sabato 29 giugno 2013

La Signora delle Stelle Scienziata dell'Universo Celeste...



Margherita Hack, ha dedicato la sua vita allo studio e alla classificazione di molte categorie di stelle, svolgendo attività di divulgaazione e dirigendo un osservatorio astronomico.
 Donna e Scienziata, Intellettuale esemplarmente  Laica ed atea come amava definirsi. 
Era nata a Firenze, ci ha lasciati a 91 anni, una vita intensa e lunga di ricerca e passioni.
 Si laurea nel 1945, con una tesi di astrofisica relativa a una ricerca  sulle cefeidi, una classe di stelle variabili.
 Il lavoro viene condotto presso l'Osservatorio astronomico di Arcetri, luogo presso il quale inizia a occuparsi di spettroscopia stellare, che diventerà il suo principale campo di ricerca.
 Enorme lo sviluppo delle attività didattiche e di ricerca che Margherita Hack ha promosso all'università di Trieste, dove ha dato vita nel 1980 a un "Istituto  di Astronomia" che è stato poi sostituito nel 1985 da un  "Dipartimento di Astronomia", che la scienziata ha diretto fino al  1990.
Dal 1982 Margherita Hack ha inoltre curato una stretta  collaborazione con la sezione astrofisica della 'Scuola internazionale superiore di studi avanzati' (Sissa).
Stella della laicità, della scientificità, dell’astrofisica, è stata ardente sostenitrice della vita.
 Ha saputo spendersi per la piena dignità dei saperi scientifici, contro una cultura ancora troppo gentiliana, che continua a ritenere grave non conoscere una poesia di Leopardi, ma non ugualmente grave, essere totalmente ignoranti ad esempio della rivoluzione solare. 
Margherita Hack Ha saputo guardare il cielo, ne ha scandagliato miliardi di stelle e le molteplici energie che lo governano e che restano ancora da capire e da studiare.
Come Juri Gagarin di ritorno dal suo viaggio cosmico, ha affermato con forza che non vi ha trovato dio - certamente non quello poliedrico e multiforme che nei secoli si è dato l’uomo e che in ogni caso è profonda parte delle culture umane -  così lei è rimasta ferma e forte nelle sue idee laiche e laiciste.
Ha saputo conservare sempre intelligentemente sorridente la sua integrità.
Era stato richiesta a presidenti della Repubblica ottusamente sordi alla voce dei cittadini, la sua nomina a senatrice a vita, a cui Lei sapeva rispondere con un sorriso acceso di chi Stella, merita di poter portare piuttosto il nome di un astro celeste: una stella, magari anche piccola piccola e luminosa, splendente; piuttosto che lo stendardo della politica che certo lei donna scienziata avrebbe onorato della sua  intelligenza di donna che aveva a cuore le altre donne e di scienziata.
Fulgido l'esempio dei suoi insegnamenti.
  Ci piacerebbe ritrovarti in una notte tersa, luminosa e splendente nel cielo, ogni volta che  potremo alzare lo sguardo, ritrovandoti nell’incommensurabile vastità del cielo, ti rivedremo sorridente e allegra; integerrima  come quando alternando la stesura di testi scientifici universitari, alla scrittura di testi a carattere divulgativo, parlavi ai ragazzi delle scuole o agli scienziati del mondo.
 Il trattato "Stellar Spettroscopy", scritto a Berkeley nel 1959 assieme a Otto Struve (1897-1963) è considerato ancora oggi un testo fondamentale.

 Nel tempo Margherita  Hack ha collaborato con numerosi giornali e periodici specializzati,  fondando nel 1978 la rivista "L'Astronomia" di cui è  stata a lungo direttore.
 Nel 1980 ha ricevuto il premio "Accademia dei Lincei" e nel 1987 il premio "Cultura della Presidenza del Consiglio".
Il profondo cordoglio per la scomparsa di Margherita Hack "Ci lascia una donna eccezionale, che ha dedicato la sua vita allo studio, alla ricerca e alla divulgazione scientifica, senza mai dimenticare l'impegno per le battaglie civili e politiche. Ne sentiremo la mancanza". (Carrozza)
 L'Italia e la comunità internazionale perdono una protagonista assoluta della ricerca scientifica. Una donna che è stata, inoltre, capace di affiancare con passione l'impegno professionale a quello sociale e politico. Una testimonianza che resterà preziosa"(Letta)

Ciao Margherita non smettere di guardarci... 



