lunedì 7 luglio 2014

Ucraina, genesi di un conflitto





Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta.

Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica.

L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma, date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni anni questo è stata.


 Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”.

Non più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da un pezzo, ma antirusso.

Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali.

 E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev?

Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina.

 Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta.

 Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich.

In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.

Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale.

Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica.

Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.

L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev.

Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare.

Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale.

 La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo.

L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli).

 Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra.

Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov.

 Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione.

Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese.

Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale.

 Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.

È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale.

 Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio.

Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.

L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia.

Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio.

Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est.

 L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana.

Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti.

La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%.

 Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.

È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco.

 C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca.

La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.



                                                                                       Rossana Rossanda


FONTE:  da sbilanciamoci.info

martedì 1 luglio 2014

L'INDIFFERENZA UCCIDE PIU' DEL MARE





Il 30 giugno 2014, il giorno stesso in cui si consumava l’ennesima strage nel Canale di Sicilia (trenta morti asfissiati nella stiva di una nave), con involontario senso dell’umorismo nero, il “nostro” Renzi ci invitava all’euforia per il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. 
Anche voi, scriveva, dovreste provare un brivido di piacere per essere chiamati (noi?) a realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
 Un capo di governo sobrio e degno del suo ruolo avrebbe sollecitato i cittadini e le cittadine al cordoglio per le vittime, annunciando un giorno o solo un minuto di lutto nazionale.

La verità è che non commuove più, neanche per un giorno, la teoria quasi quotidiana dei cadaveri restituiti dal Mediterraneo o persi nei suoi abissi.
 Oppure, come quest’ultima volta, intrappolati in imbarcazioni troppo anguste per contenere tutta l’ansia di salvezza di esseri umani travolti dal disordine mondiale, spesso favorito o provocato dalle grandi potenze.
 Quel disordine ha costretto ben 51 milioni di persone (è un dato della fine del 2013) a fuggire da conflitti armati o altre crisi gravi, come ha ricordato l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.

Questa cifra, la più alta dalla fine della Seconda guerra mondiale, è costituita per la metà da bambini. 
Ma neppure il loro numero crescente, fra salvati e sommersi, muove a compassione collettiva, tale da farsi indignazione pubblica e protesta organizzata, di dimensione e forza continentali, contro la fortezza europea.

Neppure le iniziative di movimento, coraggiose ma ancora sporadiche – come la recenteFreedom March di rifugiati e migranti, che, con il No Borders Train, ha violato le frontiere per giungere a Bruxelles – ce la fanno a competere col mare d’indifferenza che riduce questa tragedia a vile computo di salme.
 Computo erroneo, oltre tutto, almeno da parte delle istituzioni, se è vero che per le salme mancano persino le celle frigorifere e per i superstiti il minimo dell’accoglienza. 

E v’è chi volge il dramma a proprio vantaggio politico. 
Alludo all’ondata nera dei partiti che in tutt’Europa s’ingrassano di risentimento, allarmismo e xenofobia, in Italia rappresentati degnamente da Salvini e i suoi compari, leghisti e non. 
Sono quelli che un tempo incitavano a sparare sui barconi dei migranti e oggi s’indignano che Mare Nostrum si adoperi a salvare vite umane, ripetendo il vecchio mantra da analfabeti “Fermiamo le partenze, aiutiamoli a casa loro”.
 Fingono d’ignorare che le “loro case” bruciano e che perciò è impossibile impedire loro di provare a sfuggire all’incendio. 
E, per usare un’altra metafora, presa in prestito da Furio Colombo, “dire che salvare chi è in pericolo in mare incentiva gli sbarchi è come dire che un ospedale incentiva la malattia”.

Mi riferisco anche alla retorica di Renzi e Alfano contro l’Unione europea cinica e bara, “che ci lascia soli e lascia morire le madri con i bambini”. 
Intanto il ministro dell’Interno – è notizia di questi giorni – lascia morire di disperazione una madre strappata ai cinque figli, quattro dei quali minorenni, per essere ristretta in un Cie e poi “rimpatriata” – lei apolide, in Italia da vent’anni – in una “patria”, la Macedonia, di cui non è cittadina.

Anche noi, ridotti all’impotenza, ricorriamo alle cifre per tentare di scuotere qualche coscienza col mostrare la dimensione mostruosa dell’ecatombe.
 Malgrado Mare Nostrum, che pure ha salvato trentamila persone, quasi quattrocento sono probabilmente i morti di frontiera nell’area del Mediterraneo in questi primi cinque mesi del 2014.
 Ed essi vanno ad aggiungersi ai ventimila cadaveri conteggiati approssimativamente dal 1988 a oggi.

Ridotti ogni volta a computare i morti, quando dovrebbe bastare un solo cadavere di bambino a suscitare commozione, indignazione e rivolta, neanche noi siamo innocenti, noi che almeno ci ostiniamo a denunciare la strage.
 Ma la nostra denuncia è impotente a scuotere perfino la sinistra politica italiana detta radicale, che sembra aver derubricato a faccenda minore, da delegare a qualche specialista o a qualche “fissato/a”, una questione che invece è il senso (o uno dei sensi cruciali) dell’Unione europea oggi.

L’Ue, infatti, coltiva l’illusione che il proprio sovranazionalismo, esemplarmente rappresentato dalla fortezza in cui pretende di barricarsi e da Frontex, che ne è il braccio armato, possa contrastare i nazionalismi, anche aggressivi, nominati con l’etichetta eufemistica di euroscetticismo, che vanno rafforzandosi per reazione agli effetti sociali disastrosi della crisi economica e delle politiche di austerità.

E’ da molti anni che le associazioni per la difesa dei migranti e dei rifugiati propongono un programma – razionale, articolato, perfino realistico, nonché aggiornato di volta in volta – per cambiare il segno delle politiche italiane ed europee su immigrazione e asilo. 
Per parlare solo dei rifugiati, si dovrebbe almeno riformare radicalmente Dublino III, che impedisce ai richiedenti asilo i movimenti interni al territorio dell’Ue; soprattutto, come raccomanda lo stesso Unhcr, creare corridoi umanitari e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito, “con adeguate garanzie di assistenza e protezione per chi è in fuga da guerre e persecuzioni”.

Non sono i programmi a mancare, dunque, bensì la volontà politica di uscire da quel paradigma nefasto che concede ai capitali il massimo di libertà di circolazione – e di dominio sulle nostre vite – negandola alle vite, ancor più irrilevanti, dei dannati della terra.

Perciò temiamo che, quand’anche si realizzasse, l’ipotesi ventilata da Juncker di nominare un commissario per le migrazioni e la mobilità, sebbene non priva di qualche valore simbolico, poco ne avrebbe sul piano politico.
 E’ il paradigma che occorrerebbe rovesciare: gli Stati Uniti d’Europa, sì, ma come utopia di una federazione dai confini smilitarizzati, aperta all’altra sponda del Mediterraneo, basata sulla cittadinanza transnazionale, tesa a garantire il diritto alla mobilità e a ogni residente i diritti fondamentali. 


                                                         Annamaria Rivera *


* Versione aggiornata e ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 1° luglio 2014