mercoledì 27 marzo 2013

Etty e il suo Dolore


“Ogni situazione, buona o cattiva, può arricchire l’uomo di nuove prospettive. Se abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare, allora non siamo una generazione vitale”






Incasellare Etty Hillesum nella ormai corposa compagine de “lo scrittore del mese” è irriverente e probabilmente inappropriato

Forse per questa occasione bisognerebbe chiedere a chi legge la possibilità di coniare “il personaggio del mese” o ancor meglio “l’anima femminina e coraggiosa della storia”.

Non unico esempio di coraggio ed intraprendenza, Etty Hillesum ha di rinnovato quella mia parte combatutta ed ombrosa che viene definita dagli addetti ai lavori “spirituale”. Non mistica ma protesa di certo.

Etty nasce nel 1914 Middelburg da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica e muore nel 1943ad Auschwitz

Biografia essenziale, un accenno così alla vita, minimalista, ma la cultura e gli accadimenti della stessa, la sua tenacia, il suo “sapore” si ritrovano nei suoi diari, nei suoi scritti, nella lucidità con la quale la giovane donna affronta la tragicità del suo tempo, opponendo una resistenza interiore al male e ricercando con tenacia e fede in Dio tracce di quel bene che pare assente e forse addirittura inesistente.

Un suo  testo L’intelligenza del Cuore è certamente consigliato per una lettura di riflessioneche rilancia l'interrogativo amletico: come possible che al cuore appartenga l’intelletto, il cuore, così ci insegnano, è governato dalle emotività, tutt’al più dalla passione.

Eppure ripercorrendo la vivacità e la spontaneità della scrittrice, simile a quella di moltissime donne, la si ritrova in tutta la sua infelicità: in preda spesso a sfibranti malesseri fisici che a poco a poco lei riconduce a una chiara relazione con tensioni di ordine spirituale.

 Etty cresce con vuoti affettivi importanti che la portano a vivere relazioni sentimentali complicate, che la lasciano “lacerata interiormente e mortalmente infelice”. Vive relazioni ambigue, non ultima quella decisa che cambierà la sua vita: l’incontro con lo psicologo ebreo tedesco, Spier, che la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale.

Il suo capolavoro sono senz’altro i Diari, nelle cui pagine iniziali compare la parola “Dio” quasi inconsapevolmente, quale espressione del linguaggio quotidiano, per poi crescere a poco a poco sino a condursi e condurci in un dialogo molto più intenso con il divino, che è parte dell’intimità“quella parte di me la più profonda e la più ricca in cui riposo è ciò che io chiamo Dio”.

Un rapporto e una concezione del divino lontano da dogmi, doveri e costrizioni, qualcosa che veramente è capace di guidare ed illuminare la mente ed il cammino. 

Il suo capolavoro va letto perchè esistono pareri discordanti sul messaggio trasmesso, è complesso ed appassionato e se non conquista nell’immediato rimane depositato in quella parte misteriosa della mente pronto a rielaborarsi ed arrivare al compimento.

Discordo con quanti affermano che sia frutto del logorio del dramma storico, ci leggo invece quella maturità che è dei saggi o, come va di moda definirli oggi, degli illuminati, di coloro che sono stati capaci di dare un senso a percorsi umani trasferendoli ad atteggiamenti d’amore. 


“Molti uomini sono ancora geroglifici per me, ma pian piano imparo a decifrarli.
È la cosa più bella che io conosca: leggere la vita degli uomini.(…)”







lunedì 25 marzo 2013

Contro la Deriva AntiPopulista

Se è vero che nelle pagine di Machiavelli ci sono molte indicazioni utili a capire la situazione attuale quella cioè che stiamo vivendo in Italia in questi tempi recenti, allora è giusto guardare a questo autore e alla sua "cognizione delle cose particulari" anche con qualche sospetto che può far passare cioè per "traditore" chi fino a poco tempo prima era sostenuto dal popolo perchè "contro il sistema". La qual cosa è del tutto collegata alla politica che è proprio l'arte di contemperare conflitto e ordine.

