giovedì 26 aprile 2012

NEL LABIRINTO DI PERSICO ARCHITETTO GENIALE

                                     
                                          


Edoardo Persico, nato a Napoli nel 1900 e morto a Milano nella notte dell' 11 gennaio del 1936, è il più geniale critico d' architettura attivo negli anni Trenta, e non solo in Italia.

 Nel giro di pochi, febbrili anni assunse un ruolo di spicco nell' ambiente milanese, anche come condirettore della Casabella di Pagano. Capì il genio di Wright sfogliando solo foto, indicò ai migliori architetti milanesi la via della modernità europea, ed è lodevole che Skira ristampi Profezia dell' architettura, e Nino Aragno annunci l' opera completa.

 Il rapporto del medico legale dice che morì di miocardite.

 Alla sua morte Andrea Camilleri dedica il romanzo Dentro il labirinto, (Skira): è un classico processo indiziario, e non potrebbe esser diversamente, perché, attore e comprimari sono morti. 

«Ho scritto eventuale biografia perché questa mia non lo sarà... Il mio sarà il tentativo di percorrere il labirinto di un enigma». 

Ma di fatto scrive una biografia, tant' è che allega una carente bibliografia, e dedica ad essa 9 capitoli su 13. 

Nel primo si sofferma sui ritratti da morto che gli fecero amici pittorie fa le sue congetture, anche se alle sue domande e dubbi, dice di voler rispondere solo «con l' invenzione narrativa». 
All'Ambiguità politica dedica i capitoli 4 e 5, e fornisce la sua interpretazione. Era antifascista Persico, viene arrestato ripetutamente e rapporti di polizia lo confermano. In un ristorante a Napoli ha uno scontro con fascisti che cantano "Giovinezza", viene arrestato.

 Camilleri commenta: «Non antifascismo dunque, ma il timore che gli spaghetti alle vongole diventassero immangiabili».
 Sapendo che a Torino i suoi amici furono Gobetti, Venturi, Soldati, Carlo Levi che gli fece due ritratti si resta perplessi.
Per la stagione torinese Camilleri assume come suo Virgilio Angelo D' Orsi che, nelle sue indagini, mai si è occupato della morte. 

Il capitolo 7 lo dedica a Le congetture di Riccardo Mariani sulla morte: questi sostenne che Persico era stato ammazzato dall' Ovra, poi dagli antifascisti che avevano scoperto i suoi doppi giochi, poi da un compagno omosessuale, o forse s' era suicidato. 

Mariani, che spedì Pagano "volontario" a Mauthausen, ebbe in consegna le carte Persico-Gobetti dalla Fondazione Feltrinelli, e quelle di Pagano: mai le rese. Camilleri lavora sulle ipotesi di Mariani e sulle presunte confidenze di Annamaria Mazzucchelli, segretaria di Casabella, molto vicina a Persico e a Pagano: la signora smentì quando le lesse travisate, e lettere indignate sono nei documenti che la signora depositò alla Biblioteca Centrale di Roma nel 1986. Giovanni Persico, nipote di Edoardo, morì cinquantenne di cuore, come suo padre e suo nonno.
 Che Edoardo mal fermo di salute sin dall' infanzia - tubercolosi, cardiopatie, disturbi al fegato E per le bastonature subìte - che fumava 60 sigarette al giornoe viveva di caffè, sia morto di miocardite, come attesta il referto del professor Cazzaniga, mi pare la cosa più ovvia e ragionevole da pensare. Anche se un dato di fatto può risultare poco utile all' invenzione narrativa. Gli ultimi tre capitoli, 35 pagine su 136, Appunti per un romanzo, sono una ricostruzione "romanzesca" in tre tempi.

 Persico era un melanconico che passava dalla depressione a fasi di eccitazione: ma in un lustro produsse testi e progetti illuminanti.

 La di lui cristallina scrittura non induce a pensare che un torbido delatore possa esserne capace. L' autore non si avvale del bellissimo epistolario, nel quale si mette a nudo una persona debole, rosa da dubbi di ogni genere, capace anche di dire bugie come fece con Gobetti o, in altre occasioni, inventate da altri (i viaggi a Mosca), ma del tutto refrattario a inseguire le insinuazioni o le calunnie di cui era bersaglio.

