lunedì 30 maggio 2011

Ermeneutica del Valore: Note a Margine sulle Utopie Distopiche (parte 1)

Accanto al genere filosofico dell'Utopia descrizione della società felice e perfetta,  la migliore possibile, nel nostro secolo è nato il genere letterario della Distopia che presenta i suoi caratteri non più nel sogno ma nell'incubo della peggiore società possibile. 

Dall'osservazione complessiva ne consegue che le distopie riproducono molti tratti delle utopie, tanto che  si potrebbe concludere che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita perversità. 

Ma il rapporto è più complesso di quanto non appaia: se l'utopia descrive una società senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale, totalmente fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le esamina nelle loro ultime conseguenze. 

In entrambi i casi, si tratta comunque di invitare alla Progettazione di un mondo Migliore.
Il complesso intreccio che lega l'utopia alla distopia mi appare quindi come un tema intrigante.
 Come una mano disegna l'altra in un vortice senza fine dando origine a un tutto indivisibile, allo stesso modo l'immagine della città nuova vagheggiata dagli utopisti si unisce alla narrazione della società perversa, rappresentata dalla distopia, componendosi nel medesimo slancio, ovvero nella denuncia di una realtà avvertita come dolorosa e oppressiva, sollecita a porvi rimedio attraverso l'esercizio della razionalità.

Questa finalità ideale è facile da ravvisare nelle celebri utopie della storia della filosofia, purché non si commetta l'errore di proiettare su di esse categorie anacronistiche.

 Ciò è particolarmente vero per la Repubblica di Platone, animata dall'ideale della giustizia; per la Città del Sole di Campanella, che vuole combattere l'ineguaglianza e la povertà; per l'Utopia di More, che propone l'idea delle felicità individuale contro l'arbitrio dei potenti. 

Tutte le distopie o qualcosa di simile ad esse del nostro secolo, potrebbero avere  dunque,  una comune origine nella leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij.
 In essa viene sostenuta l'antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente per l'uomo un peso insopportabile, che  solo un potere assoluto e autoritario è in grado di contrastare, portando gli uomini alla felicità. 

QuestoTema è infatti ripreso dalla letteratura in forme diverse, da tre romanzi che a ragione possiamo definire con molti critici  <<Romanzi Distopici>> stiamo parlando di:  <<Noi>> di Evgenij Zamjatin che sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della felicità. 

De <<Il Mondo Nuovo>> del 1932 di Aldous Huxley, che presenta un totalitarismo fondato sul controllo tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione.

De il <<1984>> George Orwellil cui bersaglio polemico è l'universo totalitario e i pericoli derivanti da un uso distorto della scienza e della tecnologia, che costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell'affermazione di una crudeltà totalmente fine a sé stessa.

Nell'utopia, ovvero nel non luogo fisico, talvolta per nulla geograficamente definito, luogo buono della felice ambiguità del neologismo voluto da Thomas More, diventa il progetto di un società giusta e solidale. 


Nella distopia, invece ovvero nel luogo cattivo, che  si presenta come il modello di un società distorta e malvagia, qualcosa di diverso viene messo in atto.


In entrambe appare interessante indagare da vicino: Quali rapporti legano l'una all'altra? 
  La distopia, disvelamento del carattere perverso, costituisce davvero ciò che si annida nelle utopie: ovvero gli incubi più ricorrenti e comuni dalla cui realizzazione l'antiutopista desidera mettersi in guardia? 
Le promesse utopiche di una Città Rinnovata, Razionale e Beata mascherano in realtà meccanismi perversi per l'individuo e la collettivà?
 Aldous Huxley attraverso le parole di Berdjaev si esprimeva così:
 << Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? (...).  Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. 
E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d'evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno «perfetta» e più libera>>
                             Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Milano 1989, p. 19.

Sono giustificati quindi questi timori delle istanze avanzati dai fautori dell'utopia?
 Ad un'attenta osservazione, parrebbe che, l'idea di Utopia porti in sé al tempo stesso la Distopia; e come se questa, altro non facesse che proclamare l'urgenza di porre fine alla Progettazione Utopica, avvertita come nefasta per il bene dell'umanità, ovvero non corroborata.