Nei Discorsi Machiavelli descrive una situazione chi ricorda, per analogia, quella che stiamo vivendo in Italia.

 A Firenze - scrive - dopo la cacciata dei Medici, venuto meno un governo ordinato e peggiorando di giorno in giorno le condizioni della città, i "popolari" ne attribuivano la colpa alle ambizioni e alla corruzione dei "signori".

 Non appena, tuttavia, uno di loro giungeva a occupare un'alta magistratura e cominciava a procurarsi gradualmente idee più adeguate sulla realtà, finiva per abbandonare i pregiudizi e le astrazioni con cui si era affacciato alla vita pubblica.

 Agli occhi dei popolari, tale mutamento lo rendeva però un traditore: «E come egli era salito in quel luogo e che ei vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano ed i pericoli che soprastavano e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi e non gli uomini causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo e d'un altra fatta: perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva presupposto. Dimodoché quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi» (1,47).

Chi, eletto nel partito più giovane di questa legislatura, si è comportato nel Senato come il nostro "popolare" fiorentino e, appellandosi alla libertà di coscienza, è andato contro le direttive della maggioranza del suo movimento, ha rischiato e forse rischierà ancora di passare per traditore.


 È intuibile la preoccupazione di impedire che i gruppi parlamentari si sfaldino e di consolidare la disciplina, specie all'esordio.

 Eppure, una volta che i singoli siano entrati nelle istituzioni e abbiano trascorso un certo periodo in una sorta di camera di decompressione per abituarsi al nuovo clima politico, diventa alla lunga controproducente, specie nelle emergenze, negare loro la capacità di decidere sulla base di una «più vera cognizione delle cose».

 Quanti fanno attivamente politica non possono appoggiarsi sull'esclusiva e indiscutibile autorità di un "capobastone".

 Se è disposto a ragionare con lungimiranza, anche chi li guida dovrà alla fine riconoscere i vantaggi della relativa autonomia degli eletti, perché, come osserva Max Weber, oltre a seguire «un minimo di interesse personale», gli uomini ubbidiscono sulla base della «fede nel "prestigio" di colui o di coloro che detengono il potere».

 E, dunque, solo finché dura il prestigio di chi comanda e non è scalfita la fede di chi ubbidisce.

Machiavelli sarebbe stato d'accordo su questa diagnosi weberiana. 


Il suo "realismo" non è sinonimo di spregiudicato uso della violenza e dell'astuzia a vantaggio unicamente di chi comanda.

 Questa è un'interpretazione riduttiva che riasce, fra l'altro, dal giudicare il Principe un libro di politica, mentre si tratta - in maniera per noi paradossale - di un'opera che s'inserisce in un genere letterario diffuso e che contiene precetti indirizzati a un privato per conquistare, espandere o recuperare il potere. 

Sebbene conosca benissimo i modi crudeli e scaltri con cui spesso il potere si esercita, la politica è ancora da Machiavelli classicamente intesa quale arte di governare secondo ragione e giustizia o di contemperare, come nei Discorsi, conflitto e ordine. 

Solo con il Guicciardini del dialogo Del reggimento di Firenze si procede, in nome della «ragione degli Stati», a trasformarla in una tecnica simile a quella esposta nel Principe.

 Per Machiavelli ciò che chiamiamo realismo, consiste soprattutto nella conoscenza delle «cose particulari» (la «verità effettuale della cosa»), ossia nel non basarsi né su idee generiche e preconcette, né su aspettative inconsistenti, né su singoli eventi che perdono di vista la complessità dei processi in corso.

 Lo aveva già compreso Spinoza, definendo Machiavelli acutissimus vir e ponendo -su un altro piano - la conoscenza delle res singula-res come la più alta di tutte.