venerdì 28 giugno 2013

ROSSELLA CASINI: UN VOLTO CONTRO LA MAFIA


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Rossella Casini
A trentadue anni dalla sua scomparsa, Rossella Casini ritrova il suo volto.
 Della giovane studentessa fiorentina, ‘punita’ per aver spinto alla collaborazione il fidanzato calabrese, e fatta scomparire nel nulla una domenica di febbraio del 1981 a Palmi, non era rimasta neanche una foto.
 La madre Clara e il padre Loredano, che hanno disperatamente cercato per anni la loro unica figlia, non ci sono più.
In Borgo La Croce 2, dove la famiglia viveva, non c’è più traccia dei Casini e Rossella fa parte di quel gruppo di vittime di mafia dimenticate, senza una famiglia che le ricordi, senza una tomba su cui piangerle e, soprattutto, senza giustizia (i presunti assassini di Rossella sono stati tutti assolti).
 Negli ultimi mesi la storia di Rossella ha ritrovato l’attenzione che meritava grazie a un appello lanciato dalla stampa locale fiorentina e alla pubblicazione diIo parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta (Castelvecchi, 2013), il libro della giornalista calabrese Francesca Chirico, redattrice dell’archivio multimediale Stopndrangheta.it che attraverso i suoi attivisti porta avanti un lavoro di recupero della memoria delle vittime di ‘ndrangheta.
Ma pochi giorni fa, grazie alla disponibilità dell’Ateneo fiorentino, e in particolare dell’Archivio storico dell’Università di Firenze, Rossella ha ritrovato il suo volto.
 L’Ateneo della sua città ha concesso infatti l’autorizzazione a pubblicare la foto del libretto universitario di Rossella Casini: Facoltà di Magistero, corso di laurea in Pedagogia (aa. 1978-79).
 Il suo sguardo dolce e determinato, la sua espressione di donna bambina che si apre alla vita, è stata così restituita ai fiorentini e a quanti in questi anni hanno seguito, con amarezza e speranza, la sua triste storia. 
Un omaggio che restituisce dignità a memoria a una ragazza coraggiosa, vittima di una violenza inaudita e inaccettabile.
Andrea Bigalli, coordinatore regionale della sezione toscana di LIBERA (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), è stato tra i primi ad accogliere la notizia con grande soddisfazione: “Dare volto alla memoria.
 Ritrovare un’immagine del volto di Rossella Casini è ricordare che gli individui si riconoscono - anche nella loro dignità personale - nei tratti somatici della faccia, elemento distintivo di ogni persona da un'altra” – ha dichiarato Bigalli – “Gli occhi che ci guardano da questa foto sono il monito a non far si che si possa sequestrare, violentare, uccidere e oltraggiare un corpo, senza conoscere la reazione della giustizia e, ancor prima e ancora di più, la reazione civile della pubblica opinione: chenon voglia dimenticare e non si stanchi mai di chiedere e di operare giustizia”. 
LIBERA, che da anni segue la vicenda di Rossella Casini, ha dedicato proprio a lei il presidio di Viareggio.
"Rossella Casini ha avuto la sventura di incrociare la parte peggiore e minoritaria della Calabria – afferma Francesca Chirico, che ha dedicato il suo libro proprio alla famiglia Casini – “Aver contribuito a recuperare la sua storia e il suo volto alla memoria collettiva, riconsegnando Rossella alla sua città, ha rappresentato per noi dell'archivio Stopndrangheta.itanche una doverosa forma di riparazione da parte dell'altra Calabria, quella maggioritaria, che combatte e resiste.
Un riparazione impossibile, però, fino a quando alla memoria di Rossella non si unirà anche la giustizia per Rossella. Non bisogna dimenticare, infatti, che l'omicidio della giovane fiorentina è ancora senza colpevoli".




Fonte: ToscanaOggi.it

mercoledì 19 giugno 2013

La Convenzione di Istanbul è legge


L'aula del Senato ha votato all'unanimità la legge sulla violenza contro le donne. Era già stata approvata alla Camera. Fra gli obiettivi della normativa quello di individuare una strategia condivisa per il contrasto della violenza sulle donne, ma anche la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori.



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Dunque finalmente c'è una Legge. il Senato della Repubblica Italiana ha ratificato la convenzione di Istanbul contro la violenza alle donne. 

La convenzione, già approvata dalla camera, è ora legge. 

E' motivo di grande soddisfazione che la prima ratifica approvata dalle camere nella nuova legislatura sia quella della convenzione di Istanbul - ha detto il ministro degli esteri, Emma Bonino, secondo cui "l'impegno corale e unitario delle forze politiche è un segnale di alto valore e significato per la sempre maggiore affermazione dei diritti della donna nella società". "Adesso  - ha aggiunto Bonino - è prioritario proseguire nell'azione di sensibilizzazione verso i nostri partner affinché ratifichino al più presto la convenzione e ne permettano la rapida entrata in vigore".

La Convenzione in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, chiamata comunemente Convenzione di Istanbul, è stata approvata dal Comitato dei ministri dei paesi aderenti al Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma dall'11 aprile 2011.

 Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza. 

Più precisamente, la finalità è quella di "prevenire e contrastare la violenza intrafamiliare e altre specifiche forme di violenza contro le donne, di proteggere e fornire sostegno alle vittime di questa violenza nonché di perseguire gli autori".

La Convenzione, che da oggi è legge in Italia, ha tra i suoi principali obiettivi l'individuazione di una strategia condivisa per il contrasto della violenza sulle donne, ma anche la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori. 

La Convenzione mira inoltre a promuovere l'eliminazione delle discriminazioni per raggiungere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini.

 Ma l'aspetto più innovativo del testo è senz'altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.

Nella Convenzione, tra l'altro, viene riconosciuta ufficialmente la necessità di azioni coordinate, sia a livello nazionale che internazionale, tra tutti gli attori a vario titolo coinvolti nella presa in carico delle vittime e la necessità di finanziare adeguatamente le azioni previste per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno, nonchè per il sostegno alle vittime e lo sviluppo dei servizi a loro dedicati.

E' prevista anche la protezione e il supporto ai bambini testimoni di violenza domestica e viene chiesta la penalizzazione dei matrimoni forzati, delle mutilazioni genitali femminili e dell'aborto e della sterilizzazione forzata.

 Si riconosce infine il ruolo fondamentale svolto dalla società civile e dall'associazionismo in questo settore.

                                                                                Redazione

mercoledì 12 giugno 2013

La paura del popolo


 


Troike, Comitati di Saggi, Spionaggio, loschi "intrallazzi".
Sembra Ritornare l’Antica Paura del Suffragio Sniversale.

Il Popolo Smoderato e Incolto deve essere vigilato.

Le Costituzioni,  fatte proprio per proteggere i cittadini dai soprusi delle cerchie dominanti, sono aggirate, e magari in un modo o nell'altro si cercano riforme, non sapendo bene   cosa "riformare".

Ovunque le democrazie sono alle prese con i danni collaterali di questa ferrea legge oligarchica. 
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Di tanto in tanto, quando si temono rivoluzioni, o si fanno guerre, oppure nel mezzo di una crisi economica che trasforma le nostre esistenze, torna l’antica paura del suffragio universale.

Del popolo che partecipa alla vita politica, che licenzia i governi inadempienti e ne sceglie di nuovi, che fa sentire la propria voce. 
È la paura che le classi alte, colte, ebbero già nella Grecia classica. 
Aristotele paventava la degenerazione democratica, se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge. 
Ancora più perentorio un libello anonimo (La Costituzione degli Ateniesi, attribuito a Senofonte) uscito nel V secolo aC: «In ogni parte del mondo gli elementi migliori sono avversari della democrazia (…). 
Nel popolo troviamo grandissima ignoranza e smoderatezza e malvagità. 
È la povertà soprattutto, che lo spinge ad azioni vergognose». 
Il dèmos respinge le persone per bene: «vuole essere libero e comandare, e del malgoverno gliene importa ben poco ». 
Sotto il suo dominio tutte le procedure si rallentano, ed è il caos che oggi chiamiamo ingovernabilità.