Tale convinzione nasce evidentemente  dalla constatazione che i livelli sui quali il discorso utopico e distopico si instaurano e da cui muovono la propria critica, sono profondamente eterogenei.
Mentre l'utopia classica si sviluppa operando una cesura incolmabile tra la storia reale e lo spazio riservato alla progettazione utopica  - la scoperta di un territorio lontanissimo, sinora ignorato, nei resoconti sia di More, che di Campanellla nonché di altri filosofi, diviene così il simbolo di una frattura non solo geografica, ma soprattutto storica - la Distopia intende così collocarsi in continuità con il processo storico amplificando e rendendo tangibili quelle tendenze negative operanti nel presente che, non ostacolate, potrebbero condurre, quasi ineluttabilmente, alle società perverse da essa tratteggiate al fine di denunciarne i pericoli per lo sviluppo della civiltà umana.
 Dissimile risulta pertanto la prospettiva da cui gli autori dell'una e dell'altra edificano le loro costruzioni.
Nell'Utopia la società culturale e politica quale si è venuta configurando storicamente, è assunta dalla riflessione esclusivamente per essere superata attraverso l'immagine della Città ideale, la quale, una volta instaurata, le si sovrappone normativamente.
 In tal senso è esemplare l'adozione da parte di molti utopisti del racconto, i quali narrano di un viaggio avventuroso che conduce il narratore ad approdare in una terra sconosciuta. 
Tale presenza riveste nell'utopia un ruolo fondamentale: segna quella frattura spazio-temporale che permette l'esistenza stessa della rappresentazione utopica.
 Il lungo percorso permette al narratore di lasciare dietro di sé la propria esperienza sociale, politica, religiosa, economica per giungere in un mondo il cui isolamento geografico e conseguentemente storico e culturale ha dato vita a istituzioni, costumi che nulla hanno in comune con la realtà da cui il viaggiatore si è distaccato. 
Siamo così posti di fronte ad una società radicalmente diversa; ma tale differenziazione nell'utopia diventa contrapposizione speculare: alla struttura negativa dell'organizzazione umana esistente si sovrappone quella benefica della Città Nuova immaginata. 
In tal maniera, l'utopista cerca di superare la realtà contingente proponendo come sua alternativa una società perfetta in quanto razionalmente fondata.
Al contrario, nella distopia la realtà non soltanto si accoglie quale che sia, ma le sue attitudini e tendenze negative, sviluppate e ingigantite, forniscono il materiale con il quale edificare la struttura di un mondo distorto. 
Insomma, è proprio la varietà dell'assunzione della dimensione storica a determinare il diverso atteggiamento dell'utopia e della distopia: il luogo felice vagheggiato, è realmente un non luogo nel senso che esso non si colloca spazialmente nella storia, quale che chi scrive si trova a vivere; pur se vi rimanda come attraverso un gioco di specchi; appunto perché ciò a cui mira l'utopista è «mostrare» agli uomini l'immagine di un mondo beato e razionale, in virtù del quale essi si sentano spinti ad imprimere energicamente alla storia uno svolgimento diverso da quello a cui invece l'inerzia avrebbe condotto. 
Diversamente lo scrittore di distopie presenta la propria costruzione ideale come il risultato, più o meno vicino nel tempo, di strutture, condizioni già insidiatesi nella società contemporanea; di conseguenza la descrizione puntuale e minuziosa del «luogo cattivo» rivela come suo intento principale quello di indurre il lettore a stabilire un rapporto di filiazione, di causalità tra il mondo reale e quello rappresentato nella creazione letteraria, in qualità di suo effetto. 
Tutto ciò per concretare  nell'individuo l'urgenza di mutare quelle strutture e quegli atteggiamenti che, altrimenti lasciati liberi di attecchire e proliferare, consegnerebbero l'umanità ad uno scenario infernale.
La distopia determina quindi il suo campo d'azione nella rappresentazione degli aspetti che la società assumerebbe se continuasse a percorrere la via intrapresa, mentre il discorso utopico adempie la sua vocazione se tende, attraverso il paradigma della Città felice e giusta, a elevare gli animi verso mete più luminose, orientando l'immaginario sociale in direzione di idee-forza in grado di fecondare l'azione spingendola ad individuare processi alternativi, razionalmente fondati, come risposta ad una situazione storica avvertita come dolorosa.
Tuttavia la constatazione della diversità dei procedimenti narrativi messi in atto, dei differenti moduli espressivi adottati dagli autori dell'uno e dell'altro genere non conducono assolutamente il lettore in direzioni opposte e contraddittorie, in quanto il fine, il messaggio che è a fondamento delle loro opere è il medesimo; in ambedue i casi il paragone con la realtà effettuale, seppur attraverso modalità diverse, rivela l'intento di spronare gli uomini a mutare e migliorare le condizioni storiche esistenti: l'utopia con l'immagine della Città ideale a cui tendere e la distopia con il modello della società deviata da cui fuggire.
 Pertanto l'utopia si pone di fronte alla distopia carica della sua forza normativa ed è al contempo da essa richiamata prepotentemente, poiché  la distopia, con la vivacità della sue rappresentazioni, induce nel lettore la consapevolezza dell'urgenza di ispirare il proprio pensiero e la propria azione ad un paradigma ideale, risultato dell'esercizio razionale e della riflessione umana, in grado di deviare il corso della storia che, altrimenti immutato, avrebbe come esito la situazione delineata dagli antiutopisti.
In definitiva mi sembra che il vero pericolo che si prospetti all'umanità, lungi dall'essere rappresentato dalla realizzazione delle utopie, risieda invece proprio nella mancata capacità dell'uomo di proporre percorsi «altri» rispetto a quelli esistenti, capaci di mirare effettivamente ad una società giusta e fraterna. 
Pertanto ritengo auspicabile considerare, come scrive Lewis Mumford, che l'Utopia come l'altra metà della storia dell'uomo:
<< Per lungo tempo utopia è stato un altro nome per definire l'irreale e l'impossibile. Noi l'abbiamo posta in antitesi al mondo; in realtà sono le nostre utopie che ci rendono il mondo tollerabile: sono le città e gli edifici che la gente sogna, quelli in cui finalmente vivrà. Più gli uomini reagiscono alla propria condizione e la trasformano secondo modelli umani, tanto più intensamente vivono nell'utopia. (...) L'uomo cammina con i piedi in terra e la testa in aria; e la storia di ciò che è accaduto sulla terra (...) è solo una metà della storia dell'uomo
                             Lewis Mumford, Storia dell'utopia, Bologna 1968, pp. 9-10.


Il convincimento che la distopia annunci la necessità di porre fine alla costruzione utopica credo sia stato il frutto di paragoni superficiali tra luoghi simili ricorrenti sia nella produzione utopica classica che nella distopia contemporanea quali, ad esempio, l'educazione pianificata, la riduzione o l'abolizione del ruolo della famiglia, l'egualitarismo, la ricerca dell'uniformità negli orari che scandiscono la quotidianità e nel vestiario, l'influenza capillare del potere sociale e politico. 
Tutto quello che genera in qualunque modo una sorta di conclusione è in ultima analisi ciò che il totalitarismo rappresenta attraverso il carattere specifico dell'antiutopia contemporanea, quale effettivamente è.
 I suoi tratti perciò sono rintracciabili pienamente nell'utopia classica, accusata anche essa di essere totalitaria.
Il vizio concettuale è forse rintracciabile nell'operare una netta separazione tra l'analisi dei mezzi impiegati dall'utopista per realizzare la sua Città nuova, e la finalità ideale che esso si propone; ispirandolo a realizzare così, un paragone che si rivela non solo parziale, ma quasi del tutto fuorviante.
 È questo il caso delle accuse mosse alla Repubblica di Platone, all'Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella.
Per ciò che riguarda il filosofo ateniese, Cosimo Quarta nel suo eccellente studio L'Utopia platonica fornisce un quadro dettagliato ed esauriente del progetto politico della Repubblica, evidenziandone i rapporti di continuità e rottura rispetto alla tradizione storica e a quella culturale greca.