L'invito ad attenersi alla «verità effettuale della cosa» assume un senso più perspicuo se scomponiamo l'espressione nei suoi elementi costitutivi.


 Intanto, la parola "cosa", non va confusa con l'"oggetto". 

Nell'italiano di Machiavelli-conserva ancora il sapore del latino causa, di cui deriva per contrazione, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa (come mostra l'espressione "combattere per la causa").

 Seguire le «verità effettuale della cosa», piuttosto che «andar drieto all'immaginazione di essa», vuol dire capire la direzione dei vettori di forza in atto e inserirvisi, nei limiti del possibile, per orientarli, depurandoli dai nostri desideri, ma mantenendo in tensione virtù e fortuna, ragione e passione, pensiero e azione. 

La «verità effettuale» non è, poi, un dato immobile, un semplice fotogramma isolato di una serie, bensì un flusso di energie storiche in atto. 

Va capita così anche la famigerata, ma fraintesa proposizione hegeliana della Filosofia del diritto: «ciò che è razionale (vernùnftig) è reale (wirklich) e ciò che è reale è razionale». 

La ragione non implica affatto un'accettazione passiva della realtà empirica (Realitàt), bensì la presa di coscienza della Wirklichkeit, di qualcosa che wirkt, agisce, producendo effetti nel tempo e nel mondo, almeno finché non perde la sua energia.


 Ad esempio, la famiglia, lo Stato, l'esercito o la religione sono Wirklichkeiten, istituzioni nate migliaia di anni fa, ma che, pur modificandosi, continuano a esistere, producendo i loro effetti.

 Peraltro, sia Machiavelli che Hegel (ammiratore del Segretario fiorentino) riprendono, approfondendola, la tematica aristotelica dell'effettualità (energheia, opposta alla dynamis, alla semplice potenzialità), vale a dire di quanto continua ad agire e rinnovarsi senza esaurirsi perché esiste solo in forma, non congelata, di processo in atto. 

Anche il realismo presuppone, di conseguenza, un progetto che si innesti nella realtà effettuale, non concepita come qualcosa di istantaneo e immodificabile: «Essere realisti, che utopia!», affermava provocatoriamente il grande storico Bernard Groethuysen.

Tornando al nostro presente, oggi il termine "populismo" viene spesso evocato non solo per designare il movimento politico di cui si è detto, ma anche fenomeni diversissimi. 


Di norma, è associato all'idea di una degenerazione della democrazia e visto come uno spettro o, al contrario, come una calamita che attrae tutti gli scontenti e gli indignati.

 Ma è sufficiente demonizzarlo, esaltarlo o banalizzarlo? Non sarebbe meglio esaminarlo più a fondo, tenendo conto della linea di faglia che si è aperta tra il "popolo" e le élite, della crisi della rappresentanza tradizionale e della connessa, tormentata transizione da una democrazia dei partiti a una democrazia del pubblico? 

Anche questa analisi sarebbe realismo. 
                                                                                              Remo Bodei










Fonte:il Sole 24 Ore (del  24 marzo 2013)

Ora siamo qui su queste MACERIE



Non sfugga un confronto, questo: nell’Agenda Monti, programma elettorale di un presidente del Consiglio in carica, la parola “Costituzione” non c’è mai.
 Viceversa, nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Laura Boldrini ha insistito sui «valori della Costituzione repubblicana» e sulla dignità delle istituzioni della Repubblica, ricordando con parole vibranti che «in quest’aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo».

