venerdì 12 agosto 2011

Una Donna da Nobel: Marie Curie


Donna Scienziata Nobel per la Chimica, Marie Curieunica donna a vincere due volte il prestigioso premio è un esempio di rara eccezionalità.

La sua vita ha ispirato testi teatrali, saggi e biografie rivelando una complessità ricca appassionata e sincera.

Maria  Sklodowska (questo il nome di nascita) nacque a Varsavia nel 1867.

 All’epoca, la Polonia era spartita tra Austria, Prussia e Russia zarista e la capitale faceva parte dell'Impero Russo.
Entrambi i genitori di Maria, ferventi patrioti polacchi, erano insegnanti: il padre, professore di matematica e fisica, diresse per anni un liceo statale, mentre la mamma, morta per tubercolosi quando la figlia aveva appena 10 anni, prima del matrimonio era direttrice di una scuola femminile.

La piccola Maria crebbe, insieme al fratello e a tre sorelle, in un ambiente familiare in cui l'istruzione veniva considerata un valore fondamentale.
 Quando il padre fu licenziato per motivi politici, la loro casa fu trasformata in scuola privata.

 Maria aveva molta facilità negli studi e terminò il liceo nel 1883, a soli 15 anni, come migliore allieva.

Dopo il diploma iniziò a impartire lezioni di matematica e fisica, ma la sua aspirazione, condivisa dalla sorella maggiore Bronia, era di continuare gli studi scientifici.
 Poiché in Polonia le donne non avevano ancora la possibilità di frequentare l'università, Maria fece un patto con lei: avrebbe cercato un impiego stabile  come istitutrice privata per permetterle di trasferisi a Parigi per studiare medicina, poi quando Bronia si fosse laureata, l’avrebbe raggiunta. Così fu. 
Maria lavorò per sei anni presso una famiglia molto facoltosa.

Si innamorò, ricambiata, del figlio dei padroni di casa, ma la loro relazione, ostacolata dai genitori di lui per la differenza di censo, si interruppe bruscamente.
 Per questo motivo Maria decise di lasciare la Polonia.





Marie e la sorella Bronia



Aveva 24 anni quando raggiunse a Parigi la sorella che nel frattempo si era laureata, praticava la professione medica e si era sposata con un collega psichiatra.

 Decise di cambiare il suo nome in Marie e si iscrisse alla Facoltà di scienze naturali della Sorbona.

 Frequentava l’ambiente colto dei rifugiati polacchi in Francia e  viveva molto modestamente in una piccola mansarda concentrandosi esclusivamente sullo studio.

Nel 1893 conseguì la licence in fisica (l'equivalente dell'odierna laurea) risultando la miglior studentessa del suo corso. Nell'anno successivo ottenne una seconda laurea in matematica, classificandosi seconda.

 Nel frattempo aveva conosciuto Pierre Curie (1859, 1906), uno scienziato di otto anni maggiore e già molto affermato. Il loro rapporto si consolidò in pochissimo tempo: entrambi avevano in comune molti interessi e ideali e dopo soli  tre mesi di fidanzamento decisero di sposarsi.



Ritratto dei Curie nel giorno del loro matrimonio




Nel 1896 Marie sostenne l'esame di stato in matematica e in fisica e nel l897 nacque Irène, la prima figlia
.
 Con le ricerche per il dottorato iniziò ad avventurarsi nel campo che sarebbe poi stato decisivo per la sua vita. Si occupò infatti della radiazione naturale dell'uranio scoperta dal fisico Henri Becquerel (1852-1908), un fenomeno praticamente inesplorato e che su suggerimento di Marie Curie venne successivamente battezzato con il nome di "radioattività".

Nel 1898 Marie e Pierre Curie scoprirono due nuovi elementi radioattivi, che chiamarono polonio (in onore dell’amata Polonia) e radio. In quattro anni di duro lavoro, svolto in un atelier annesso al laboratorio di fisica della Sorbona, Marie sviluppò un procedimento per l'isolamento del radio ottenendone alcuni milligrammi dalla purificazione di ben 6 quintali di pechblenda, il minerale in cui si trova allo stato naturale. Fu un lavoro estenuante, eseguito senza precauzioni in quanto allora mancava la consapevolezza che si trattava di materiale contaminante.