 Percorrendo la stessa via sostenuti dallo studioso,è  infatti possibile comprendere a fondo le novità introdotte da Platone e la loro carica utopica a dispetto dei notevoli fraintendimenti a cui l'opera è stata sottoposta; tacciata di proporre un sistema politico e sociale totalitario.
Accusa, questa, frutto di un processo metodologico illegittimo, come fortemente denuncia Quarta:
<< Occorre subito rilevare che tale difficoltà sorge soprattutto da un equivoco di fondo: quello di proiettare il «nostro», ossia il «moderno» concetto di classe (o concetti similari) sul modello di società tratteggiato da Platone nella Repubblica. Operazione che, essendo sotto ogni profilo scorretta, non poteva non generare giudizi altrettanto scorretti. Donde il «luogo comune» di un Platone, di volta in volta, conservatore, reazionario, classista, fascista e perfino razzista. Di qui la necessità di chiarire perché alcune moderne categorie sociologiche, politiche, economiche, giuridiche non possano, in modo corretto e legittimo, essere applicate all'organizzazione societaria delineata nella Repubblica, pena, appunto, l'insorgere di colossali equivoci >>

                                 Cosimo Quarta, L'utopia platonica, Milano 1985, p. 83.
Ed è proprio un tale indebito procedimento di analisi storica, accompagnato dalla scarsa duttilità a comprendere quelle istanze universali che, al di sotto delle diversità culturali, costituiscono la validità perenne di ogni autentica riflessione filosofica; che si trova a fondamento dell'incapacità di intendere il messaggio innovatore e liberatorio dell'utopia, quale è appunto il caso dell'opera di More e Campanella.
Anche le accuse mosse a Campanella di aver schiacciato l'individuo sotto il peso dell'assolutismo statale attraverso l'adozione dell'eugenetica, del lavoro obbligatorio, dell'educazione generalizzata, dell'abolizione della proprietà privata, dei legami familiari, dell'organizzazione dello spazio urbano, e quanto altro; che ciascuno di essi "crolla", quando si pone mente al contesto storico e alla filosofia sociale campanelliana, la quale muove dal principio che non il tutto è per la parte,  causa questo dell'amor sui, dell'egoismo; ma la parte è per il tutto, in cui ciò che si intende non è l'annullamento del singolo nella comunità, ma il suo inveramento in essa.


L'importanza attribuita alla generazione, all'educazione, al lavoro, alla cultura dell'uomo, testimoniano la consapevolezza che il rinnovamento della società poggia necessariamente sul rinnovamento dell'essere umano, nella certezza che universale e particolare si devono compenetrare.
Nella Città del Sole viene quindi esaltata l'uguaglianza degli uomini quando la società era divisa in classi gerarchiche, il comunismo dei beni quando il diritto di proprietà schiacciava i miseri e i deboli, il lavoro manuale quando questo nella realtà veniva disprezzato ed elogiato l'ozio.


 Campanella richiese l'educazione generale mentre le masse versavano nell'ignoranza e nello sfruttamento, la generazione controllata per ovviare alla prolificazione nella miseria: in definitiva fece valere la razionalità, di contro allo sfruttamento e alla reificazione umana; e costituendo proprio queste ultime, come le realtà davanti alle quali si leva l'accusa della distopia, risulta del tutto inesatto interpretare l'antiutopia come negazione della capacità utopica dell'uomo.


Analoghe considerazioni possono essere estese anche al De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia di T. More, le cui istituzioni e usanze sono state considerate da taluni oppressive, crudeli e, come è stato scritto, anche noiose in quanto comportano la vita in comune, l'abolizione della proprietà privata, il divieto di alcuni giochi, l'uniformità nel vestiario e negli orari della giornata, l'adozione di una medesima architettura in tutta l'isola. 
Questi ordinamenti non sono affatto fine a se stessi, la loro ragion d'essere si chiarisce alla luce della ragione e in contrasto a situazioni storiche caotiche e dolorose a cui l'utopista intende porre riparo con la propria riflessione. 


Questo compito di comprensione, si rivela piuttosto facile, essendo sufficiente la lettura del I libro del libellus vere aureus, premesso appositamente da More alla descrizione della sua isola al fine di rendere più manifeste le corrispondenze che legano situazioni storiche determinate, all'articolarsi della progettazione utopica, tendente alla instaurazione della giustizia e - per quanto possibile - della felicità individuale, di contro all'arbitrio e alla ricchezza dei potenti e, conseguentemente, alla miseria dei più.

1984

Quando Orwell scrive il suo libro, ottenendo il titolo invertendo le ultime due cifre dell'anno di composizione 1948, egli ha ormai ben presente gli orrori del nazismo, del fascismo, del comunismo russo, perciò la sua opera non è tanto una profezia del futuro quanto una trasfigurazione della realtà.

 Sia la <<Fattoria degli Animali>> che <<1984>> costituiscono una denuncia feroce della dittatura sovietica e universalmente di ogni forma di totalitarismo. Mentre nella prima opera descrive satiricamente la parabola dell'esperienza stalinista, in 1984 assistiamo ad una sorta di fenomenologia del potere.
Orwell si appropria delle concezioni di Dostoevskij, Zamjatin e Huxley riguardanti la natura del potere, inteso come strumento necessario per garantire la felicità umana attraverso l'abolizione della libertà, e le fa esplodere dall'interno: la vera natura del potere è il potere, l'unica finalità della classe dominate è l'esercizio assoluto del potere.