 La sua proverbiale intransigenza gli aveva creato molti nemici a cui alluse con la Mazzucchelli e Giulia Veronesi.

 Leggendo le pagine del romanzo si ha il fondato sospetto che Camilleri l' abbia scambiato per Pjotr Verchovenskij di Dostoewskij, a me ha fatto pensarea L' idiota. 

Ma forse non fu né un demone, né un eletto: ma solo un esule fuggito da una città "africana", giunto in una città "cubica" e approdato a Milano dove trovò un asilo, dando il meglio di sé, e morendo di miocardite a 35 anni. Camilleri non si avvale delle testimonianze di una settantina di intellettuali di rango, di pittori e architetti che alla sua morte lo ricordano con parole commosse e devote: da Argan a Vittorini, da Gatto a Ponti per citare a caso. L' autore conclude ripetendosi: «Domando al lettore di considerarmi non uno storico, non un ricercatore ma un semplice romanziere».

 Ma è pur sempre valido l' ammonimento di Croce che per far biografia è necessario aver simpatia per il soggetto.

 Lionello Venturi, esule a Parigi, concluse così il ricordo di Persico: «È stata una luce la sua... che non è estinta, né si estinguerà fino a che alcuno di noi, che ne fu illuminato, saprà conservarla dentro nell' animo».



                                                          CESARE DE SETA


fonte La Repubblica.it

martedì 24 aprile 2012

Ciò che NON vogliamo nella Scuola Pubblica


                                                                             





di Marina Boscaino

Spiegare a chi non faccia il nostro lavoro perché è importante occuparsi di scuola sembra una cosa banale, mentre non lo è affatto. Attraverso la scuola stanno passando oggi fatti importanti, spesso gravi, senza che la maggior parte della gente se ne accorga nemmeno. Il rischio è quello di sfociare in una tecnicalità che scoraggia la comprensione dei non addetti ai lavori. Tentando di essere il più chiara e schematica possibile, vorrei cercare di far capire perché – attraverso un provvedimento di cui quasi nessuno parla – rischia di passare un pezzo fondamentale della deriva mercantilistica che ha caratterizzato le politiche scolastiche degli ultimi anni.

Le domande sono: qual è la scuola che vogliamo? Riteniamo che garantire livelli di prestazioni decenti per tutti sia un obbligo etico, oltre che una necessità economica per il nostro Paese? Infine: abbiamo ancora a cuore principi (e pratiche) quali la libertà di insegnamento?

Forse qualcuno ricorda la questione del disegno di legge Aprea, che durante il primo anno del ministero Gelmini (eravamo nel 2008) suscitò la protesta di tutto il mondo della scuola. Rimasto in naftalina per alcuni anni – grazie anche al dissenso interno all’allora maggioranza – ecco che la proposta ritorna, emendata delle norme riferite allo stato giuridico dei docenti, ora che Valentina Aprea, la prima firmataria ed ex presidente della Commissione Cultura della Camera, si è dimessa per assumere l’incarico di assessore all’Istruzione in Regione Lombardia.

Autonomia statutaria delle Istituzioni Scolastiche (PDL 953) si chiama la nuova proposta di legge, il cui testo è stato approvato a larghissima maggioranza presso la VII commissione Cultura della Camera, come frutto di una serie di proposte di legge avanzate da rappresentanti della attuale maggioranza allargata, tra cui Aprea (Popolo della Libertà), Cota (Lega), Capitanio-Santolini (Unione di Centro), De Torre (PD). Lascia piuttosto perplessi soprattutto il coinvolgimento del Pd, che – ai tempi della prima proposta di legge Aprea, che iniziò il suo iter parlamentare il 3 luglio 2008, riuscendo ad alimentare la mobilitazione del mondo della scuola, che culminò nel movimento dell’Onda e nell’oceanica manifestazione dell’ottobre di quell’anno – si oppose ferocemente al provvedimento. Il re-styling della norma, cui il Pd ha operosamente collaborato, però, ridimensiona solo in parte la pericolosità dei contenuti della proposta originaria; ad essa solo l’Italia dei Valori sta tentando in tutte le sedi di ribadire il proprio no.