L’orrore del populismo o dei democratici demagoghi ha queste radici, che Marco D’Eramo illustra con maestria in un saggio uscito il 16 maggio su Micromega.

Ma è dopo la Rivoluzione francese, e in special modo quando comincia a estendersi gradualmente il diritto di voto, nella seconda parte dell’800, che fa apparizione un’offensiva ampia, e concitata, contro il suffragio universale. 
Inorridiscono i democratici stessi.
 Nei primi anni del ’900, il giurista Gaetano Mosca vede già le plebi e le mafie del Sud distruggere istituzioni e buon governo.
 È diffusa l’idea che i migliori, e le migliori politiche, saranno travolti e annientati dal popolo elettore.
 Si formano chiuse oligarchie, con la scusa di tutelare il popolo dai suoi demoni.

È una paura che va a ondate, e non sempre l’oggetto che spaventa è esplicitamente indicato.
 Quella che oggi torna a dilagare pretende addirittura di salvare la democrazia, imbrigliandola e tagliando le ali estremiste (gli «opposti estremismi», spiega d’Eramo, diventano sinonimi di populismo). 
Ma gli elementi dell’annosa offensiva contro il suffragio universale sono tutti presenti, sotto traccia. 
Il popolo smoderato e incolto va vigilato, spiato: o perché chiede troppo, o perché rischia di avere troppi grilli per la testa. 
Sono aggirate anche le Costituzioni, fatte per proteggere i cittadini dai soprusi delle cerchie dominanti. 
Ovunque le democrazie sono alle prese con i danni collaterali di questa ferrea legge oligarchica.

Accade proprio in questi giorni in America, dove prosegue una guerra antiterrorista sempre più opaca, condotta senza che il popolo (e neppure gli alleati per la verità) possa dire la sua.
 Il culmine l’ha raggiunto Obama, che pure aveva criticato la torbida sconfinatezza delle guerre di Bush.
 Il 6 giugno, viene svelata un’immensa operazione di sorveglianza dei cittadini americani da parte dell’Agenzia di sicurezza nazionale: milioni di numeri telefonici e indirizzi mail, raccolti non in zone belliche ma in patria col consenso segreto di vari provider. 
Indignato, il New York Times commenta: «Il Presidente ha perso ogni credibilità» (poi per prudenza rettifica: «Ha perso ogni credibilità su tale questione »).

Analogo orrore dei popoli è ravvivato dalla crisi economica, governata com’è da trojke e tecnici separati dai cittadini: anch’essa, come la guerra, va affidata a pochi che sanno (poche persone per bene, pochi migliori, direbbe lo Pseudo-Senofonte).
 Gli ottimati sapienti stanno come su una zattera, e non a caso il loro nome è «traghettatori». 
Sotto la scialuppa ribolle il popolo: forza infernale, miasma imprevedibile e contaminante. 
Infiltrato da meticci, demagoghi, gente colpevole due volte: sia quand’è sprecona, sia quando non consuma abbastanza. Sono invisi anche gli sradicati, o meglio chi pensa all’interesse generale oltre che locale: se vuoi lusingare un partito, oggi, digli che non è un meteco ma «ha un forte radicamento territoriale». 
Nei cervelli dei traghettatori s’aggira il fantasma, temuto come la peste dagli anni ’70, dell’esplosione sociale e dell’ingovernabilità.

È in questa cornice che le parole si storcono, sino a dire il contrario di quel che professano. 
La riforma significava miglioramento delle condizioni dei cittadini, del loro potere di influire sulla politica. 
Furono grandi riforme il suffragio universale, e subito dopo l’introduzione del Welfare: ambedue malandate. 
Adesso il riformista escogita strategie per tenere al guinzaglio gli eccessi esigenti dei governati. 
Il proliferare in Italia di comitati di saggi (per cambiare la Costituzione, per il Presidenzialismo) è sintomo di un crescente scollamento di chi comanda dal popolo, e al tempo stesso dai suoi rappresentanti. 
Ci si adombra, quando il Parlamento è definito una tomba. 
Per fortuna non lo è. Ma un Parlamento fatto di nominati più che di veri eletti somiglia parecchio a un sepolcro imbiancato: e così resterà, finché non avremo diritto a una legge elettorale decente.

Tale è la paura del popolo-elettore, che per forza quest’ultimo si ritrae e fugge. 
Si esprime in vari modi (nei referendum, sul web, attraverso la stampa indipendente) ma ogni volta sbatte la testa contro un muro. 
Lo Stato ne diffida, al punto di spiare milioni di cittadini come in America. 
E i nemici peggiori diventano i reporter e le loro fonti, che gettano luce sulle malefatte dei governi. 
Nel 2010 fu il caso di Wikileaks.
 Oggi è il turno del Guardiane del Washington Post, che hanno scoperchiato il piano di sorveglianza spionaggio (nome in codice: Prism) del popolo americano. 
Non restano che loro, fra lo Stato-Panoptikon che ti tiene d’occhio e i cittadini mal informati.
 In inglese le gole profonde che narrano i misfatti si chiamano whistleblower: soffiano il fischietto, in presenza di violazioni gravi della legalità, e antepongono il dovere civico alla fedeltà aziendale.
 Ben più spregiativamente, politici e giornali benpensanti li definiscono spie, se non traditori. «Non chiamateli talpe!», chiede molto opportunamente Stefania Maurizi su Repubblica online di lunedì.
 Il soldato Bradley Manning, che smascherò tramite Wikileaks i crimini Usa nella guerra in Iraq, è da 3 anni in prigione. Ora è processato, rischia l’ergastolo.

Il whistleblower che ha rivelato il piano di sorveglianza voluto da Obama è Edward Snowden, 29 anni, ex assistente della Cia e della Nsa: è rifugiato a Hong Kong, e da lì fa sapere: «L’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) ha costruito un’infrastruttura che intercetta praticamente tutto. 
Con la sua capacità, la vasta maggioranza delle comunicazioni umane è digerita automaticamente, senza definire bersagli chiari.
 Se volessi vedere le tue email o il telefono di tua moglie, devo solo usare le intercettazioni. 
Posso ottenere le tue email, password, tabulati telefonici, carte di credito. 
Non voglio vivere in una società che fa questo genere di cose. Non voglio vivere in un mondo in cui ogni cosa che faccio e dico è registrata. Non è una cosa che intendo appoggiare o tollerare».