Analogamente, il presidente del Senato Piero Grasso ha esordito richiamando due volte la Costituente e «quella che ancora oggi è considerata una delle Carte costituzionali più belle e più moderne del mondo».
 Il silenzio di Monti è coerente con l’ordine dei valori prevalso nella scorsa legislatura (compresa la sua fase “tecnica”): il “volere dei mercati” al culmine, la Costituzione sospesa, in attesa di tempi migliori. 
Basta questa differenza a misurare le straordinarie potenzialità di una nuova stagione politica, in cui l’impersonale, anti-politico anzi anti-democratico diktat dei mercati deve fare i conti con l’orizzonte dei diritti civili disegnato dalla Costituzione: sovranità popolare, diritto al lavoro, alla salute, a un sano ambiente, alla cultura, alla giustizia sociale.

Sarebbe un delitto farsi sfuggire un’occasione che non si ripeterà: questo il senso dei due appelli, quello promosso da Barbara Spinelli e quello lanciato da Michele Serra, che in pochi giorni hanno superato le 200.000 firme (li ho firmati anch’io). 
Questo, e non la cieca fiducia in questo o in quel partito, non l’ubbidienza a ordini di scuderia. 
Non l’arroganza di intellettuali che si sentono maestri, ma la voce di cittadini che fuori da ogni coro esprimono una preoccupazione e una speranza.
 Perciò chi si è rallegrato che all’elezione del presidente del Senato abbiano contribuito voti del Movimento Cinque Stelle dovrà rallegrarsi altrettanto se, in altre circostanze, parlamentari del Pd violeranno la disciplina di partito per votare giusti provvedimenti proposti da quel Movimento. 
Dopo una campagna elettorale condotta sbandierando nomi, alleanze, schieramenti assai più che progetti e contenuti, è ora di rovesciare il tavolo dei giochi.
 Identificare contenuti, indicare traguardi, cercare consensi nel Paese e (dunque) nel Parlamento. 
Passare dalle chiacchiere ai fatti, cambiare subito il Paese sapendo quel che si vuole e quel che si fa.

Perciò l’art. 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato» è oggi più che mai prezioso. 
Beppe Grillo non vorrà certo copiare Berlusconi attaccando la Costituzione ogni volta che non gli fa comodo.


                                                                Salvatore Settis


Fonte: da Repubblica

venerdì 15 marzo 2013

"Europa en el espejo italiano"


