malconci partiti e dei movimenti).

 La desolazione politica più imperitura ci getta sconsolati nella maledizione più cupa, di non poter aspirare a miglior livello, almeno in tempi recenti e brevi, se non si paleseranno con evidente impegno e buona volontà in chi è chiamato al proprio ruolo ed alla sua funzione, a un diverso contributo sul merito.

In verità molti di noi credevano già di aver toccato il fondo nella passata storia politica recente, ma con ogni evidenza a ben altro inferno eravamo destinati, dal momento che a vario titolo certa politica locale insensata e ancora sempre più autolesionista, ci condannava a vivere meschinamente, come nelle recenti crisi di separazione e comunione del nostro martoriato paese.

Là dove si è realizzato l’irrealizzabile un punto fermo è stato posto con un misto di confusione culturale, guerriglia generazionale, incapactà di sedimentazione genealogica, ”rottamazione” ovvero godimento nell’eliminazione ad personam di tracce personali e storiche. 

Quasi senza colpo ferire, tutto si è consumato nella più comune delle normalità cancerose.

Se ci fosse dato di poter beneficiare di un esecutivo legittimato e autorevole, e di una guida efficace e capace, in grado cioè di trascinare fuori dal guado la città, e noi cittadini, sapremmo certamente restare calmi e pazienti.

 Ma per ora ci è data solo la sospensione di quel giudizio politico, che inesorabile è sempre destinato a sopraggiungere.

Per ora ci pare che tutto si consumi nella immorale consuetudine di rendere tutto più poltiglia di quella che c’è già; strapazzando la forma, ma per nulla i contenuti.

Ho sempre creduto -sbagliando- che per essere credibili politicamente, bisognasse essere autorevoli, e che non bastassero le mostrine, né le primogeniture a renderne la misura, ma piuttosto occorressero evidenti inequivocabili capacità di merito (preferibilmente al di sopra della media) talvolta meschinamente “tradite” o confuse con altre verità incontrovertibili, quelle che anche se non oggettivamente rappresentate cioè con lucida onestà intellettuale, hanno tradito prima la morale e poi l’etica sia personale che collettiva di certi presunti pseudo politici.

A quale scandalo abbiamo gridato se per intere generazioni di sempreverdi dirigenti di partito di ogni coloritura politica, siamo stati allevati a quest’ultima categoria di personale politico?

Ciascuno possiede un proprio archivio della storia e della memoria -recente o passata- nel quale riconoscere o ripescare il proprio politico “peggiore” non senza qualche fantasma nel proprio magnifico repertorio politico. 

Trattasi di verità altre, che soggettivano piuttosto che oggettivizzare il finale della comune storia politica.

La quale Storia malgrado occorrano parecchi racconti oggettivi per restituirla ad una storia più plausibile e veritiera - salvo che per i fondamentalisti - non è mai una Storia dei partiti con la maiuscola in senso lato; ma piuttosto la
Storia di personaggi che in viso alla politica, hanno avuto in animo più la propria ambizione che altro.

 Generazioni di politici “fortunati” – queste - che hanno saputo distorcere a proprio esclusivo vantaggio quel bene comune di tutti, confondendolo con l’interesse di qualche specifico qualcuno o qualcosa.

Ma in un tempo pàrco di illusioni, solo pochi illusionisti continuano a stupirsi di meraviglia e a tentar di tirar su la propria morale politica, pudica e immacolata.

Pur tuttavia Certe verità politiche bisognerebbe finalmente avere il coraggio di smettere di sottacere; utilizzando le parole e le idée contro i silenzi o la banalizzazione.

Le verità politiche dovrebbero altresì essere rappresentate in tutta la loro integrità, non attraverso un racconto eroico di uno scontro politico che si vuole epico, del quale nel tempo Non resterà nè traccia nè spessore, se incagliato in queste derive.

Poichè – è cosa nota- che il gioco politico delle pedine bianche o delle pedine nere non è collettivo, ma individuale, destinato cioè ad esaurirsi non anzi tempo, se asservito a logore e sempre identiche logiche di Potere. 

Verso le quali ognuno manifesta già la propria consolidata intolleranza.

Nel gioco e forse anche in politica – è cosa nota- che i risultati non dovrebbero essere mai certi a meno che si bari, e quando accade -almeno in politica- si è scelto di rigettare qualsivoglia genere di “forzatura politicaper buona pace di quanti aborrono di Non intender sconvolgere certi equilibri certamente vantaggiosi più di altri.