Il popolo reagisce ai soprusi e all’indifferenza del potere in vari modi: impegnandosi in associazioni (ricordiamo i referendum italiani sul finanziamento dei partiti e sull’acqua, o il voto contro il Porcellum); oppure ritirandosi quando si accorge di non contare nulla. 
Altre volte smette di credere e diserta le urne, come alle amministrative di questi giorni. 
Ma sempre potrà sperare di avere, come alleati, i whistleblower che toglieranno il sigillo alle illegalità, alle cose nascoste o sporche della politica. 
Ecco cosa produce lo sgomento causato dal dèmos.

Il popolo stesso s’impaura, entra in secessione. 
La paura del suffragio universale non è mai finita, sempre ricomincia. 
Nacque nell’800, ma come nella ballata di Coleridge: «Dopo di allora, ad ora incerta – Quell’agonia ritorna».


                                                           Barbara Spinelli










Fonte: La Repubblica

lunedì 10 giugno 2013

Perché cambiare la Costituzione?




Perché avviarsi in gran fretta verso la riforma costituzionale? 
Perché non sono più le leggi a uniformarsi alla Costituzione, ma è questa a doversi piegare ai dettati neoliberisti. E l’ossessione “governabilità” guida la nuova legge elettorale. Dietro le “larghe intese”, il ridisegno costituzionale calpesta la democrazia


Credo che nessuna delle democrazie europee abbia furia di cambiare la propria Costituzione come l’Italia. 
Uno apre il giornale e trova un giorno sì e un giorno no l’annuncio di modifiche urgenti. 
Sabato scorso, il Presidente della Repubblica ci ha informato che vigilerà sui tempi dei cambiamenti, che auspica molto rapidi; anche se in un sistema come il nostro, a dire il vero, il suo compito non sarebbe vigilare sui tempi dei cambiamenti ma sulla fedeltà e permanenza della legge fondamentale sulla quale è stata incardinata la nostra Repubblica.

È dunque da discutere, prima di ogni altra cosa, se i cambiamenti siano necessari oppure, al contrario, rappresentino un vulnus all’immagine fondamentale che ci siamo dati dopo il fascismo. 
Che cosa sarebbe cambiato nella nostra società al punto da dover mutare i principi stabiliti nel 1948? In verità, come si vede facilmente, è cambiato soprattutto il punto di vista dominante sulla struttura sociale, come se il trionfo del neoliberismo su un impianto che era, come dovunque in Europa, piuttosto keynesiano, comportasse non l’adeguamento delle leggi normali ai principi costituzionali – come dovrebbe essere – ma il contrario. È un problema, anzi – diciamolo – una “malattia” che dovrebbe farci riflettere.

Di fatto, la prima parte della Costituzione del 1948, mancando perlopiù di una regolamentazione legislativa, resta puramente ottativa: che l’Italia sia una repubblica fondata sul lavoro non è che un auspicio, come il diritto di ciascuno ad avere un impiego o una casa. 
La prima Repubblica ha vissuto al proprio interno lo scontro fra chi voleva rendere effettivi questi principi e chi vi si opponeva; sono rimasti in gran parte irrealizzati.
 La seconda o terza Repubblica (dipende dai punti di vista) si dà da fare sia a destra sia a sinistra per modificare la seconda parte della Costituzione, cioè l’assetto istituzionale italiano. 
Già lo ha fatto sul Capitolo V un governo di centrosinistra e adesso quello delle “larghe intese” sembra tutto tentato nientemeno che dal presidenzialismo, preferibilmente “alla francese”, perché sembra meno rigido, in quanto obbliga il presidente, eletto a suffragio universale, ad avere però l’accordo del parlamento, anche se eletto da una maggioranza diversa.

In verità quella francese, ideata da De Gaulle, è un monarchia sotto veste repubblicana, abbastanza laica, ma nella quale onori e oneri del presidente sono evidentissimi. 


Probabilmente De Gaulle li ha voluti per fare la pace in Algeria senza dover passare dalle Camere, come Mitterrand ha abolito la pena di morte.

 Ma ne è conseguita, e permane, una diminuzione clamorosa del ruolo del parlamento. Se l’Italia deve seguire questa strada, mi sembra elementare che si debba discuterne, almeno quanto ne discussero i padri costituenti; non sarebbe decente che le “larghe intese” fra due o tre grossi partiti decidessero tutto.

Per conto mio, da semplice cittadina che viene da lontano, penso che la discussione vada aperta subito e sono lontana dal credere che il presidenzialismo sia una buona soluzione a problemi e scogli tutti politici, e niente affatto istituzionali. È persino stupefacente che oggi molti movimenti e tutti i partiti, non solo i Cinque stelle, domandino il massimo del riavvicinamento della politica ai cittadini e il massimo del potere nelle mani di uno solo, come sarebbe il presidente. È il paradosso dell’odierna confusione che regna. E si deve al fatto che i partiti, considerati dalla Costituzione canali necessari della rappresentatività, sono diventati all’opposto il collo di bottiglia attraverso il quale è costretta la rappresentanza, con i relativi difetti e quando non l’illegalità. Contro se stessi, i partiti non hanno finora accettato di darsi degli statuti e delle regole che ne garantiscano realmente la trasparenza, ma potrebbero darseli.

Questo vale anche per il finanziamento che potrebbe essere non solo ridotto, ma soprattutto tale da garantire al sistema partitico di rinnovarsi, invece che, come ora, riprodurre soltanto i più forti. Come può presentarsi oggi un partito nuovo? Sono le elezioni che ne confermano o smentiscono la legittimità e il ruolo, tutta la questione del “voto utile” si impaluda qui; se in partenza ad ogni elezione i diversi partiti sono in una diversa posizione di forza e di mezzi, è evidente che ogni competizione viene falsata: nessuna gara sportiva accetterebbe un sistema analogo. Per cui abbiamo pochi grandi partiti difficilissimi da intaccare e piccole formazioni che non riescono ad affermarsi oppure – variante che preoccupa gli uni e gli altri – spinte populiste, del tutto aliene da qualsiasi regola, generalmente nelle mani di un paio di capi, più o meno carismatici, schiamazzanti e incontrollati.