I risultati delle elezioni svoltesi in Italia il 23 e 24 febbraio scorso hanno provocato una serie di reazioni  stranamente sonore. Molti commentatori, alcuni anche con responsabilità di governo, hanno parlato della minaccia che l’ “ingovernabilità italiana” rappresenta pergli altri europei. Altri, cercando di addolcire i toni, hanno ricordato che sebbene l’Italia sia sempre stato un paese difficile da governare, i politici italiani hanno sempre saputo andare avanti.
E’ innegabile che l’Italia abbia vissuto situazioni molto complesse. Se escludiamo il ventennio fascista, un periodo che per ovvie ragioni non si presta a questo tipo di paragone, l’Italia è il paese che durante il 20° secolo ha visto fallire il maggior numero di legislature e di Governi rispetto a tutti gli altri Stati europei.
La matrice della sua instabilità si è configurata nei primi decenni del secolo scorso, un periodo che di solito viene identificato con il nome di Giovanni Giolitti. L’identificazione stessa ne è sintomatica;  sebbene sia stata la figura politica dominante del suo tempo, Giolitti non riuscì a terminare quasi nessuna delle legislature in cui fu eletto dal Parlamento come primo ministro. Fu un maestro nell’arte della dimissioni per andare avanti al potere.
La sua capacità di cavalcare le numerose tempeste politiche che la storia gli ha riservato lo hanno reso una leggenda. Tuttavia, cio’ non bastò per evitare le due grandi sconfitte che afflissero il tratto discendente della sua carriera politica. La prima fu l’entrata dell’Italia nella I Guerra Mondiale, una decisione a cui si era opposto con tutte le sue forze e che non poté evitare. La seconda fu il trionfo del regime fascista, una catastrofe che segnò definitivamente la fine della sua epoca.
L’Italia moderna, quella che conosciamo oggi, fu costruita allora. L’unità nazionale, raggiunta con determinazione e astuzia da Cavour sul filo del 1860, si limitò a porre le basi politiche di un cambiamento storico la cui penetrazione nella realtà sociale fu lenta. A fine secolo l’Italia era ancora un mosaico eterogeneo di  regioni economicamente divergenti, abitate da popolazioni con costumi e persino lingue differenti.
Quando fu proclamato il Regno d’Italia, nel 1860, il 70% della popolazione era analfabeta. Venti anni dopo l’indice di analfabetismo si attestava ancora al 67%. Formalmente il nuovo Stato era una Monarchia parlamentare, ma alla fine degli anni novanta, su una popolazione che si avvicinava ai 30 milioni, gli elettori non arrivavano a 3 milioni. I grandi passi in avanti che trasformano l’Italia in uno Stato nazionale moderno avvengono all’epoca di Giolitti.
Si basano su una crescita economica sostenuta, orientata verso il commercio con l’estero e centrata in una industrializzazione di taglio classico, con il predominio dell’industria tessile, metallurgica e meccanica presenti in Lombardia ed in Piemonte (sede della dinastia regnante). Includono tra le altre cose una scolarizzazione obbligatoria. O una nuova legge elettorale che instaura il suffragio universale quadruplicando quasi il numero dei votanti. O la costruzione di una rete ferroviaria unificata. Nel 1865, cinque anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Roma è collegata via treno con Napoli ma non con Milano; nel 1905 si può andare in treno non solo da Palermo fino a Roma o Milano, ma fino a Parigi o Vienna.  A questo si aggiunge la creazione della Biennale di Venezia, un’istituzione che stimolerà per tutto il secolo la modernizzazione della vita artistica
Si tratta di cambiamenti che, insieme con lo sviluppo intensivo della stampa e l’ascesa dei grandi sindacati, trasformano profondamente la natura della vita pubblica e permettono all’Italia di svolgere un ruolo di primo piano in Europa.
Queste luci sono accompagnate tuttavia da ombre profonde.  Ho già menzionato l’instabilità politica.  Questa è accompagnata da altre tre ferite persistenti: la corruzione, il clientelismo politico e il consolidamento del crimine organizzato. Le conseguenze saranno nefaste. Il successore storico di Giolitti sarà un leader populista, forgiato nelle gazzarre sindacali dell’industrializzazione del nord, chiamato Benito Mussolini. Nell’epoca confusa del dopoguerra e con l’appoggio di una parte importante dell’opinione pubblica, Mussolini sotterrerà il liberalismo per piantare la prima dittatura europea del Novecento.
Come è stato possibile questo? I grandi cambiamenti storici hanno sempre molteplici cause, ma la principale in questo caso fu una persistente rottura della coesione sociale, una tempesta che non smise di farsi sentire, come rumore di fondo, durante tutto il processo di modernizzazione. Mentre i vincoli della società tradizionale andavano dissolvendosi, lo sviluppo economico alimentava da parte sua una crescita febbrile delle disuguaglianze sociali. E’ vero che il resto d’Europa soffrì in maniera maggiore o minore gli stessi mali; furono loro a creare lo stato d’animo che provocò lo scoppio della guerra.
La specificità del caso italiano fu che, nel contesto di un’unità nazionale ancora recente e fragile, la coscienza delle disuguaglianze sociali si incrociò con quella delle disuguaglianze regionali. Mentre il nord si arricchiva, il sud si impoveriva e la percezione di questa rottura, vissuta come un conflitto di identità collettive, fu propizia alla proliferazione di discorsi populisti di segno differente,  che finirono per avvelenare ed uccidere il progetto liberale.
I commentatori delle ultime elezioni mostrano preoccupazione per la governabilità dell’Italia. Possono stare tranquilli. Dopo tre quarti di secolo di scolarizzazione obbligatoria, e uno stato sociale più o meno operativo ma sempre visibile, la coesione nazionale italiana è oggi incomparabilmente superiore a quella di 100 anni fa. Non sarà l’Italia ad esportare ingovernabilità in Europa. Il pericolo è piuttosto il contrario.
Almeno fino a che il progetto politico europeo continuerà ad essere prigioniero di un modello economico orientato in maniera accanita verso la dissoluzione dello stato sociale e la crescita delle disuguaglianze. E intanto continua a farsi sentire come nell’Italia prefascista, ma nella cassa di risonanza ampliata e molto più cacofonica dell’Unione Europea, un inquietante rumore di fondo che tende ad esprimersi come conflitto di identità collettive tra il nord e il sud.
                                                                       Tomàs Llorens