I Curie rifiutarono di brevettare questo procedimento nonostante sarebbe valso loro un patrimonio e avrebbe significato la fine delle loro condizioni di ricerca disastrose, perché erano convinti che i risultati della scienza dovessero essere a disposizione di tutti.

Nel 1903 Marie terminò il suo dottorato e nello stesso anno ottenne il Premio Nobel per la fisica
, insieme a Pierre e a Henri Becquerel, per la scoperta e l'analisi della radioattività naturale. Inizialmente per il Nobel venne fatto solo il nome del marito e soltanto per le proteste di Pierre, innamorato e conscio del genio di Marie, quest’ultima non ne fu esclusa. Fu però pregata di “stare zitta” alla cerimonia 
e il discorso di accettazione del Nobel fu tenuto solo dal marito. Marie non ne fu risentita, si sentiva tutt’uno con Pierre, il loro matrimonio era molto riuscito. Alla base della loro unione c’erano il grande rispetto che il marito aveva del lavoro e della passione scientifica di Marie, un progetto di ricerca comune e soprattutto una comune visione della scienza come ideale.


Marie con le figlie Eve e Iréne




Dopo il Nobel, a Pierre Curie fu offerta la cattedra di fisica alla Sorbona, mentre Marie venne nominata direttrice di laboratorio e divenne sua assistente. Dopo un aborto spontaneo (forse conseguenza delle radiazioni), nel 1905 nacque la seconda figlia Eva-Denise. L'anno successivo Pierre morì in un orribile incidente, travolto da un carro a cavalli. Marie sprofondò in un grave stato depressivo da cui uscì dedicandosi al lavoro. Le fu infatti offerta la cattedra del marito in qualità di professore incaricato. Due anni più tardi le venne riconosciuto il titolo di professore ordinario. Fu così la prima donna ad ottenere un tale incarico alla Sorbona.

Dopo la morte del marito, tutta la scienza di Marie fu offuscata da una vicenda personale usata contro di lei per infangarla: la relazione con Paul Langevin un collega più giovane, sposato e padre, che invase i giornali, trasformando un premio Nobel in "una straniera ladra di mariti". E confermando l' idea diffusa che la scienza non giova alle donne, rendendole oltretutto immorali e pericolose per la famiglia e la società.


                              
Paul Langevin


La relazione con Paul Langevin per poco non costò alla scienziata anche l'assegnazione del secondo premio Nobel. Nel 1911 infatti Marie Curie fu insignita del prestigioso premio, questa volta per la chimica, quale riconoscimento per l'isolamento del radio e del polonio. Fu la prima persona a vincere due premi Nobel ed è tuttora l’unica donna. In suo onore venne definita "curie" l'unità di misura che rappresenta l'attività di un grammo di radio al secondo, peccato che successivamente fu sostituita con l'unità "becquerel".

Nonostante le sue imprese scientifiche pionieristiche, i numerosi riconoscimenti e la fama mondiale, Marie Curie non venne mai ammessa all'Académie Française des Sciences, poiché i suoi membri non accettavano ancora che una donna facesse parte del loro gruppo. Marie era comunque riuscita, nel 1909 dopo lunghe e dure trattative, a costituire un laboratorio di ricerca presso la Sorbona,l'Institut du Radium, oggi noto come Istituto Curie, dove assunse la direzione della sezione di fisica.

Nel 1914, dopo l'inizio della prima guerra mondiale, Marie fondò e organizzò il servizio di radiologia per il fronte, istruendo a questo scopo un centinaio di infermieri nella tecnica radiologica. Aveva installato una apparecchiatura a raggi X su una piccola vettura (la Petite Curie) e con questa girava per i campi di battaglia della Marna, insieme alla figlia Iréne, facendo radiografie ai feriti. Dopo la guerra proseguì le sue ricerche all’Institut du Radium 
e partecipò a numerose missioni scientifiche all'estero.