La difficoltà di darsi una legge elettorale che non sia l’attuale capolavoro di Calderoli viene da questa situazione preliminare. È sorprendente come la si accetti, quasi fosse una necessità e non una violazione di quel principio costituzionale per il quale ogni cittadino è uguale nel voto e dovrebbe quindi essere uguale nel diritto a farsi rappresentare. Da un bel po’ di anni, sia a destra sia a sinistra questo principio è stato abbattuto dalla priorità data al concetto di “governabilità”: in parole povere, esso significa passar oltre alla rappresentanza integrale per assicurare artificialmente, attraverso sbarramenti o premi, a una minoranza espressa dal voto una maggioranza di seggi nelle istituzioni legislative. Che non si riesca, perché da quasi nessuna parte lo si vuole, neppure a ridurre il premio di maggioranza attuale, che sposta del tutto la rappresentanza, appare addirittura sorprendente. Di che democrazia stiamo parlando? L’Italia è realmente una democrazia parlamentare o una oligarchia formata dai vertici di alcuni grandi partiti, che dominano le istituzioni? Una come me pensa che i partiti siano necessari per raggruppare e ordinare le diverse idee di società e le misure legislative che ne conseguono; ma non sono affatto la democrazia in sé. Questo è il problema principale di oggi, e implica che ci si confronti di nuovo su cosa intendiamo per democrazia nel 2013. Il documento di Fabrizio Barca, che nessuno in Parlamento discute, affronta in modo interessante il passaggio – che sembra obbligato – fra democrazia rappresentativa e formazione dello stato. Passaggio che sarebbe eliminato se si riconoscesse la differenza radicale fra ruolo dei partiti e ruolo, anzi natura, dello stato.

Fin qui il cambiare o mantenere la Costituzione sembra un tema che riguarda gli assetti istituzionali, che pure sono essenziali, ma non si tratta solo di questi. L’intera struttura dei diritti sociali ne dipende, giacché è evidente che quel che chiamiamo un po’ approssimativamente il welfare si esprime in modo diverso secondo le diverse ideologie, cioè la coscienza di sé e la proposta di assetto istituzionale e di società che avanzano le diverse parti politiche e “sociali”. L’ideologia capitalista tende a ridurre il welfare, cioè i diritti vitali dei cittadini rispetto non soltanto allo stato ma ai poteri economici; la sinistra più o meno socialisteggiante tende, anzi – per la verità – tendeva, ad allargarli; l’ideologia “liberale” a restringerli.

Ne deriva un’idea diversa, per non dire antagonista, delle principali regole economiche: la destra vuole ridurre al minimo la fiscalità, intesa come presenza di uno stato regolatore con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze. La sinistra tende ad ampliarla in senso progressivo (con l’eccezione dell’ipotesi comunista, che anch’essa sarebbe in linea di principio antistatalista, ma in concreto non è mai riuscita ad esserlo, cioè ad esprimere un sistema di regole che non siano “lo stato”). Lo stesso ragionamento vale per la politica “economica”: la destra la vuole lasciare interamente alla mano invisibile del mercato, la sinistra la vorrebbe (la voleva) capace di raddrizzarne le disuguaglianze in nome di un primato dell’equità sociale (quanto questo concetto sia vago è un altro discorso).

Inutile dire che le altre politiche “sociali” ne conseguono. Predicare che fra di esse debbano prevalere “le larghe intese” significa presumere l’esistenza di un interesse comune che in realtà non esiste e, nella migliore delle ipotesi, lasciare le cose come sono, cioè, in Italia, a una vasta predominanza degli interessi costituiti del capitale, oggi dominato dalla finanza; interessi che – ormai è chiaro – non significano neppure garanzia di una crescita produttiva, magari crudele ma sicura. Ecco come agli occhi di una semplice cittadina si presenta il tema delle riforme istituzionali e in esse del presidenzialismo. Vale la pena, anzi è urgente, discuterne nel modo più chiaro e più a fondo. Può darsi infatti che le stesse premesse da cui la sottoscritta cittadina parte siano da discutere; ma allora bisogna farlo nel modo più esplicito.

                                                           Rossana Rossanda





Mettiamo che... La Scuola ... Gli Insegnanti e magari la Costituzione...


Dal mondo della scuola, da Bologna e da Napoli, arrivano indicazioni significative per stabilire quale debba essere oggi la politica costituzionale, e che mettono in evidenza l’importanza delle iniziative dei cittadini e l’illegittimità di vincoli economici che possono pregiudicare i diritti fondamentali delle persone. 
Grandi questioni di principio entrano così, con la forza della concretezza, in una discussione costituzionale da troppo tempo confinata in astratte e rischiose operazioni di “ingegneria istituzionale”, con scarsa considerazione dei principi da rispettare e disattenzione crescente per le essenziali questioni dei diritti.

È ormai ben noto che un gruppo di cittadini bolognesi aveva promosso un referendum sul finanziamento pubblico alle scuole materne private, ricordando che l’articolo 33 della Costituzione riconosce il diritto dei privati “di istituire scuole senza oneri per lo Stato”.
 Veniva così messa in discussione una linea di politica scolastica nazionale e locale costruita negli anni da maggioranze diverse, che aveva aggirato la norma costituzionale riconoscendo ai privati cospicui finanziamenti.

Contro il referendum si era costituito un massiccio schieramento che vedeva insieme il Pd, il Pdl e la Curia. 
Sembrava così che il risultato fosse scontato. E invece contro il finanziamento si è pronunciato il 58,8% dei votanti, smentendo non solo le previsioni, ma pure l’accusa secondo la quale si trattava di una iniziativa estremista e minoritaria, che metteva in discussione il diritto dei bambini appartenenti alle famiglie più svantaggiate.
 Se, infatti, si analizzano i risultati del voto quartiere per quartiere, emerge con nettezza il fatto che il sostegno al referendum è venuto proprio dalle zone più popolari dov’è più forte l’elettorato di sinistra che, dunque, non si è allineato alla posizione ufficiale del Pd. 
Si è cercato di sminuire il significato del referendum insistendo sulla bassa affluenza alle urne (28,7%). Argomento debole, soprattutto in tempi di astensionismo generalizzato.