venerdì 1 marzo 2013

Le 11 Tesi del Risultato Elettorale

Nel cinquecentenario del “Principe”, il pensiero di Machiavelli ci aiuta a riflettere sulle cause della sconfitta elettorale della sinistra. Che potrà risollevarsi soltanto con quello che Gramsci chiamava “un lento lavorio culturale”. Riscoprendo il senso autentico della politica come ricerca e lotta per una società migliore. 


E ora? Mi aggiro in uno scenario che non mi piace: la fastidiosa sbornia dei vincitori; le grottesche giustificazioni dei perdenti; il silenzio imbarazzato di chi pronosticava tutt’altro esito; e, personalmente, tento di elaborare il lutto, essendo tra coloro che votavano sapendo di essere comunque sconfitti, al di là dei risultati specifici ottenuti dalle liste su cui avessero tracciato il loro segno.


 Sconfitto, in quanto nessuno dei contendenti esprimeva il mio pensiero, e soprattutto, anche chi sentivo più vicino, aveva scelto procedure e metodi all’insegna di una “vecchia politica” (non trasparente, non democratica, verticistica, e comunque battuta nelle urne) nella costruzione del progetto e nella definizione delle liste. E poiché non faccio il politico, di professione, bensì lo studioso, invece di imprecare, o gioire, o giustificare, provo a ragionare, sulle cause di quella che è comunque una sconfitta forse epocale della sinistra, o almeno di quello che finora abbiamo chiamato “sinistra”. E l’esito della mia riflessione è per me devastante.


 Mi sento solo, come non mai. Eppure le possibilità di vedere una luce esistono, almeno sul piano della mera logica. Con uno sforzo non indifferente, cerco di fare luce in questa nebbiosa situazione postelettorale. Chiedo aiuto al “Segretario fiorentino”, il grande Niccolò, ricordando che Il Principe – il capolavoro della teoria politica di tutti i tempi – fu da lui scritto esattamente mezzo millennio fa, sulla base dell’esperienza politica diretta, e sulla base della conoscenza della storia: le due fonti del pensiero di Machiavelli: un ausilio indispensabile ancora per riflettere sull’universo politico. 

E mi perdoni Marx, per il vezzo delle undici tesi.

Prima tesi. Non si sconfigge l’avversario diretto ignorandolo, o usando contro di lui il fioretto.


La campagna elettorale di Bersani, di Vendola, di Ingroia è stata minimalista, sia nelle forme, sia nel contenuto. Tutti e tre, e i loro alleati, sono caduti nell’errore di ostentare un atteggiamento di sicurezza sui risultati, ritenendo non solo fuori gioco Berlusconi, ma non attaccandolo neppure con energia.

 La campagna “bene educata” l’aveva già condotta Veltroni nella precedente tornata elettorale con i risultati disastrosi che conosciamo. Non si vince facendo le allusioni, le battutine, e nutrendo di metafore il proprio discorso. Ti devi presentare come avversario, non come socio e neppure come condomino. Specie in una contesa in cui l’avversario ti attacca in modo violento. Anzi, in una campagna elettorale l’avversario diventa nemico: e i nemici bisogna “spegnerli”, insegna Machiavelli.