Il testo originario prevedeva una sezione sulla carriera del personale docente (articolata su tre livelli: iniziale, ordinario ed esperto) e sul reclutamento attraverso il concorso di istituto (cioè, chiamata diretta da parte dei dirigenti). Emendati tali elementi, ecco le novità:

a) si costituirà un Consiglio dell’Autonomia, organo che sostituirà l’attuale Consiglio di istituto. Di tale organo, rispetto al Consiglio di Istituto, non farà più parte alcun rappresentante del personale Ata, mentre entreranno a farne parte “membri esterni, scelti fra le realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi, in numero non superiore a 2 (…)” (art. 6). Non sono fornite indicazioni sulle modalità attraverso cui i membri verranno individuati. Si passerebbe dunque dall’attuale situazione in cui l’intervento di esterni viene deliberato e autorizzato da Collegio dei Docenti e Consiglio di Istituto, ad un’entrata di esterni addirittura nell’ambito dell’organo di indirizzo della scuola. È lecito chiedersi quanto questo intervento comporterà in termini di trasparenza delle relazioni tra scuola e territorio, nonché di reale svincolamento delle proposte da logiche di convenienza o di clientela;

b) tale Consiglio dell’Autonomia elaborerà uno “Statuto autonomo”, diverso da scuola a scuola, relativo alle regole su questioni che riguardano sia la sua gestione dell’istituto, sia l’organizzazione degli organi interni, sia il delicato rapporto delle diverse componenti che ne fanno parte. Tali materie sono state fino ad oggi regolate da leggi dello Stato che hanno stabilito criteri identici sul territorio nazionale. Lo Statuto Autonomo, e la conseguente acquisizione dell’autonomia statutaria di ciascun istituto, determinerà vari piani di differenze, minando principi che sovrintendono all’unitarietà del sistema scolastico nazionale, minacciandone la conservazione: pericolose deroghe alla garanzia da parte dello Stato di pari opportunità per tutti gli studenti nell’esercizio del diritto allo studio.

c) Sarà lo Statuto a definire in ogni singola scuola le modalità attraverso le quali genitori e studenti avranno il diritto di partecipare: un colpo di spazzola al Dpr 416/74, accolto nel dlgsl 497/94 (il Testo Unico sulla scuola), che norma gli organi collegiali.

d) Il collegio dei docenti oggi esercita la sovranità su tutto ciò che attiene alla didattica. Lo Statuto autonomo della singola scuola detterà invece norme su questioni estremamente delicate tra cui “la composizione e le modalità della necessaria partecipazione degli alunni e dei genitori alla definizione e raggiungimento degli obiettivi educativi di ogni singola classe (art. 6 c. 4)”: una pericolosa incursione in materia di libertà di insegnamento.

e) È previsto un nucleo di autovalutazione della scuola che la legge Aprea istituisce e che avrà il compito di valutare la qualità complessiva della scuola. Ne farà parte uno o più membri esterni, (i criteri di scelta rimangono avvolti dal più stretto riserbo), in collaborazione con l’Invalsi.

f) All’art. 10 si trova un’ inauspicabile soluzione al problema delle carenze di fondi in cui versa la maggior parte delle scuole italiane, grazie anche ai debiti accumulati dallo Stato (circa 1,5 mld). Viene prevista esplicitamente la possibilità di “ricevere contributi da fondazioni finalizzati al sostegno economico delle loro attività”, sottolineando che tali fondazioni “possono essere soggetti sia pubblici che privati, fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni no profit (art. 10 c. 2)”. Tali soggetti avrebbero il proprio posto nel Consiglio dell’Autonomia: chi garantirà che l’erogazione di fondi non implichi anche precise direttive in merito alle scelte formative che la scuola dovrebbe adottare?

g) Infine l’art. sulla dirigenza. Nel testo di riferimento per la dirigenza scolastica, l’art. 25 del dlgsl 165/01, al comma 2 si legge: “Il dirigente scolastico assicura la gestione unitaria dell'istituzione, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane.” La parte relativa agli organi collegiali nel nuovo testo è emendata.