 Tutto ciò è svelato a Winston Smith, il protagonista del romanzo, da O'Brien, il suo carnefice, nelle segrete del Ministero dell'amore in cui è rinchiuso durante lo svolgimento della sua tortura. Chiede O'Brien:
«Tu ti rendi conto benissimo come il Partito mantiene se stesso al potere. Ora dimmi un po' perché ci teniamo così stretti al potere. Quale ne è la ragione? Perché vogliamo il potere? Su, parla!» aggiunse, mentre Winston rimaneva zitto.
Ma Winston non disse niente ancora per un minuto o due. Una sensazione d'immensa stanchezza l'aveva invaso. Un debole e folle lampo d'entusiasmo tornò nello sguardo di O'Brien. Winston sapeva già quel che O'Brien avrebbe detto. Avrebbe detto che il Partito non ricercava il potere per suoi proprii fini, ma soltanto per il bene della maggioranza; che ricercava il potere perché gli uomini in massa sono deboli e vili creature che non sanno sopportare la libertà o rendersi conto della verità e debbono essere governate e sistematicamente ingannate da altre persone che siano più forti di esse; che per l'uomo c'è una sola alternativa: di scegliere, cioè tra la libertà e la felicità, e la maggior parte degli uomini tra le due sceglie la felicità; che il Partito era una sorta di tutore permanente dei deboli, una setta che si dedicava a compiere il male in modo da preparar l'avvento del bene, che sacrificava la propria felicità a beneficio di quella degli altri ...
«Voi ci governate per il nostro bene» disse Winston a voce bassa. «Voi credete che gli uomini non sono capaci di governarsi da sé, e quindi...»
Diede un balzo e quasi mise un grido. Un brivido di dolore gli era passato attraverso il corpo. O'Brien aveva spinto la leva del quadrante fino al trentacinque.
«Questa risposta è stupida, Winston, proprio stupida!» disse. «Stupida e lo sai benissimo; m'aspettavo di meglio da te.»
Lasciò andare la leva e continuò:
«Ora risponderò io stesso alla mia domanda. Sta' a sentire. Il Partito ricerca il potere esclusivamente per i suoi propri fini. Il bene degli altri non ci interessa affatto; ci interessa soltanto il potere. Né la ricchezza, né il lusso, né una vita lunga, né la felicità hanno un vero interesse per noi ; ci interessa soltanto il potere, il potere puro. Ti dico subito ciò che significa potere puro. La differenza tra noi e le oligarchie del passato consiste in questo, che noi sappiamo quel che facciamo. Tutti gli altri, anche quelli che ci rassomigliano più da vicino, erano tutti vili e ipocriti. I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. Essi pretesero, e forse perfino credettero, d'essersi impadroniti del potere contro la propria elezione e iniziativa, e per un tempo limitato, e che all'angolo della strada ci fosse un paradiso nel quale gli uomini potessero essere liberi e uguali. Noi siamo tutt'altra cosa. Noi sappiamo benissimo che nessuno s'impadronisce del potere con l'intenzione di abbandonarlo in seguito. Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell'intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell'intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi ora?

(George Orwell, 1984, Milano, 1997, p. 276).
non è retorico affermare che siamo di fronte al capovolgimento di quanto affermato da Dostoevskij, Zamjatin e Huxley: il potere ricercato non in vista della felicità altrui, ma per se stesso. 

Essendo stato chiarito il fine vediamo ora i mezzi attraverso cui è stato possibile realizzare tutto ciò. 

Il mondo in <<1984>> è diviso in tre grandi aree politiche: l'Oceania, in cui si svolgono le vicende del romanzo, l'Eurasia e l'Estasia, perennemente in guerra fra loro, attraverso continui cambi di alleanze. 

La filosofia imperante in Oceania è il Socing, in Eurasia è il neo-bolscevismo e in Estasia il Culto della Morte. 

In realtà le tre filosofie e i rispettivi sistemi sociali non si distinguono affatto tra loro. La spiegazione di questo stato di guerra permanente si trova nel bisogno di mantenere la gente in una tensione emotiva costante.

 Unitamente a ciò vi è la necessità di distruggere continuamente i prodotti del lavoro umano per mantenere le masse nella miseria; la povertà soltanto è infatti in grado di garantire quella disuguaglianza sociale che lo sviluppo industriale e tecnologico avrebbe con il tempo gradualmente eliminato.
Il profondo senso di malessere e di precarietà diffuso tra la popolazione viene poi convogliato dal Partito in odio verso il nemico e nel culto della personalità del Grande Fratello, figura mitica attraverso il quale il Partito si relaziona all'esterno. 

L'odio, la violenza e la paura sono gli unici sentimenti ammessi in questa società che ha bandito l'amore, l'amicizia, la tenerezza. 

Il nucleo familiare seppur non abolito è stato sciolto nei legami che lo tenevano unito: ognuno diventa il peggior nemico dell'altro, l'uomo contro la donna, i figli contro i genitori. 

Vengono, in realtà, non ammesse dal Partito, che deve concedere il nulla osta, tutte quello unioni in cui l'uomo e le donna sembrano provare una benché minima attrazione reciproca e non soltanto perché il sesso provoca nell'individuo un mondo proprio al di fuori delle possibilità di controllo, ma perché l'astinenza sessuale (propagandata intensamente dall'ortodossia) produce isterismo, un fenomeno facilmente trasformabile in infatuazione per la guerra e nella adorazione dei capi.

 La procreazione è diventata una pura formalità da adempiere per donare figli al Partito. Questi inoltre vengono fin da piccoli irrigimentati nella Lega giovanile delle Spie e incitati a denunciare qualunque atteggiamento sospetto manifestato dai genitori.
Ognuno è solo, ma neanche in questa solitudine forzata si è al sicuro. Attraverso teleschermi installati in ogni luogo abitato e sorvegliati dall'occhio vigile della psico-polizia, la polizia del pensiero, si è mantenuti costantemente sotto controllo: occorre quindi imparare a modulare ogni tono di voce, a camuffare ogni emozione, a calibrare ogni sguardo e movimento onde evitare il rischio di essere vaporizzati.

Quasi mai si è uccisi per qualcosa che si è commesso, ma per quel che si sarebbe voluto commettere, lo psicoreato appunto. Obiettivi principali del Socing, Socialismo inglese, seppur mai apertamente dichiarati dal Partito, sono la mutevolezza del passato, il bispensiero e la neolingua. 

Assistiamo costantemente nel romanzo alla falsificazione della storia: ogni volta che si ritiene necessario, ad esempio in occasione di un cambio di alleanze fra le tre superpotenze, i documenti storici vengono riscritti in funzione del presente: apprendiamo quindi che l'Oceania è sempre stata in guerra con l'Estasia e alleata dell'Eurasia, sebbene fino a qualche istante prima si fosse sostenuto il contrario.
Il passato è stato quindi virtualmente abolito per due ragioni.

 La prima è che i membri del partito esterno e i prolet, i quali rappresentano le altre due classi di questa società, sopportano le condizioni presenti solo perché non possiedono alcun mezzo per confrontarle con quelle di un'altra epoca, essendo stato distrutto tutto ciò che vi è appartenuto, non soltanto documenti e libri, ma anche l'arte e l'architettura; la seconda ragione è che il continuo aggiornamento del passato salvaguarda l'infallibilità del Partito, il quale non può mai mutare opinione o sbagliare nelle sue previsioni. 

La mutabilità del passato è un dogma del Socing: si ritiene infatti che gli avvenimenti del passato non abbiano una realtà obbiettiva, ma che sopravvivano solo in documenti scritti e nella memoria degli uomini, ambedue controllate dal Partito. 