Favorire lo status quo in molti dimostrabili casi, coadiuva gli oscuri meccanismi garanti dei tatticismi, come mera esibizione muscolare di forza e di potere, che si spera non rappresenti anche, lo stile politico agli attuali tempi recenti.

In fondo viviamo in un paese in cui l’idea del merito è inconsistente per i meritevoli di opportunità.

 Intere generazioni di giovani traditi dalla politica, gabbati dalla mediocrità assolutistica, deflagrati in schegge politiche, talvolta disperate e raminghe, in cerca taluni della loro propria identità politica, ormai disorientata e smarrita a vari livelli.

In molti, giovani o vecchi politici, tentano di elaborare “azioni” - attraverso manovre associative/dissociative del tipo << io ci sto;, io non ci sto; io mi stacco; io mi riattacco....>> 

Tutti con la recondita speranza di ritagliarsi più che un proprio ruolo di visibilità, una partecipazione politica che li leggittimi finalmente come degni del loro stesso valore, nella comunità sia politica o culturale; che altro non attende se non la radicalità progressista e il reale cambiamento nell’innovazione.

Taluno però sceglie sempre ciò che è più conveniente e sempre più vantaggioso; conviene dopo tanti lustri non rinunciare a certe comodità acquisite, per povera virtù e ampia abnegazione, piuttosto che per zelante scrupolo, di rendere ereditario ciò che non lo è ma che potrebbe esser trasformato.

Avremmo preferito ben altro spirito condottiero, capace come lo è di responsabilizzare al giudizio ed alla cura. 

Che non lesinasse magari coraggio e spirito di parte, emulando sacrificio, e forse Esempio per Educare alle Pubbliche Virtù.

 Per ricomporre quanto è messo in crisi dalle difficoltà, per dar rilevo alle Poliche Virtù e promuovere magari più consistenza.

 Per corroborare un movimento di idée politiche e di cultura, che fosse forte e più autorevole a comprendere il tempo presente e tanto più a palesare l’incapacità di immaginarne gli esiti del tempo futuro che incalza già imminente.

Prepotentemente la viltà assale anche le migliori menti poliche quelle che avevano pur offerto un sogno, venduto sia pure a costi elevatissimi.

La rabbia perciò assale impetuosa tanti di noi; a cui la “fregatura” di assistere inerme alla lenta inesorabile agonia della politica, proprio non va giù.

Poichè il vero problema di troppa cecità politica è certo l’aborto dell’inespressa Rivoluzione Morale, tanto auspicata da chi impegnandosi nella campagna elettorale appena archiviata, ha saputo piuttosto smentire il suo patto col proprio elettorato, disattendendo all’impegno assunto con un ruolo ed una funzione specifica che è altro da quella meramente politica.

Auspico perciò un coinvolgimento della comunità a tutto tondo, illuminato dal faro del buon senso e dall’opportuno criticismo.

 Un’azione radicale e sconvolgente, che comprenda finalmente che Senza una rivoluzione morale nessun progetto potrà davvero presentarsi come nuovo e capace di far da leva per la trasformazione dello stato presente delle cose.

Gli epici recenti scontri politici, sono i più cruenti e squallidi a mia ormai consolidata memoria storica recente.

 Si sono determinate spaccature e divisioni incontrovertibili e ingiustificate. 

Pare aver prevalso la visione manichea medievalizzante, che malgrado ogni pur ottimistica previsione, è incapace di fare intravvedere alcun bene per qualsivoglia azione politica di opposizione o di governo.

Varrebbe perciò la pena che i partiti o i movimenti in seno al consiglio cittadino acrese, offrissero qualche dato o elemento in più, sul quale impegnarsi a dibattere e a confrontarsi; anche con la città che è in ascolto e comprende. 

Poichè avvertiamo tutti un incontrovertibile bisogno di dialogo e di sensata circolazione di idée, in un confronto civile, appassionato e poco ostile al buon senso, al criticismo ed al giudizio.

Come cittadina sono stufa di un dibattimento asfittico e autoreferenziale. Mi reputo offesa ed indignata di tanta irriverente protèrvia. 

Tutti avvertiamo la necessità urgente di una prospettiva di contenuti, di occasioni politiche intelligenti e per questo preziose.