Il 4 aprile la Camera ha approvato la proposta di trasferimento del testo unificato alla VII Commissione Cultura in sede legislativa; ciò vuol dire che il testo unificato sarà approvato dalla Commissione e non dall’Assemblea, essendo sottoposto alla procedura destinata ai progetti di legge privi di speciale rilevanza di ordine generale o che rivestono particolare urgenza. Non ravvisandosi i termini per la seconda ipotesi, questo testo potrebbe diventare legge in virtù dell’approvazione di una commissione parlamentare perché, nonostante configuri uno stravolgimento della Costituzione, verrà trattato come fosse pura questione tecnica.

Il tema della revisione degli organi collegiali nella scuola è importante, soprattutto dopo l’istituzione della dirigenza scolastica, sancita dalla legge sull’autonomia, si sia d’accordo o no. In gennaio il ministro Profumo dichiarò a Radio Uno: “Io sto ragionando insieme alle persone del Ministero, come dare una maggiore 'autonomia responsabile' trasferendo direttamente alle scuole le risorse senza vincolo di utilizzo in modo tale che ci sia una maggiore autonomia reale, un'autonomia nelle scelte e credo che questo sia la strada". La direzione individuata da questa proposta è opposta a quelle dichiarazioni. Ma Profumo tace. Nonostante la lontananza dal concetto di autonomia responsabile di una proposta che, casomai, colloca la scuola in uno stato di subalternità rispetto ad eventuali finanziatori; che peraltro saranno molto più solleciti e presenti in alcune realtà e in alcuni segmenti dell’istruzione (si pensi al tecnico e al professionale) che in altri.

Non solo: tale ancillarità e tali divaricazioni verranno ulteriormente sottolineate dallo Statuto dell’Istituzione Scolastica; tanti statuti quante sono le scuole. Non solo dunque rottura dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale, quella già disegnata dalla “riforma” Gelmini attraverso la determinazione di modelli regionali altamente diversificati, soprattutto nell’istruzione professionale, fortemente legata al tessuto imprenditoriale ed aziendale di riferimento, con conseguente ulteriore affossamento della scuola del Sud. Ma anche sostanziali differenze tra scuola e scuola, non solo per ciò che riguarda le new entry esterne e la loro eventuale munificenza, ma anche funzionamento interno, modalità di partecipazione, attività di organi.

Una revisione hard – con un’accelerazione incontrovertibile verso un modello di scuola-azienda – del novellato Titolo V della Costituzione, che sottrae di fatto allo Stato (garante di pari opportunità per tutti i cittadini) prerogative fondamentali per favorire l’uguaglianza sancita dall’art. 3, che vede nella scuola uno strumento imprescindibile.

domenica 15 aprile 2012

Trentotto anni di Prove Distrutte e Depistaggi. Così un Pezzo di Stato ha coperto i Bombaroli


Anniversari fuor di retorica:

La stagione delle inchieste sulla strategia della tensione si chiude con un bilancio fallimentare. Ma ci lascia in eredità alcune certezze storiche: le condanne mancate parlano dell'inquietante presenza di reti di solidarietà occulte


di BENEDETTA TOBAGI


FORSE non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un'epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della "strategia della tensione".

La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. "Me l'aspettavo" è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d'appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell'Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall'ennesima bomba neofascista (con buona pace dei "negazionisti" di casa nostra, questo è accertato). Mentre l'Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell'organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi "soldati": "Brescia non deve rimanere un fatto isolato". Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell'Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l'hanno fatta franca.

Terribile perché  -  e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate  -  dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un'indagine complessa grazie all'impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, "che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare"  -  commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.

Quest'assoluzione è solo l'ultima, umiliante vittoria di un'attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l'esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della "bomba fantasma" su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l'armiere di Ordine Nuovo, che preparò l'ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle "piste rosse" costruite intorno a piazza Fontana: la "falsa pista nera". I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall'istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle "trame nere" milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell'ultimo processo.

Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l'imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell'anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe "bianco" autoritario o presidenzialista - anch'esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese - emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e "Rosa dei venti". Una pista nera "sbiadita" e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l'hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel '74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un "depistatore" di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma - contro regolamenti - anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell'inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei "depistaggi sofisticati", a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s'indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.

La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell'Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l'insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti".



Fonte Repubblica.it pubblicato il 15.04.2012


Sull'Inutilità della Filosofia

                                           
                                                




A coloro che obiettano a chi si occupa di filosofia la sua inutilità (obiezione raramente sollevata agli studiosi di sociologia, storia, letteratura, cinema), che ci si potrebbe dedicare con maggior profitto ad altre più redditizie occupazioni che garantirebbero sia il benessere proprio sia quello della comunità in cui si lavora, bisognerebbe ricordare come solo la filosofia sia un sapere capace di stabilire una comunicazione con le altre molteplici forme di sapere.


 Essi dovrebbero allora concedere che nessun’altra “tecnica” insegna ad interrogare le altre tecniche, mentre la filosofia può farlo proprio perché – grazie alla sua non-contemporaneità – essa non è una tecnica. Quando i tecnici e i professionisti del mondo amministrato notano un filosofo che sa fare anche il programmatore o giocare con profitto in borsa, gli ricordano come potrebbe fare soldi a palate mettendo a “profitto” questa sua abilità.


 Una volta qualcuno chiese a Ernst Bloch, esule negli USA, perché non faceva qualche lavoro, in fondo in America si può diventare ricchi anche facendo il lavapiatti o il cameriere. Pare che Bloch – filosofo per eccellenza della non contemporaneità – rispose che in quel modo un cameriere o un lavapiatti in America forse inizia la propria carriera mentre lui, mettendosi a fare quel mestiere, avrebbe sicuramente concluso la propria.


 La domanda diabolica al filosofo, da Talete ai Necessary Hints di Benjamin Franklin, si ripresenta in modo ciclico, perché si ritiene il pensiero un che di accidentale e superfluo, espressione della massima contingenza, indice del modo in cui tecnici e professionisti vivono: senza farsi troppe domande.


 Chiunque non finalizzi la propria ricerca a ciò che richiede il mercato viene tagliato via come ramo secco: a neutralizzare il pensiero ci pensa l’ethos protestante globalizzato, senza più bisogno di cicute, anatemi e roghi.


 Ma la sufficienza e la malcelata sopportazione con cui si tollerano oggi i filosofi non dipendono solo dallo strapotere del mercato o dal destino della filosofia nell’età della tecnica. 


Un ruolo altrettanto importante è svolto dalla separatezza fra la figura dell’intellettuale e la comunità di cui è espressione.


 Di tale separatezza è responsabile l’istituzionalizzazione dei saperi. Più il discorso filosofico si fa discorso accademico, più esso diventa autoreferenziale e privo di legami con il tessuto della vita degli uomini: diventa una filosofia meccanica, autopoietica, filosofia della filosofia.


 Perciò quando un filosofo ha la ventura di trovare un punto di contatto con la prassi deve guardarsi bene dal lasciarselo sfuggire rinunciando alla teoria.


 Per vivere Spinoza – altro grande pensatore della non-contemporaneità – intagliava lenti, ed era un maestro anche in questo (così come nel suo rifiuto di salire in cattedra): il rispetto dei non-intellettuali lo si ottiene dimostrando che soltanto la filosofia insegna non a essere superiori al proprio tempo, ma a vivere il proprio tempo nel modo migliore e che giudicare la filosofia avendo a criterio la contemporaneità significa giudicare il sole guardando la luna. 






                                           Alessandro Bellan

giovedì 12 aprile 2012

CIAO Miriam adesso saremo più sole

                                                                         

E’ un tema delicato forse ineludibile, il distacco dal mondo delle persone apprezzate; quelle vicine che ci sono accanto o semplicemente quelle più distanti, “ombre che ispirano,” che dialogano nel tempo con la nostra parte interiore, attraverso le opere: fatiche letterarie e strumenti di conoscenza, che continuano non solo a mantenerli vivi ma anche ad arricchire le nuove riflessioni.