Infatti la funzione che si richiede prima di ogni cosa ai membri del partito è il cosiddetto «controllo della realtà», in neolingua detto «bispensiero»: non solo occorre accettare prontamente quanto sostenuto dall'oligarchia, ma credervi realmente e ricordare che i fatti avvennero proprio in quella maniera: se il Partito lo desidera la somma di 2+2 è matematicamente 5: Bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinione palesemente contraddittorie e di accettarle entrambe. 

L'intellettuale di Partito sa in quale direzione i suoi ricordi devono essere alterati: sa quindi che sottopone la realtà ad un processo di aggiustamento; ma mediante l'esercizio del bispensiero riesce a persuadere se stesso che la realtà non è violata. 
Il procedimento ha da essere conscio, altrimenti non riuscirebbe a essere condotto a termine con sufficiente precisione, ma deve anche essere inconscio poiché altrimenti non saprebbe andar disgiunto da un senso vago di menzogna e quindi di colpa. Il bispensiero giace proprio nel cuore del sistema cosiddetto Socing dal momento che l'atto essenziale del Partito consiste nell'usare un inganno cosciente e nello stesso tempo mantenere una fermezza di proposito che s'allinea con una totale onestà. 

<<Spacciare deliberate menzogne e credervi con purità di cuore, dimenticare ogni avvenimento che è divenuto sconveniente, e quindi, allorché ridiventa necessario, trarlo dall'oblio per tutto quel tempo che abbisogna, negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trar vantaggio dalla realtà che viene negata (...) tutto ciò è indispensabile in modo assoluto>> (ivi, p. 223).
La neolingua è la lingua ufficiale che in Oceania il Partito ha iniziato ad introdurre al posto dell'inglese, l'Archelingua: il suo vocabolario è in fase di compilazione.

 Il fine della neolingua non è tanto quello di fornire un mezzo di espressione adeguata alla concezione del mondo del Socing, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Dice Syme, un collega del Ministero dell'Amore, a Smith:
«Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da una «unica» parola, il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati. (...) Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà sempre più ridotta. ... Infatti [nel prossimo futuro] non ci sarà il pensiero come lo intendiamo oggi. Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L'ortodossia è non-conoscenza.»
«Uno dei prossimi giorni» pensò ad un tratto Winston, afferrato da una profonda convinzione «Syme verrà senz'altro vaporizzato. È troppo intelligente. Egli vede le cose e le sa esprimere con chiarezza. Il Partito diffida di gente simile. Un giorno scomparirà dalla circolazione.» (ivi, pp. 56-57).
Il potere ricercato dal Partito diventa quindi assoluto, non è tanto il potere sulle cose, è il potere sulla mente degli uomini, sulle sue intenzioni, sui suoi pensieri.
 Il fine non è di distruggere il nemico, ma di trasformarlo; prima di essere ucciso, il suo cervello, attraverso torture sempre più raffinate, viene fatto a pezzi e ricomposto alla maniera desiderata dal Partito. 

Viene quindi annullata anche l'unica e sola forma di protesta possibile che sembra prospettarsi a Winston Smith prima della morte -- Morire odiandoli, questa era la libertà --. Invece il romanzo si chiude su queste parole: Amava il Grande Fratello. Al termine della sua rieducazione terribile Smith è stato definitivamente sconfitto. Sono parole che non lasciano adito alla speranza perché l'esercizio spietato del potere è riuscito finanche a mutare i sentimenti, i quali quasi per definizione sono quelle capacità umane che maggiormente sfuggono al controllo della volontà e della razionalità.
Totalitarismo, isolamento, violenza, corruzione del pensiero, congelamento della storia in un punto determinato, annullamento del passato sono quindi i pericoli denunciati da questi autori. Compito dell'uomo è quindi impedire che quanto ipotizzato dalla distopia non venga tradotto nell'effettualità storica.

Mi sembra opportuno concludere citando un passo di Ignazio Silone premesso a <<L'avventura di un povero Cristiano>>, per suggerire che accanto alla dimensione dell'antiutopia può e deve collocarsi la progettazione utopica, in quanto realtà complementari e non contraddicentesi:
Se l'utopia non si è spenta, né in religione, né in politica è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell'uomo: vi è nella coscienza dell'uomo un'inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. 

La storia dell'utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace.

 Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi.

Il Mondo Nuovo

Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, composto nel 1932, è ambientato nell'anno 632 di Nostro Ford, un'epoca caratterizzata dal trionfo del progresso scientifico e tecnologico che ha prodotto il più stabile equilibrio della storia, ossia la formazione dello Stato Mondiale il cui motto Comunità, Identità, Stabilità fornisce la garanzia della felicità collettiva. 

Huxley si dilunga ampiamente nella descrizione dell'Istituto di incubazione e condizionatura di Londra centrale, la cui struttura metallica ed asettica assurge a paradigma dell'intera società antiutopica, al fine di mostrare le modalità attraverso cui lo Stato realizza i principi sopra menzionati. 

Qui il progresso tecnologico dispiega interamente la sua efficacia a servizio dell'ordine del mondo nuovo applicandosi ai sistemi che regolano la riproduzione umana, la quale perde così ogni carattere naturale per essere gestita direttamente dall'autorità statale. 

Viene vietato assolutamente alle donne di generare figli e l'individuo inizia la propria vita in laboratorio.

 La famiglia che ormai appartiene solo ad un lontanissimo passato viene indicata come fonte di ogni male, una prigione insufficientemente sterilizzata in cui dominano malattie, oscurità e soprattutto oscene relazione tra i componenti legati insieme dal sentimento e dalla passione. 

Il rapporto tra madre e figlio diventa il simbolo di tutto ciò che la nuova società ha messo al bando per garantire la propria stabilità interna, ossia l'esclusivismo affettivo, la convergenza dell'interesse, l'incanalamento verso un solo essere umano di tutti gli impulsi e le energie, e conseguentemente il dolore per la morte.

 Tutto ciò non può essere tollerato perché il sentire fortemente genera instabilità e senza stabilità individuale non può esserci stabilità sociale.
La società richiede organizzazione: per il suo perfetto funzionamento ogni elemento della collettività deve svolgere i compiti ai quali è preposto; la predestinazione biologica si rivela così il mezzo adeguato per realizzare tale finalità, perché determina geneticamente, attraverso trattamenti diversificati, la divisione degli individui in caste gerarchiche: Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon, le cui caratteristiche psicofisiche sono programmate in funzione del ruolo che dovranno svolgere nella società. 