Sono certa di non esagerare parlando di sfacelo della elaborazione politica; e della necessità di ricostruire – con urgenza- soggetti politici in grado di rappresentare in modo ampio e realistico i sentimenti politici dominanti e minoritari dell’elettorato della città di Acri.

Urgono normalità e ordinarietà accurate e civili, nella quale non rappresenti un rischio, partorire anche i soliti topolini pure più forti di sempre...

Senza timore di smentita è indubbio che si è determinato un esaurimento storico di un intero e complessivo quadro politico, che finalmente urge dichiarare definitivamente archiviato e superato; anche quello fatto di bandiere non importa se rosse, multicolori, e monocolori; di canzoni simbolo; di Numi tutelari; di Eroi del nostro tempo.

Non si tratterà solo di destituire semplicemente l’apparato simbolico di quel quadro politico, fatto di ideali, di visioni del mondo vissuti e condivisi soggettivamente e talvolta collettivamente; ma si tratta invece di riuscire a tracciare un Nuovo percorso da percorrere Insieme, per concorrere a risanare il totale “scollamento” tra la realtà vissuta e quella percepita, ed il senso stesso del Nostro dover fare Politica; La politica vera, quella autentica e sincera, non quella del gioco delle parti. 

Si tratterà per tanti di iniziare a guardare con gli stessi occhi della città - i nostri - l’acutezza della deriva dalla nostra recente situazione, per elaborare altro.

Il vero collante ideale del quale il consiglio comunale acrese dovrebbe dotarsi - che i più sembrano voler continuare ad ignorare, spinti dalla passione per la cagnara che all’unisono si leva da ogni scranno - non è certo il Populismo, l’ antipolitica, la demagogia o il criptofascimo, nè la faciloneria, che non dovrebbero regnare sovrani.

Abbiamo bisogno che ciascun esponente politico del nostro civico consesso si riappropriasse di valori che non sono né di destra, né di sinistra, ma sono piuttosto i “sacri valori della politica autentica”: l’onestà, la democrazia, la partecipazione, il bene comune, il dialogo, la coerenza; ai quali riferirsi in una prassi conforme senza infingimenti nè di tatticismi, nè machiavellismi di qualsivoglia genere.

Se è vero, come è vero che la città ha estremo bisogno di istanze progressiste, è ancor più vero che tale governo cittadino deve mostrarsi capace di essere all’altezza dei propri compiti istituzionali e di governo.

Non possiamo più far conto sulla suggestione simbolica evocata per altro impropriamente, (sgrammaticata e ridicola); nè su quella piuttosto vile e
grottesca, che altresì ne ignora compiti e funzioni e magari offende e denigra con faciloneria.

Esiste una dimensione soggettiva della politica; ma quando si sostenengono gli equilibri della politica, non deve esservi affatto alcun movente sospetto che non sia nè solo quello della condivisione o dei sentimenti di una sola parte, nè quello che induce a smarrire la ragionevolezza da entrambe.

Trovare necessario e produttivo dar voce alle istanze ed ai nuovi valori, privi di adeguate e opportune elaborazioni, non serve a nulla.

Per realizzare il primo lavoro di ricostruttori della politica complessiva, occorre passare innanzitutto attraverso il buonsenso comune e poi dal libero affrancamento dal pregiudizio delle parti.

Allora adesso la misura è colma: Non ne possiamo più! Perché troppe delle vostre parole appaiono logore, troppi dei vostri ideali sgualciti come delle vecchie bandiere.

Se coerenza, onestà, moralità non diventeranno i nostri/VOSTRI ideali, cioè gli ideali di TUTTI, a cosa serve evocare lo spirito della politica migliore? 

Se non siete in grado di farne pratica consueta e stile di questa vostra politica?

Questa è l’idealità progressista di normalità che sanamente desideriamo neutra, magari “incolore” possibilmente pandemica...

Una cosa è certa: la ricostruzione passa inevitabilmente attraverso l’accettazione di gran parte delle istanze di cui oggi in troppi si dicono pratici solo a parole; e magari anche gli indegni ed inesperti, potrebbero finalmente mettersi al lavoro e provare a produrre azioni politiche!

Noi cittadini non aspettiamo che questo – guadagnatevi o forse sarebbe meglio dire “sudatevi” il vostro ruolo pubblico e politico.

                                                           Angela Maria Spina