Ma il risultato bolognese si presta a riflessioni di carattere generale. 
La prima riguarda la fedeltà alla Costituzione e la voglia delle persone di impegnarsi in iniziative che difendono principi: e questa è una indicazione importante in una fase in cui si vuole avviare una stagione di riforme che rischia di mettere in discussione proprio aspetti fondamentali del testo costituzionale. 
La seconda si riferisce alla necessità di rispettare il risultato del voto referendario, anche se, come nel caso di Bologna, non ha valore vincolante.
 E, infatti, personalità eminenti del mondo cattolico, che si erano schierate a favore del mantenimento del finanziamento ai privati, hanno responsabilmente sottolineato la necessità di tenere comunque conto della volontà popolare.

La questione del rispetto dei risultati referendari non è nuova. 
Da due anni, da quando ventisette milioni di elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua, è in corso una guerriglia che vede istituzioni pubbliche impegnate nell’illegittimo tentativo di vanificare il risultato di quel voto.
 E negli ultimi tempi si è ripetutamente insistito sul fatto che, nel 1993, il 90% degli elettori votò a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, poi mantenuto in vita con diversi artifizi.
 Sembra, invece, essersi perduta la memoria di quei sedici milioni di cittadini che nel 2006, votando contro la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza berlusconiana l’anno precedente, confermarono l’impianto della Costituzione, opponendosi a forzature che avrebbero accentuato i rischi della concentrazione autoritaria del potere.

Vale il richiamo al referendum sul finanziamento ai partiti e non quello sulla fedeltà alla Costituzione? Due pesi e due misure? Certo, i risultati referendari non escludono la possibilità di riprendere in esame i temi affrontati e nella mozione appena approvata dalle Camere sull’iter delle riforme costituzionali si dice esplicitamente che un referendum sarà possibile. 
Ma, istituzionalmente e politicamente, è preoccupante la disattenzione per una opinione pubblica che ha ripetutamente mostrato un orientamento ostile alle semplificazioni autoritarie del sistema costituzionale e la sua attenzione ai principi che lo fondano.

Principi che non possono rimanere sulla carta e che, quindi, non possono essere messi tra parentesi con l’argomento dei vincoli imposti dalla crisi economica. È questo il grande significato di una decisione della Corte dei conti che ha giudicato legittima una decisione del Comune di Napoli anch’essa legata al funzionamento delle scuole. Che cosa aveva fatto il Comune? Aveva approvato una delibera che consentiva la nomina degli insegnanti necessari per il funzionamento delle scuole dell’infanzia e degli asili nido, delibera che formalmente si poneva in contrasto con i divieti imposti dal patto di stabilità ai Comuni con pesanti buchi nel bilancio.

La questione era finita davanti alla sezione campana della Corte dei conti, che doveva appunto accertare la legittimità dell’iniziativa presa dagli amministratori napoletani. L’argomentazione del Procuratore regionale è molto netta: “I pur fortissimi diritti di contenuto economico e finanziario posti a salvaguardia dell’integrità dei bilanci pubblici non possono incidere sui diritti fondamentali della persona”. 
E qui le persone sono le bambine e i bambini che sarebbero stati privati proprio della possibilità di accedere ad un servizio essenziale, come quello scolastico, con evidente violazione del diritto all’istruzione, elemento costitutivo del diritto costituzionale al libero sviluppo della personalità.
 Nella delibera del Comune, peraltro, si affrontava anche il tema della riduzione di altre spese, non altrettanto indispensabili, per sostenere quelle relative all’assunzione degli insegnanti.

Sulla base di una dettagliata analisi delle norme vigenti e degli orientamenti delle corti italiane e europee viene così messa radicalmente in discussione la subordinazione dei diritti fondamentali alla logica economica, che sembra essere divenuta l’unica norma di riferimento del tempo che viviamo.
 Si blocca così una deriva che ha portato a vere e proprie sospensioni delle garanzie costituzionali.
 Il caso napoletano dovrebbe allora imporre un riflessione generale ad una politica disattenta e che sembra non più attrezzata per affrontare questioni di tale portata. Che però non possono essere eluse, perché intorno ad esse si costruisce quella politica costituzionale di cui sempre più si avverte il bisogno.

La scuola pubblica, scriveva Piero Calamandrei, è “organo costituzionale”. 
Quella definizione torna alla mente perché da lì, dal luogo dove principi fondativi e formazione civile s’incontrano, viene oggi una spinta forte per uscire dalla regressione nella quale stiamo sprofondando e per indicare alla politica l’orizzonte largo nel quale deve muoversi per recuperare credito e nobiltà.

                                                          
                                                         

                                                        Stefano Rodotà







Fonte: la Repubblica

Acqua, acqua un bene di Tutti

Sono intercorsi due anni dal referendum ad oggi disatteso "sull'acqua pubblica" il voto di 26 milioni di italiani polverizzati nel nulla,  i profitti dei privati sui servizi idrici sono immutati.  Restano Solo pochi sindaci, La rivolta dei comitati e nel frattempo il Pd si spacca. Quali incontrovertibili conseguenze.  
Quanto valgono 26 milioni di voti in Italia? Niente. E non servono nemmeno sit-in, proteste, denunce. 

Sono passati esattamente due anni dal referendum sull'acqua pubblica con cui più di metà degli elettori ha chiesto di togliere il profitto dai servizi idrici, e poco o nulla è cambiato.

 Anzi, politici e tecnici non fanno che approvare decreti controcorrente. 

Altro che buttare fuori i privati: a Ferrara il comune, per far cassa, sta vendendo un pacchetto di azioni Hera, la società che riscuote le bollette di buona parte dell'Emilia Romagna e del Nord, da 8 milioni di euro. 


In Campania la giunta regionale si prepara a scontare di 157 milioni di euro il debito accumulato nei suoi confronti da Gori, un'azienda del gruppo Acea: un regalo. 