Ma la manipolazione genetica non si risolve nella predestinazione degli individui in caste, in quanto attraverso il processo Bokanovsky si è in grado di garantire la massima uniformità psicofisica dell'umanità.

 È questo un trattamento riservato alle classi inferiori e consiste nello scindere un uovo umano in 96 embrioni identici al fine di ottenere, quanto più è possibile, la standardizzazione dell'umanità, uomini e donne tipificati. 

Il processo Bokanovsky diventa così uno dei massimi strumenti della stabilità sociale attraverso l'eliminazione completa della singolarità individuale in nome dell'uniformità biologica. Agli Alfa e ai Beta è invece riservato un altro genere di trattamento: un uovo, un embrione, perché ad essi, chiamati ad assolvere compiti di responsabilità, la società lascia un certo margine di individualità che permette di poter operare seppur limitatamente ed in casi specifici delle libere scelte per far fronte all'insorgere di casi imprevisti.
A completare la predestinazione sociale dell'individuo intervengono ulteriori tecniche quali l'ipnopedia e i metodi di condizionamento neo-pavloviani. 

Attraverso l'ipnopedia, ossia l'insegnamento durante il sonno, vengono impartiti suggerimenti a carattere morale e sociale che conducono il fanciullo ad amare solo quei compiti che è chiamato a svolgere nella comunità, cosicché, afferma Huxley, la mente del fanciullo e, susseguentemente, quella dell'adulto diventa la risultante dei suggerimenti impartiti dallo Stato.

 I metodi di condizionamento neo-pavloviani consistono nell'indurre nell'individuo non soltanto la condotta desiderata, ma persino gusti e desideri che dovrebbero essere caratteristici della spontaneità umana, come si verifica nel caso dei bambini delta, sottoposti a scosse elettriche ogniqualvolta tentino di raggiungere dei fiori, al fine di suscitare in essi, inconsciamente, odio verso tutto ciò che appartiene al mondo naturale; la motivazione di ciò risiede nella constatazione che la fruizione della natura è gratuita e quindi inutile allo sviluppo economico fondato sul consumo di beni materiali. A ciò si aggiunge l'istituzionalizzazione della libertà sessuale e dell'uso del soma, una droga chimica in grado di provocare sensazioni piacevoli attraverso l'evasione dalla realtà. Il consumo quasi obbligatorio di tale sorta di piaceri permette in tal maniera all'autorità statale di incanalare nelle distrazioni quella tensione emotiva connaturata in ogni essere umano, impedendogli di avviare qualsiasi tipo di riflessione sulla società esistente.
Lo scenario rappresentato nel romanzo di Huxley risulta così caratterizzato dal più integrale totalitarismo: non soltanto viene negata agli individui la capacità di interagire autonomamente con il mondo esterno, ma persino la possibilità di sentirsi liberi internamente, perché ormai ognuno appartiene a tutti gli altri, principio fondamentale nel Mondo Nuovo.

 Il concetto di libertà viene svuotato del suo significato: la predestinazione biologica e sociale impedisce al singolo di determinarsi in modo diverso dal ruolo che lo Stato ha voluto che assumesse nella società. 

La felicità consiste nell'amare ciò che si deve amare in base ai condizionamenti impartiti dall'esterno. 

Tutto è quindi in funzione della stabilità dell'ordine mondiale. E questo tema è appunto al centro del dialogo tra Mustafà Mond, governatore dello Stato mondiale, e John, uno dei protagonisti del romanzo: la felicità è ciò su cui poggia la stabilità, ma per ottenerla si son dovute sacrificare la libertà, la bellezza, la grande arte (non si possono fare tragedie -- dice il governatore -- senza instabilità sociale), Dio e finanche il diritto di scegliere di soffrire perché incompatibili, spesso, con l'esistenza stessa della felicità. È questo il prezzo che la società ha dovuto pagare: per tale ragione Mustafà Mond, che pur in qualità di governatore ha avuto l'opportunità di attingere alle più alte espressioni della cultura umana, ha deciso di dedicare la propria vita alla felicità degli altri, sacrificando la propria.
Assistiamo perciò nel Mondo Nuovo alla denigrazione della storia e alla cancellazione della cultura del passato, a cui si accompagna il costante tentativo di bloccare quelle scoperte scientifiche in grado di minare l'equilibrio sociale raggiunto attraverso l'introduzione di pericolose novità: «Adesso si sa veramente dove si va».

NOI

Nel 1922 Evgenij Zamjatin, ingegnere e scrittore russo, compone la prima antiutopia del nostro secolo: Noi

Il romanzo si sviluppa in una serie di note in cui il protagonista, D-503, registra puntualmente ciò che gli accade: viene così descritto lo Stato Unico, con a capo il Benefattore, che nel 29° secolo riunisce sotto di sè l'intera umanità. 

Noi è una spietata denuncia non solo del regime sovietico instaurato da Stalin che ha tradito gli ideali della rivoluzione russa, ma rappresenta un atto di accusa contro ogni totalitarismo e contro la crescente meccanizzazione dell'uomo operata dallo sviluppo scientifico e tecnologico.
Il titolo adottato da Zamjatin è di per sè programmatico: My, cioè Noi; il numero D-503, che è uno dei matematici dello Stato Unico e Primo costruttore dell'Integrale, la nave interplanetaria che deve imporre agli altri pianeti il giogo dello Stato Unico, si mette a scrivere per raccontare agli ignoti abitanti di altri pianeti tutto quello che vede e pensa, più precisamente di ciò che noi pensiamo appunto:

(«noi e che Noi sia il titolo delle mie note. Tutti ed io -- scrive Zamjatin -- siamo l'unico Noi: Noi proviene da Dio, ma io dal diavolo», Noi, Milano 1990, p. 94). 
 I cittadini dello Stato unico hanno perso perciò ogni nozione della propria individualità. 
C'è l'auspicio che la scienza nel suo progresso riesca ad eliminare anche le varie diversità fisiche affinché ognuno possa essere uguale ad ogni altro. 
Essi non hanno nome, ma sono solo dei numeri: la coscienza della propria individualità viene vissuta come una malattia da estirpare, perché gli uomini valgono soltanto in quanto meccanismi di un unico e grande ingranaggio, lo Stato mondiale:
Macchine ed uomini formavano tutt'uno, le macchine perfette come uomini, gli uomini perfetti, simili a macchine. Vi era in tutto una bellissima, altissima, sconvolgente armonia musicale. ... La Tavola delle ore (la legge dello Stato Unico) ha fatto chiaramente di ognuno di noi l'eroe di acciaio a sei ruote di un grande poema. Ogni mattina con la precisione delle sei ruote alla stessa ora e allo stesso minuto, noi, milioni, ci alziamo come un essere solo. Alla stessa unica ora, milioni in uno cominciamo il lavoro e milioni in uno lo portiamo a termine. E fondendoci in un unico corpo con milioni di mani nello stesso secondo indicato dalla tavola noi portiamo i cucchiai alla bocca, e nello stesso secondo usciamo per passeggiare e andiamo all'auditorio, nella sala degli esercizi di Taylor e andiamo a dormire (ivi, p. 27).
Siamo quindi di fronte ad un enorme Leviatano, un'unica grande macchina che per funzionare richiede che ogni suo elemento sia sottoposto a regole stabilite e rigide: ecco abolita la libertà. La sua sola possibilità colpisce al cuore l'esistenza stessa dello Stato Unico. La danza con il suo essere codificata in ritmi e movimenti prestabiliti è elevata a metafora del nuovo ordine mondiale:
<<Perché la danza è bella? Risposta: perché è un movimento non libero, perché il senso profondo della danza è appunto nell'assoluta dipendenza estetica ad una costrizione ideale. E se è vero che i nostri antenati si abbandonavano alla danza nei più ispirati momenti della loro vita (i misteri religiosi, le parate guerresche), ciò significa una cosa sola: che l'istinto della costrizione è esistito sempre organicamente nell'uomo, e noi, nella nostra vita attuale, ne abbiamo coscienza (ivi, p.22).
Scopo della costruzione dell'Integrale è infatti estendere a livello planetario la felicità matematicamente esatta dello Stato unico, assoggettando coloro che vivono ancora nello stato selvaggio della libertà. 

L'antinomia tra libertà e felicità incarna pertanto nel romanzo di Zamjatin la tensione fondamentale. Di nuovo i due termini risultano incommensurabili: nel paradiso terreste fu infatti offerta agli uomini la felicità senza libertà o la libertà senza felicità e questi scelsero la libertà votandosi al disordine e alla sofferenza.
 Nello Stato Unico invece tutto è semplice e paradisiaco perché la non libertà e la felicità sono garantite dal Gran Benefattore che tiene sapientemente legati mani e piedi coi lacci della felicità. 
Tutta la vita degli uomini è quindi pianificata: dal modo di vestire agli orari di lavoro, dal numero dei movimenti necessari alla bocca per masticare ai giorni sessuali; la famiglia è abolita, tutto è trasparente, tutto è costruito di vetro, non deve esserci spazio per il privato; anche la poesia è stata addomesticata, è divenuta servizio statale; ora deve tessere le lodi al Benefattore e allo Stato Unico; è impensabile che nei tempi antichi ognuno potesse dire ciò che gli passava per la mente!
 L'unica religione è la sottomissione allo Stato mondiale, la morale non si fonda più sul libero arbitrio, nella capacità di scegliere tra bene e male, ma diventa etica scientifica fondata sulle quattro operazioni matematiche, fissata una volta per tutte dall'organismo statale. In questo sistema vige la sorveglianza ossessiva dei guardiani nei riguardi dei cittadini e coloro che non rendono conformi le proprie azioni e i propri pensieri alla struttura della società vengono giustiziati pubblicamente, poiché il sistema democratico con la sua polifonia nuoce alla uniformità concettuale, garantita esclusivamente dal potere assoluto del Benefattore il quale elimina così ogni dissonanza.
Siamo di fronte ad un totalitarismo assoluto che ingoia in sè i singoli individui, vantando però la pretesa di aver fatto tutto ciò in nome dell'amore dell'umanità. 

Nel dialogo tra il Benefattore e D-503, che quasi testualmente riprende la «Leggenda» di Dostoevskij, viene affermato infatti che l'unico amore possibile nei confronti degli uomini è l'amore crudele, perché solo attraverso la schiavitù viene garantita una vita libera da affanni e quindi felice:
<<Io domando -- dice il Benefattore -- per che cosa gli uomini fin dalle fasce hanno pregato e sognato? Per che cosa si sono tormentati? Perché qualcuno dicesse loro una volta per sempre che cosa è la felicità -- e poi li incatenasse per sempre a questa felicità. Che forse noi facciamo qualcosa di diverso? L'antico sogno del paradiso. ... Ricordate: nel paradiso non si conoscono desideri, non si conoscono la pietà e l'amore, là tutti sono beati, perché sono privati della fantasia (e solo perciò sono beati) -- angeli, servi di Dio (ivi, pp. 144-145).
Sembra la fine della storia: sono state raggiunte le più alte vette dello sviluppo umano, quindi viene bandito dalla società ogni mutamento poiché quella dello Stato Unico è stata l'ultima rivoluzione. 

Ma la realtà -- afferma Zamjatin -- non ammette l'esistenza di un' ultima rivoluzione in quanto tale affermazione si rivela contraddittoria: è come cercare di stabilire qual è l'ultimo dei numeri sapendo che la serie dei numeri è illimitata; così è per la rivoluzione, essa è senza fine. 

L'universo si dibatte costantemente tra due forze, l'entropia e l'energia: l'una porta alla pace, all'equilibrio felice, l'altra alla distruzione dell'equilibrio, al movimento senza fine; ed in tale tensione dialettica Zamjatin sembra appunto indicare l'antidoto contro ogni pretesa all'assoluto da parte del totalitarismo.

Ermeneutica del Valore: Note a Margine sulle Utopie Distopiche (parte seconda)

Nella distopia contemporanea assistiamo ad un drastico cambio di prospettiva: viene meno la composizione organica tra universale e particolare a esclusivo vantaggio del primo elemento e alla pressoché completa dissoluzione del secondo.

Ecco perché tra le opere più rappresentative di questo "filone" tre testi in particolare, meritano considerazione e menzione, poiché appaiono le maggiori tre celebri "distopie contemporanee" : <<Noi>> (1922) di Evgenij Zamjatin, <<Il Mondo Nuovo>> (1932) di Aldous Huxley e <<1984>> (1948) di George Orwell.
Le tre opere gettano indubbiamente le loro radici nella «Leggenda del Grande Inquisitore» contenuta nei Fratelli Karàmazov (1879-1880) di Fëdor Dostoevskij. 