La rivoluzione non è un pranzo di gala (Mao), ma non lo è neppure una elezione in un momento drammatico come il presente della storia d’Italia. Ingroia, addirittura, ha commesso il solito errore (un errore storico della sinistra in Italia) di attaccare più spesso e con maggior foga sia i suoi possibili alleati (ossia coloro che poi a giorni alterni invitava all’alleanza), che il nemico n. 1, ossia Berlusconi. 


Bersani, ha posto sullo stesso piano il PDL e M5S. E ora, nelle lungaggini del trattativismo post-voto sembra essere ancora oscillante, tra i due poli. 

In ogni caso è mancata a tutti i candidati del Centrosinistra l’aggressività necessaria, tanto più in una situazione catastrofica come la presente. Nessuno di loro ha saputo essere “lione”; ma, ahinoi, neppure “golpe”: né energia, né astuzia. Quello invece che hanno mostrato Berlusconi e Grillo (Monti era dal canto suo piuttosto patetico, e il Vaticano, massoneria e Confindustria non gli sono bastati a farlo decollare). 

Seconda tesi. Mai sottovalutare i contendenti


Non si ignorano, gli avversari, ma non si devono neppure prendere sotto gamba. Machiavelli insegna “prudenza”: che vuol dire tante cose, ma innanzi tutto contezza piena delle situazioni. Capacità di prevenire i danni. Predisposizione di strumenti difensivi contro le avversità. 


Bersani ha dato per acquisita la vittoria del PD, e del Centrosinistra. Non ha condotto neppure una vera campagna elettorale. Non ha insistito per la cancellazione del “Porcellum”, convinto che il suo partito sarebbe stato il partito di maggioranza relativa e avrebbe potuto ottenere il meritato premio previsto dalla legge escogitata dal signor Calderoli, uno dei peggiori personaggi che abbiano calcato la scena pubblica italiana; ovvero ha posto barriere insormontabili sulla strada che conduceva alla nuova legge che invano tutti reclamavano (ma che nessun partito a dire il vero auspicava).


 Con un misto di ingenuità e di utopismo (in barba dunque al realismo machiavelliano, e agli inviti alla prudenza), il buon Bersani si poneva già i problemi tecnici del “dopo” (e per giunta in modo generico, che non dava l’idea di una sicurezza sul dopo, appunto), convinto di esser investito della presidenza del Consiglio sortito dalla nuova Legislatura, ostentante la certezza che l’asse della destra non potesse rappresentare un vero pericolo, né a livello nazionale, né locale, in vista delle Regionali.


 Questo nasce dall’ignoranza: non si studia, non si può combattere. La sconfitta in Lombardia, più del resto, lo ha smentito in modo clamoroso, rispetto ai proclami di vittoria annunciata. L’insistenza nel disconoscere la natura di movimento organizzato ai “grillini”, l’impiego di questo termine riduttivo, e il chiamare il fondatore giullare, comico, disconoscendone le qualità politiche, e dunque sottovalutandone l’impact factor, è stato un gravissimo errore. Circola in queste giornate postelettorali la fatidica frase di Piero Fassino (uno che di frasi fatidiche ormai ha una bella collezione): “Grillo si fondi un partito, se ne è capace. E vediamo quanto prende!”.No comment.


Terza tesi. In una competizione ci si deve differenziare


In una campagna elettorale, occorre apparire diversi dagli altri contendenti: nei contenuti, nelle parole d’ordine, nelle modalità di comunicazione. E dico apparire, non necessariamente essere. Di nuovo Machiavelli insegna. Il principe deve parere di avere certe virtù… , non necessariamente averle.