E da Roma arrivano provvedimenti ancora meno in linea. L'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha imposto un nuovo modello per le tariffe con il quale, denunciano i comitati, ai gestori saranno garantiti i proventi di un tempo, calcolati come prima ma nascosti sotto un altro nome. 

E l'impegno a sottrarre spazi ai privati, riportando l'acqua in mani pubbliche, sbandierato all'indomani dello storico risultato? Lettera morta.

Lo hanno fatto solo quattro sindaci su 8 mila: a Napoli, l'esempio più citato, Vicenza, Palermo e Reggio Emilia. 

Nel resto del Paese tutto è come prima. Tra faide politiche, bilanci disastrosi e trasparenza zero.

VOTO TRADITO

La beffa, per gli italiani che sono andati a votare a giugno del 2011, è arrivata due mesi dopo i festeggiamenti.


 A Ferragosto infatti il governo Berlusconi, con la Finanziaria bis, riammise i privati nella gestione dei servizi locali. Poco dopo anche Mario Monti manovrò in direzione contraria al "fronte dei sì" nel decreto sulle liberalizzazioni. Ma a luglio dell'anno scorso la Corte Costituzionale ha bocciato entrambe le iniziative. E con il niet della Consulta la situazione è tornata a vent'anni fa, ovvero a prima della legge Galli, con cui nel 1994 era iniziata la compravendita delle risorse naturali come beni di mercato. 

Oggi gli enti locali non possono che applicare le uniche norme disponibili: quelle europee. Visto che una legge post referendum ancora non c'è, nessuno obbliga gli ambiti territoriali (municipi raggruppati a seconda del bacino idrico) a cambiare qualcosa e, in tutta Italia, i gestori sono rimasti gli stessi di prima: «Scegliere se seguire l'esito della consultazione o no dipende ora dai politici», spiega Paolo Carsetti, del Forum acqua bene comune.

BOLLETTE D'ORO

Il vero schiaffo ai referendari però non è arrivato dai politici, quanto da un organo tecnico incaricato nel 2011 del controllo sui servizi idrici del Paese: l'Autorità per l'energia elettrica e il gas.


 Il voto aveva sancito infatti l'abolizione definitiva della «adeguata remunerazione del capitale investito» dei gestori. Chiedeva cioè di eliminare i profitti: con le bollette si sarebbero dovuti coprire i costi, non distribuire dividendi. 

Il 28 dicembre del 2012 però l'Autorità ha pubblicato un nuovo modello tariffario, in cui è previsto il rimborso degli "oneri finanziari". Una cifra che finisce, ovviamente, nelle bollette. Secondo i comitati si tratta di una «truffa», che fa rientrare dalla finestra gli utili per i gestori. 

L'Autorità replica: «Il metodo si basa sul criterio europeo del pieno riconoscimento dei costi. Perché se vogliamo che l'acqua sia effettivamente un bene pubblico i costi devono essere coperti».

La delibera dell'Authority guidata da Guido Bortoni, super manager pubblico con uno stipendio da 298 mila euro all'anno (400 mila fino al 2011), ha sollevato altri vespai. 


L'associazione nazionale degli enti d'ambito (Anea) ha calcolato, in un rapporto appena presentato, che per effetto del nuovo modello potremmo subire aumenti del prezzo dell'acqua del 10 per cento, con picchi superiori al 40. Non solo. Grazie a un cavillo inserito nella delibera i gestori potranno mettere a bilancio, oltre ai loro investimenti, anche quelli finanziati con fondi pubblici. Ovvero: lo Stato paga dei lavori e il gestore se li mette fra le spese. E visto che tutti i costi ricadono poi sulla bolletta, gli italiani si troveranno così a pagare lo stesso intervento (dalla tubatura rotta al nuovo depuratore) due volte: con le tasse e con la tariffa. «Siamo stati contrari, fin da subito», dice Luciano Baggiani, presidente dell'Anea: «Per altri aspetti ci hanno ascoltato. Su questo no». Invece per l'Authority non è che «una proposta innovativa per gli interventi a vantaggio della collettività: risorse vincolate alla realizzazione delle opere necessarie».

LA PROTESTA

Contro la nuova tariffa il Forum ha fatto ricorso al Tar in Lombardia. 


L'Autorità si dice tranquilla del risultato: «Attendiamo con serenità che si stabilisca se siamo stati rispettosi dell'esito referendario, come abbiamo sempre voluto essere».

 In attesa dei giudici c'è però chi ha deciso di non perdere tempo.

 È nata così una campagna di "Obbedienza civile": più di 12 mila persone, da Padova alla Puglia, hanno iniziato ad autoridursi la bolletta. 

La protesta funziona come "un'istanza di rimborso", una richiesta scritta ai gestori per farsi restituire la quota illegittima di profitti versata dopo il referendum.

 L'epicentro dei bollettini fai-da-te è Arezzo, dove i cittadini si sono auto-scontati l'acqua del 13 per cento.

 «In oltre 3 mila hanno aderito alla campagna», racconta Stefano Mencucci del comitato locale: «Ogni famiglia ha risparmiato più di 50 euro». 

Qui la battaglia ha macinato in pochi mesi centinaia di sostenitori.
 I 300 mila abitanti della bassa Toscana d'altronde sono stati i primi nella Penisola a passare sotto il controllo dei privati, alla fine degli anni Novanta, e a pagarne le conseguenze. «I costi sono cresciuti del 40 per cento in 15 anni», continua Mencucci: «Di fronte all'autoriduzione l'unica cosa che ha saputo fare il gestore è stato minacciare di staccarci i contatori».

PARTITO SPACCATO

La rivolta contro le tariffe è passata ora alle istituzioni. 