Il racconto di Dostoevskij è la riproposizione dell'episodio biblico delle tentazioni di Gesù nel deserto (Matth. 4,1-11) attraverso l'incontro tra Cristo e il Grande Inquisitore, così come viene immaginato da uno dei fratelli Karàmazov, Ivan. 
Questi rivela al fratello Alësa di aver scritto un poema avente per protagonista la figura di Gesù, ambientato nel XVI secolo, nel periodo buio dell'Inquisizione, a Siviglia, e immagina che Cristo a causa delle tristi condizioni in cui versa l'umanità decida di ritornare nel mondo al termine di una giornata di autodafé, compiendo vari miracoli e provocando l'entusiasmo della folla.
 Repentinamente sopraggiunge il vecchio Inquisitore che ordina il suo arresto. Nella notte il gesuita si reca dal prigioniero rimproverandolo di esser tornato sulla terra a infastidire l'operato della Chiesa; per tale ragione l'indomani lo farà bruciare sul rogo. 
Egli infatti non ha più il diritto di aggiungere nulla al suo precedente operato avendo a suo tempo trasmesso il suo potere al Papa ed alla Chiesa di Roma, i quali ormai, accettando quelle realtà rifiutate da Gesù durante le tentazioni nel deserto, il miracolo, il mistero, l'autorità, hanno così aderito alla proposta del Satana, correggendo l'opera del Figlio di Dio servendosi del suo stesso nome.

 Tutta la storia della Chiesa viene quindi presentata come una storia della salvezza alla rovescia: alla Chiesa di Cristo si è sostituita la Chiesa del Satana.
La spiegazione di tutto ciò è da rintracciare nel significato profondo del messaggio evangelico che il Grande Inquisitore pur conoscendo ha consapevolmente rifiutato: è l'annuncio della libertà integrale, è il rifiuto di conquistare l'animo degli uomini servendosi del miracolo e dell'autorità:
<< Vedi queste pietre nel deserto nudo e infocato? Mutale in pani - dice il vecchio - e l'umanità ti seguirà come un gregge docile e riconoscente, anche se eternamente temeranno che tu possa ritirare la mano e privarlo dei tuoi pani. Ma non volesti privare l'uomo della libertà e disdegnasti l'invito giacché, pensasti, quale libertà vi può mai essere se l'obbedienza si compra coi pani? >>

                 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Milano 1994, p. 352.
Ma così facendo, prosegue l'Inquisitore, Cristo ha proposto una religione adatta esclusivamente a individui superiori, capaci di addossarsi la fatica della libertà, lasciando da parte la maggioranza degli uomini per la quale la libertà rappresenta soltanto un insopportabile fardello da deporre ai piedi di chi è in grado di garantire il pane, cioè quella felicità senza libertà che Cristo ha rifiutato e che invece la Chiesa si è impegnata a garantire accettando dal Satana ciò che egli aveva rifiutato con sdegno: Roma e la spada dei Cesari, il potere con il quale assoggettare l'umanità e provvedere alla sua felicità:
<< Oh mai, mai essi sapranno sfamarsi senza di noi. Nessuna scienza darà loro il pane finché resteranno liberi, e alla fine non potranno che deporre la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno «Rendeteci pure schiavi, ma sfamateci».  
Finalmente capiranno da soli che libertà e pane terreno a piacimento per tutti sono cose fra loro inconciliabili perché mai e poi mai sapranno dividerlo fra loro!   
E si persuaderanno che non potranno mai essere neppure liberi perché sono deboli, inetti, viziosi e ribelli (...) 
Ci ammireranno e ci riterranno simili a dèi, perché mettendoci alla loro testa, abbiamo accettato di sopportare la libertà e di dominarli tanto li atterrirà alla fine l'essere liberi! 
Ma noi diremo che obbediamo a te e che governiamo in nome tuo. Così li inganneremo di nuovo perché non lasceremo più che ti accosti a noi. 
E appunto in questo inganno sarà la nostra sofferenza giacché dovremo mentire. 
Io ti dico che non vi è per l'uomo affanno più grande che quello di trovare al più presto qualcuno a cui rendere il dono della libertà che quell'infelice ha avuto nascendo.
Ma si impossessa della libertà degli uomini solo chi pacifica la loro coscienza. Con il pane ti si offriva una bandiera inattaccabile: dagli il pane e l'uomo ti si inchinerà poiché non vi è nulla di più indiscutibile del pane. (...) 
Anziché impossessarti della libertà umana, tu l'hai potenziata e hai oppresso per sempre con il fardello dei suoi tormenti il dominio spirituale degli uomini. Tu hai voluto il libero amore dell'uomo affinché ti seguisse liberamente, ammaliato e conquistato da te. (...) 
Ma è mai possibile che tu non abbia pensato che alla fine avrebbe contestato anche la tua immagine? >>   
                                                  ivi, pp. 353-355.
La Chiesa degli uomini viene ridotta a massa informe, dove alla libertà è stata sostituita la sottomissione totale, all'angoscia del libero arbitrio è subentrata la felicità degli uomini non più costretti a decidere e soddisfatti di aver trovato un'autorità alla quale inchinarsi.

 Il grande Inquisitore, conclude Ivan Karàmazov, non è che un martire, il quale, dopo aver trascorso gran parte della propria vita a diventare libero e perfetto, si accorge della miseria in cui versa la maggior parte dell'umanità a causa della sua debolezza e decide così di unirsi di nuovo ad essa per prendere su di sè il compito di renderla felice destinando invece se stesso alla infelicità.

 Felicità e libertà rivelano quindi nell'antropologia di Dostoevskij la loro inconciliabilità: l'uomo deve decidere se percorrere la prima via segnata dalla pianificazione, dall'ordine assoluto o la seconda che porta ineluttabilmente con sè dolore, imprevisti, il caos.

 La riflessione quindi su tale binomio, nella forma offerta da Dostoevskij, unitamente a quella sul totalitarismo, si pone perciò al centro delle opere distopiche contemporanee, come ganglio vitale e suggestivo.  





Quella crudeltà a cui <<Il Mondo Nuovo>> non aveva fatto ricorso, perché la libertà contro cui essa avrebbe dovuto dirigersi era stata geneticamente sconfitta, si impone ferocemente nel romanzo di G. Orwell << 1984 >>.