 Parlano un linguaggio ineffabile, pulsante, in testi, che fissano acume e intelligenza ispirata e spesso geniale. Contributi importanti all’interpretazione e alla comprensione, in grado di restituire alla vita riferimenti e continuità ideali di profondità e valore.


 Perciò anche  nel Ricordo o nel commiato del distacco, si esprime talvolta un timido sentimento di gratitudine, che talvolta diventa delicata consolazione attingendo a parole pensieri o riletture di opere e testi “profetici” che servono a contrarre e consolare la privazione e l’assenza; reazione allo smarrimento e allo sconcerto del vuoto lasciato. 


Sentimento malinconico che con enorme tristezza si è ripetuto anche per Miriam Mafai che ci ha lasciati in questi giorni.


 Straordinaria intelligenza acuta una Donna Libera interprete dell’ autonomia e del coraggio; classe 1926 ma mai dissonante nel suo tempo.
 Nata in tempo per vivere il fascismo, l'Italia in guerra e le leggi razziali che avevano riguardato anche la sua famiglia, visto che la madre era ebrea ed era figlia di un rabbino lituano; partigiana Attiva nell'opposizione al fascismo e nella Resistenza, staffetta partigiana nella capitale occupata. 


Finito il regime diventa funzionario e militante del Pci; intellettuale autorevole, scrittrice e giornalista attenta alla dialettica politica, specie quella delle trasformazioni sociali del nostro Paese.


 Sensibilità accurata e profondissima che ha offerto senso e significato alla complessità dell’intricato mondo delle donne.


Miriam Mafai è riuscita a raccontare una “società in movimento” capace di staccarsi dal passato, così come dai partiti tradizionali.

In molti in queste ore, hanno raccontato di lei: spessore, ricordi, testimonianze e memoria.


Per quelli come me, la Mafai ha rappresentato e significato molto:un punto di riferimento un modello di integrità e di sanità morale, quasi ideologica. E’ stata non solo una protagonista della storia di questo paese, ma prima di tutto una generosa intellettuale che negli ultimi 60 anni, ha raccontato intelligentemente, da giornalista l’Italia su testate importanti come l’Unità, Paese Sera, Noi Donne e Repubblica, trasmettendo l’insegnamento dell’impegno, del coraggio, dell’autonomia, della virtù del criticismo e della testimonianza del senso concreto della vita.


 Con il suo prezioso temperamento di intellettuale aperto e plurale, è stata in grado di elaborare una riflessione critica delle idée, della sinistra alla quale non ha mancato di risparmiare critiche; delle Donne per le quail ha individuato errori e ostacoli all’analisi dei cambiamenti e delle trasformazioni.


 Libera, Miriam è stata una donna libera da pregiudizi e pre concetti ideologici, che ha posseduto il dono della lungimiranza di chi sa bene leggere e comprendere il presente alla luce del passato, con adeguata proiezione sul futuro, che ha solcato il suo tempo segnandone anche talvolta il passo.   
Dunque con profonda tristezza e immensa gratitudine, dedico il mio saluto a questa sempre giovane Signora Appassionata e Lucida; che ha Saputo infondermi l’importanza della libertà, quella che contagia l’interesse a farti pensare con la Testa (la propria) ma soprattutto a farti sentire come donna “te stessa”, anche nell’irriverenza di una spontaneità curiosa e magari anche un poco “ingenua”, ma pur sempre autentica.


 Mi è capitato spesso di leggerla riflettendo sulle sue acute analisi, anzi posso dire che debbo anche a Lei parte della mia crescita politica.