Il 19 aprile 40 comuni toscani tra Firenze e il Mugello hanno bocciato un aumento di più del 10 per cento delle bollette. «Ci sembrava una scelta opaca», commenta Virginia Lombardi, allora assessore all'Ambiente di Pistoia: «Per questo l'abbiamo respinta. Non possiamo continuare a negare il referendum». In risposta alla loro decisione Publiacqua, la società che serve un milione e 277 mila toscani, ha inviato ai sindaci una lettera in cui minaccia il blocco degli investimenti se la nuova tariffa non verrà approvata. E per la sua battaglia la Lombardi ha perso la poltrona: il sindaco, democratico, l'ha sospesa dall'incarico. «Questi temi mettono in difficoltà il Pd», commenta. Nel partito del premier Enrico Letta l'acqua è un tema che divide. Tra i sindaci toscani l'unico favorevole all'aumento è stato Matteo Renzi, da sempre contrario alla ri-pubblicizzazione dei servizi idrici: «Con la vittoria del sì al referendum saltano gli investimenti contro gli sprechi», aveva dichiarato a suo tempo. Su posizioni opposte è un esponente di spicco della stessa corrente, Graziano Delrio, che da sindaco di Reggio Emilia ha sostenuto l'addio del suo comune al colosso Iren. «Abbiamo iniziato il percorso insieme al consiglio comunale», spiega a "l'Espresso" l'attuale ministro per gli Affari regionali: «E ci hanno seguito i comuni della provincia, per arrivare all'affidamento del servizio a una società totalmente pubblica. 

È un percorso ponderato, non demagogico, condizionato al requisito di mantenere una gestione efficiente e una qualità come quelle attuali. Vogliamo essere certi che il tasso di investimenti sul territorio resti lo stesso».

A Torino la maggioranza di centrosinistra guidata da Piero Fassino è in difficoltà: migliaia di abitanti hanno firmato per trasformare la spa locale in un'azienda no profit.


 Il primo cittadino prende tempo, ma i comitati ricordano gli impegni annunciati in campagna elettorale: «Se diventerò sindaco, mi impegnerò a garantire che il servizio di gestione dell'acqua resti pubblico». E in questi giorni a Roma si presenterà un gruppo interparlamentare con l'obiettivo di portare avanti una legge che dia finalmente attuazione al referendum. 

Hanno aderito parlamentari grillini e di Sel. I democratici? Pochi, e a titolo personale.

DODICI ANNI SPESI MALE

La difficoltà del Pd è comprensibile. Il voto di due anni fa è andato a colpire un suo storico bacino di consensi. Hera, fondata a Bologna; l'emiliana Iren, che si espande verso Nord; il monopolio di Acea nel Centro-Sud: sono tutti fortini nati democratici e poi passati al colore di turno seguendo lo spoil system. «Regole disattese, abusivismo incontrollato, favori e lavori impropri, dai lampioni stradali ai muretti dei cimiteri», denuncia Roberto Passino, ex presidente del Comitato di vigilanza sui servizi idrici del ministero dell'Ambiente, soppresso due anni fa: «La gestione dell'acqua, con la sua presenza capillare, è usata per scopi elettorali dai poteri locali».

La confusione tra controllati e controllori genera mostri.


 Come nel caso di Gori, che dal 2002 a oggi ha accumulato debiti per 185 milioni di euro nei confronti della Regione Campania. Per anni ha messo in bilancio crediti praticamente inesistenti, dovuti a un piano tariffario che i sindaci non avevano mai visto, secondo il quale la società avrebbe incassato bollette molto più alte del reale.

Ad approvarlo in sordina nel 2007, da presidente dell'Ambito territoriale, era stato Alberto Irace, che dopo la mossa pro-Gori (sanzionata allora dal comitato ministeriale) è passato in Acea e oggi è amministratore delegato della toscana Publiacqua. Il suo ultimo libro è scritto con Erasmo D'Angelis, renziano di ferro, promosso dalla presidenza della utility fiorentina a sottosegretario alle Infrastrutture.

Anche in Abruzzo il commissario straordinario Pierluigi Caputi ha scoperchiato una situazione disastrosa: 300 milioni di debiti accumulati dai gestori delle reti. Come è potuto succedere? 


Attività opache e inefficienti, sostiene. «Da tempo segnalavamo affidamenti fuori norma e consulenze dubbie, ma nessuno ci ha mai dato risposta», racconta Renato di Nicola del Forum abruzzese. 

A Latina non sono bastate decine di sentenze del Tar a togliere gli acquedotti dalle mani di Acqualatina, il cui socio privato è la multinazionale francese Veolia. 

Il comune di Aprilia da tempo protesta contro il contratto stipulato con la società: sarebbe stato modificato per garantire ricavi sicuri. «L'unica risposta che abbiamo avuto sono stati investimenti bloccati nel nostro territorio, una rappresaglia», racconta Alberto de Monaco del comitato locale.

TRASPARENZA? NO GRAZIE

I servizi idrici, d'altronde, sono un "monopolio naturale": dalle fonti ai rubinetti non ci può esser concorrenza.


 Per questo il controllo delle istituzioni è fondamentale, quanto scarso: le tariffe sono aumentate costantemente dal 2002 (vedi grafico a pagina 51), senza dare risultati concreti sugli investimenti.

 L'anno scorso la Commissione europea ha minacciato nuove sanzioni: se non verrà risolto il problema della depurazione, soprattutto al Sud, dovremo pagare multe da decine di milioni di euro e rischiamo di perdere futuri fondi Ue. 

L'associazione di categoria dei gestori, Federutility, sostiene che i soldi per le infrastrutture ora li dovrebbe mettere il governo, perché gli introiti delle bollette non bastano. «Dopo che per anni ci è stato ripetuto che la tariffa serve a finanziare gli investimenti», replica Corrado Oddi della Cgil: «Ora lo Stato deve intervenire perché il settore è preoccupato di non guadagnare abbastanza. 

Dove sono finiti i milioni intascati finora?».

Difficile rispondere, anche perché «avere informazioni sull'attività svolta è praticamente impossibile», racconta Passino, che con il Comitato di sorveglianza ministeriale ha combattuto per ottenere un database ora abbandonato dalla nuova Autorità. 


Per questo, dicono i comitati, si dovrebbe applicare una nuova idea di "pubblico", lontana dai vecchi carrozzoni lottizzati: «Se fosse garantita la trasparenza e la partecipazione dei cittadini», dichiara Marco Bersani di Attac Italia, «il servizio non potrebbe che essere migliore». 

Le strade, alcune semplici, altre più tortuose, per passare da gestioni private a un controllo no profit dell'acqua ci sono. Basterebbe solo seguire la corrente del referendum.



                                                          Michele Sasso e Francesca Sironi





















Fonte: da L'Espresso, del  7 giugno 2013