                      
Marie alla guida di una “petite Curie”



La salute di Marie Curie risentì molto del lavoro di ricerca che l'aveva esposta per lunghi anni alle sostanze radioattive. 
Negli ultimi anni della sua vita, fu colpita da una grave forma di anemia aplastica, malattia quasi certamente contratta a causa delle lunghe esposizioni alle radiazioni di cui, all'epoca, si ignorava la pericolosità.  Morì nel sanatorio di Sancellemoz di Passy  nell’ Alta Savoia, nel 1934 mentre preparava il suo ultimo esperimento con l'attinio. Ancora oggi tutti i suoi appunti di laboratorio successivi al 1890, persino i suoi ricettari di cucina, sono considerati pericolosi a causa del loro contatto con sostanze radioattive. Sono conservati in apposite scatole piombate e chiunque voglia consultarli deve indossare abiti di protezione.

La figlia maggiore, Irène Joliot-Curie, vinse anch'essa un premio Nobel per la chimica insieme al marito Frédéric Joliot-Curie nel 1935, l'anno successivo la morte della madre. La secondogenita, Eve Denise Curie, scrittrice e redattrice della prima biografia della madre, fu tra l'altro consigliere speciale del Segretariato delle Nazioni Unite e ambasciatrice dell'UNICEF in Grecia.



Il Pantheon di Parigi


Nel 1995 la salma di Marie Curie è stata trasportata, per volere dell'allora presidente della repubblica francese François Mitterand, al Pantheon di Parigi: prima donna accolta in un luogo riservato ai grandi di Francia. Per il timore di contaminazioni radioattive, la sua bara è stata avvolta in una camicia di piombo.



                                                   Cleofe Barziza






La biografia di Marie Curie è tratta dal libro: Sesti Sara, Moro Liliana, Scienziate nel tempo. 70 biografie, LUD, Milano, 2010

BibliografiaCurie Eve, Vita della signora Curie, Milano, Mondadori, 1980
Giraud Françoise, Marie Curie, Rizzoli, Milano, 1982
Curie Marie, Pierre Curie, Cuen, Napoli, 1998
Quinn Susan, Marie Curie una vita, Torino, Bollati Boringhieri, 1998
Enquist Per Olov, Il libro di Blanche e Marie, Milano, Iperborea, 2006
Goldsmith Barbara, Genio ossessivo. Il mondo interiore di Marie Curie, Torino,   Codice edizioni, 2006
Langevin Joliot Hélène, Marie Curie et ses filles, Paris, Pigmalyon,  2011


Film "Marie Curie", tratto dall'omonimo libro di Françoise Giroud, regia di Michel Boisrond, 1943 


lunedì 8 agosto 2011

Le Parole del Cuore della Sofferenza della Vita : Alda Merini e la Lingua Madre ovvero Poesia in forma di rosa.





Mi importa di più essere amata/ per la donna che sono/ che non per il fatto che scriva.”
                                                               (Alda Merini)


Non di rado le persone che parlano sia il dialetto che l’italiano si avvalgono spesso del dialetto, soprattutto quando si tratta di qualcosa che ha a che vedere con le emozioni.
Un’esclamazione di stupore, rabbia o dolore è più verosimile che sia espressa in dialetto come slancio della propria efficacia.
 L’uso del dialetto rappresenta forse la piena applicazione del concetto di Lingua Madre.

La lingua di Alda Merini era lei stessa ogni sua calibrata e ponderata parola poetica perché la Poesia era per lei inevitabile come respirare.

 Per Alda Merini la poesia era la sua lingua madre. Lingua “efficace” e sincera in grado di esprimere  ciò che si ha da dire e che si prova e ciò che è al tempo stesso Razionale ed Emozionale.

Alda Merini era in comunione con la poesia come se la poesia fosse stata la sua carne e la sua carne poesia.

In un articolo apparso sulla rivista Poesia Aldo Nove ha scritto che “Alda Merini non aveva nulla da nascondere perché il confine tra la sua carne e la poesia era stato smangiato da decenni, da quella furia che sottrae i cercatori di verità dalle convenzioni (…)

La Merini aveva scelto di smettere la propria funzione di intellettuale “privata” nel momento in cui si era scoperta poetessa che scrive poesie dal suo intimo e doloroso profondo.

 Ogni suo gesto, ogni suo modo di fare finanche ogni parola ricondotta alla sua biografia appaiono in forme dolorosamente poetiche; cosa che la rendeva scomoda e al tempo stesso amatissima.




 In molte circostanze la Merini ha descritto questo rapporto carnale fisico con la Poesia:

 “Grazie poesia/ che mi hai vendicato.
Che se mi hai portato con te nel ventre/
è meglio non parlarne con nessuno.”