 Proprio recentemente ho avuto modo di riprenderne un saggio del 1990 nel quale  poneva  la differenza di genere a nuovo paradigma della conoscenza, a strumento di revisione dei saperi, del quale mi colpiva il valore fondativo della soggettività riconosciuto alla differenza di genere, ipotizzato attraverso  “la sessuazione del mondo: un pensiero, un diritto, una politica contrassegnati dalla differenza. Questo pensiero grida forte «io sono donna», e di qui intende ricostruire il mondo e le relazioni, ma non sa dire, o non si preoccupa di dire e precisare, “cosa è una donna”.


In fondo ciò che le stava a cuore era un modello sociale basato sulla piena espressione, per tutte le donne e gli uomini, della pluralita dei tempi che scandiscono la vita umana e sul riconoscimento di alcuni tempi di lavoro, di studio, per la cura, come diritti, sottraendoli alla forma della mercificazione». 


Era inoltre riuscita a disvelare  le insidie  nascoste nel pensiero della differenza» alieno a ricercare  un consenso per così dire “allargato” che pur producendo raffinati materiali sul piano filosofico, divaricava - allora come oggi - il piano del vissuto quotidiano delle donne e delle loro esperienze dalla stessa analisi delle loro specifiche condizioni materiali.


 La Mafai allora ci invitava a non ingnorare la divaricazione che risiedeva in una delle cause della lontananza delle donne, per esempio dalla politica <<Gli uomini hanno prodotto l'infame politichese ma le femministe hanno prodotto un linguaggio ancora piu astruso e incomprensibile (…) Le femministe parlano come una setta esoterica, legata da rituali e parole d'ordine solo a loro noti, cui altri o altre non hanno accesso. Sono diffidente, per istinto ed esperienza, nei confronti di qualsivoglia setta. Confesso che questa, composta di sole donne, in qualche momento mi fa persino paura. L'autoreferenzialita chiude questo pensiero in se stesso, riduce la sua capacità di comunicazione nei confronti del mondo delle donne, lo irrigidisce in teoria è ideologia separata.
Sento in questo il pericolo dello spreco - diceva -  inteso come dissipazione di energie e di intelligenze, ma sospetto anche, in questo, il vantaggio di una valorizzazione di genere. Su questo pensiero si consumano senza dubbio intelligenze e sensibilita, ma si costruiscono anche solidarieta e carriere financo a livello universitario, o vere e proprie lobby, col gioco della inclusione e della esclusione.
Si e costruito su questo pensiero un nuovo ceto politico e scientifico dotato di prestigio ed autorevolezza, che produce ideologia anziché una concreta analisi della condizione femminile nel nostro paese. (…)Si va qui dalla politica delle «quote» alla critica femminista della rappresentanza, fino alla proposta, solo apparentemente bizzarra, di seggi e collegi e liste separate per le donne.


 Di questo si dovra tornare a parlare. La politica delle «quote», nei partiti come nelle istituzioni, e le iniziative per le «pari opportunita», possono essere valutate infatti alla stregua di uno strumento di rottura (magari a tempo), per garantire un incremento della rappresentanza femminile ed evitare discriminazioni a danno delle donne (in questo senso la politica delle «quote» e le iniziative per le «pari opportunita» possono inserirsi anche all'interno di una concezione «emancipazionista» del movimento)(…).


 In fondo, aveva capito che alle donne <<nessuno ha regalato niente>> e forse per questo sentiremo ancora più inconsolabile il vuoto che ci ha lasciato intorno, in un  momento in cui vi è tanto bisogno di punti fermi consistenti, vorrei perciò poter cogliere l’affermazione più sconvolgente rilasciata con acuta sagacia: "Il mondo è cambiato, in peggio o in meglio non importa, è qui che dobbiamo vivere" mi è servita ancora una volta per realizzare la convinzione che la sua lucida azione pragmatica, rimproverava all’immobilismo dei tempi recenti e dunque anche a me, un incontrovertibile monito di partecipazione, che ad oggi può risuonare come lascito testamentario, finalizzato a migliorare  il <<qui>> e <<ora>>.   




   http://www.letteratura.rai.it/articoli/addio-a-miriam-mafai-voce-storica-del-grande-giornalismo-italiano/14123/default.aspx




          Grazie Miriam, non ti dimenticheremo.




                                     




                                   Donna Bruzia