Generata e partorita dalla poesia Alda Merini si sentiva una persona misteriosa e sconosciuta a sè.
Incomprensibilmente straniera della sua esperienza di poeta.

Non è certo un caso che nella sua produzione poetica si interroghi sul dilemma di chi sia un poeta, probabilmente nel tentativo di definire non tanto una figura astratta, quanto piuttosto se stessa.

“Vorrei smettere di scrivere
non dire più una parola
 ma la poesia è come un grillo
 che canta nella mia testa
e come un grillo astuto
 ti graffia le pareti
 vorrei smettere di dormire
 correre sugli altipiani
 ma appena scappo il mio grillo
 torna ad inseguirmi il cuore.”

Scriverà ancora sullo stesso tema:

 “I poeti non hanno mai avuto una missione
 gliel’hanno sempre affibbiata gli altri”.

Come a voler affermare che le missioni si scelgono, la Poesia invece no. E’ un destino inesorabile che marchia a pelle colui che ne è colpito.

 La Poesia è inevitabile Alda Merini la incarna e la interpreta con sguardo talvolta Ingenuo, talvolta Disarmato e Trasparente sulla Realtà.


Quando trasforma i suoi temi in poesia  parla di Dio,  parla d’amore, parla di dolore e della sofferenza, con sguardo tenero e disarmato, stabilisce la differenza tra umano e  divino.


Gesù è stato l’unico bambino che non ha mai avuto giocattoli

Con un balzo visionario  stabilisce la diversità tra tutti gli altri e il più povero e derelitto quello che di giocattoli veri non ne vedrà mai nella sua vita, ma che saprà trovare qualcosa magari un sassolino, un pugno di fango o un rinsecchito stelo d’erba con il quale giocare.


La Merini porta il divino a una vicinanza abbagliante.

“Forse, come fece S. Pietro, io ti rinnego per paura del pianto.
 Però io ti percorro ad ogni ora e sono lì, in ogni angolo di strada e aspetto che tu passi.
 E ho un fazzoletto, amore, che nessuno ha mai toccato, per tergerti la faccia.”

Le distanze sono abbattute, l’intensità e lo struggimento del sentimento d’amore verso Dio, si avvertono come passione che palpita la carne.

“In verità Gesù, non so chi mi abbia partecipato al tuo destino, ma io ti amo e di te so tutto, come qualsiasi donna che ama il proprio marito.”

 Rovesciata la prospettiva è vicino e intimo l’amore per Dio non è invocato invano questo amore, è una incontrovertibile certezza fatta di presenza e vicinanza umana.

  “mentre gli altri ti pensano comodo assiso ad una mensa, non capiscono che tra poco non ci sarai più, perché sta scritto che volerai verso il Padre tuo.”

Spontaneità della vicinanza e dell'intima conoscenza.
Il Divino è reale, così vero, così toccabile che si sfiora a pelle in una vicinanza inquietante.

Nel Magnificat, libro di enorme successo sulla figura di Maria, recita

 “Io sono la donna di Dio.
 Colui che ha baciato le carni della mia stoltezza col fuoco del Suo amore e le ha rese incandescenti. Io sono l’amante di Dio colei che lo ama e che in Lui trasmigra come una foglia.”

 Maria come Alda in un’unico corpo. Una vicinanza e credibilità sorprendenti.

 Merini “la poetessa bambina” per quel suo modo di affrontare il mondo senza calcolo, senza infingimenti, con tutta se stessa o con la Poesia che per lei erano la stessa cosa.

 E lei poetessa  nasce, come dimostra l’intera sua vita.

Poetessa con la coscienza della sua “diversità” e delle difficoltà a condurre una vita “normale”. Ci teneva a dire di essere diventata famosa non perché era stata in manicomio ma perché era riuscita ad uscirne.

Padre, se scrivere è una colpa
perché Dio mi ha dato la parola”

 e ancora

“Io sono una donna che dispera
che non ha pace in nessun luogo mai
che la gente disprezza, che i passanti
guardano con sospetto e con rancore,
sono un’anima appesa ad una croce
calpestata derisa sputacchiata.”


Ma la donna che se ne ricava Non è una donna rassegnata o passiva: niente di tutto questo sarebbe più lontano da lei, sia nella scrittura che probabilmente anche nella vita reale. Donna profondamente passionale, per lei l’amore era una ricerca ineliminabile, un bisogno indistruttibile e centrale della sua vita.
 L’amore è considerato come una specie di motore che muove tutto.

Nella prefazione di una raccolta che contiene alcune sue poesie d’amore, Roberto Vecchioni ha definito Alda Merini, una “macchina d’amore” per la potenza monotematica e capillare di descrivere infinite situazioni che riguardano l’amore.

“Ai tempi dell’inutile prigione
 io amai un mio compagno,
 un poveraccio senza santità.
 E così da questo amore infelice
 sei nata tu fiore del mio pensiero.
Nessuno in manicomio ha mai dato un bacio
 se non al muro che lo opprimeva
 e questo vuol dire che la santità è di tutti, come di tutti è l’amore.”

Ad Alda Merini non importava nulla delle convenzioni, delle buone maniere e delle gerarchie.
La Poesia la seguiva come un cane fedele ovunque andasse.
 Nella camera da letto a fare l’amore oppure sul divano di casa sua a pensare o a scrivere

“Non voglio dimenticarti/
 amore, né accendere altre poesie...
La strega segreta che ci ha guardato ha carpito la nudità del terrore,
 quella che prende tutti gli amanti raccolti dentro un’ascia di ricordi.”
“Ogni poeta laverà nella notte/
 il suo pensiero ne farà tante lettere/ imprecise/ che spedirà all’amato senza un nome.”
“A chi mi chiede/ quanti amori ho avuto/ io rispondo di guardare nei boschi/ per vedere/ in quante tagliole è rimasto il mio pelo.”

E ancora, questo aforisma: “Ho avuto 36 amanti. Più iva”. Come a dire, tradotto da un linguaggio visionario: ho dovuto pagare una tassa, un costo secco che non scaricherò su nessuno se non su me stessa per avere avuto quello che desideravo.

 Siccome ogni cosa bella ha un prezzo da pagare specie se si tratta di amore, il prezzo può essere molto alto, ma Alda Merini era grandissima e lo ha detto in sei parole.

Ha scritto che la morte dei Poeti non ha mai fatto rumore.
Tra le tante cose “profetiche” e di incredibile, vertiginosa profondità sul mondo che la circondava questa è sicuramente sbagliata.

La morte di Alda Merini, rumore ne ha fatto parecchio, non solo perché le è stato tributato l’onore di un funerale di Stato ma anche perché dopo la sua morte e forse sarebbe giusto dire anche “con la sua morte”il suo nome, la sua storia, le sue parole sono diventate note o quantomeno conosciute anche a quei tanti che non si occupano né si interessano di poesia.

La poetessa bambina senza riparo e forse senza barriere, senza calcoli e opportunismi, è in ogni modo consegnata all’eternità della Poesia nella sua interezza, nella sua storia di donna e di poetessa. Continuare a leggerla la riporterà ogni volta in vita.

                                                    Cleofe Barziza





martedì 2 agosto 2011

E’ Proibito



È proibito piangere senza imparare,
svegliarti la mattina senza sapere che fare
avere paura dei tuoi ricordi.
È proibito non sorridere ai problemi,
non lottare per quello in cui credi
e desistere, per paura.
Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà.
È proibito non dimostrare il tuo amore,
fare pagare agli altri i tuoi malumori.
È proibito abbandonare i tuoi amici,
non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto
e chiamarli solo quando ne hai bisogno.
È proibito non essere te stesso davanti alla gente,
fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.
È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.
È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perché le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
Dimenticare il passato e farlo scontare al presente.
È proibito non cercare di comprendere le persone,
pensare che le loro vite valgano meno della tua,
non credere che ciascuno tenga il proprio cammino
nelle proprie mani.
È proibito non creare la tua storia,
non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te,
non comprendere che cio’ che la vita ti dona,
allo stesso modo te lo puo’ togliere.
È proibito non cercare la tua felicità,
non vivere la tua vita pensando positivo,
non pensare che possiamo solo migliorare,
non sentire che, senza di te,
questo mondo non sarebbe lo stesso.
non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso.
                                                   Pablo Neruda