Bersani si è differenziato pochissimo da Monti. E anzi ha fatto intendere più volte che si sarebbe alleato con lui, dopo le elezioni, qualsiasi fosse stato l’esito. Essendo il PD reduce da una esperienza di sostegno al governo “tecnico”, che ha fatto una politica ferocemente classista, “di destra”, sarebbe stato tanto più necessario differenziarsi. Sembrava invece che Bersani si ponesse il problema di essere altrettanto tranquillo e sereno del professore bocconiano, e parlava il suo stesso linguaggio, accettava i dogmi del fiscal compact, e usava l’Europa come un comandamento: “Ce lo chiede l’Europa…” ripetuto come unmantra. Berlusconi e Grillo si sono fortemente differenziati, anche con menzogne palesi, con boutades, con provocazioni. Ma si sono fatti “notare”. Ci si può porre in evidenza, senza mentire, ma disegnando il proprio profilo politico in modo netto, e comunicandolo in modo efficace. A Bersani e Ingroia è mancato l’una e l’altra cosa. Perché nessuno dei due, né il terzo dell’area di Centrosinistra, Vendola, ha la statura del “capo”. Bisogna avere il coraggio di dirlo. Sono tre “brave persone”, degne di stima, ma politicamente modeste, capaci in qualche caso (Bersani da un lato, Ingroia dall’altro) di commettere errori catastrofici: Bersani di sostenere Monti invece di reclamare le elezioni alla caduta di Berlusconi nel novembre 2011 (nel Centrosinistra parlamentare solo Di Pietro lo fece, a suo merito). Oggi, per giunta, il capo deve essere un oratore, un comunicatore, un persuasore. Con quel tanto di capacità di spettacolo necessaria nella politica postmoderna (e postdemocratica), ma con molto sangue freddo e assoluta determinazione a vincere (altrimenti si rimane lontanissimi dal modello idealtipico rappresentato nel Principe). 

Quarta tesi. Vince chi include non chi esclude, chi allarga non chi si chiude


Differenziarsi, non significa parlare solo a chi è già dalla tua parte: occorre coinvolgere e convincere chi invece non è dalla tua parte, facendo passare il contenuto non lo schieramento. Occorre per vincere allargare il proprio campo, invece di restringerlo con parole d’ordine escludenti (gli errori tipici del massimalismo dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale” transitati in Rivoluzione Civile). M5S ha vinto sulla base di questa filosofia politica: allargare e includere. Ora, non c’è dubbio che la sinistra debba differenziarsi da ciò che sinistra non è, ma deve anche compiere uno sforzo di inclusione, prima che di esclusione, di allargamento del proprio bacino elettorale. I referendum vittoriosi del 2011 hanno dimostrato che la sinistra vince quando parla oltre lo steccato del suo “popolo”. Si può vincere perciò solo se si fanno cadere gli ideologismi, pur tenendo fermi i valori e i princìpi. La sinistra in senso canonico è minoranza, e ha intorno a sé un’aura negativa; è la parte perdente, sono gli eterni sconfitti, gli sfigati, quelli tristi, con le donne racchie e così via. La sinistra deve persino smettere di presentarsi come sinistra, ma deve portare avanti contenuti di sinistra. L’acqua pubblica non è forse “di sinistra”? È di sinistra ciò che appartiene a tutti e tutte, che è percepito come “bene comune”, come patrimonio collettivo. Essere di sinistra vuole anche dire interpretare le istanze della comunità, ossia quelle che interessano la stragrande maggioranza della popolazione. Ma fare politica vuol dire cercare di conquistare il potere (Machiavelli, ancora), considerando però il potere non come fine ma come mezzo. Un mezzo per realizzare il bene comune, ossia il bene della polis. Questa è la sfida più ardua, perché il popolo italiano è fatto di individualisti, e soprattutto di individui intesi alla difesa del bene privato. E allora occorre far capire che l’interesse della collettività può identificarsi in quello del singolo: lo Stato che funziona, l’aria respirabile, un fisco equo, e così via. Il messaggio di Berlusconi: noi vogliamo che il cittadino non senta più lo Stato come un nemico, è un messaggio perspicace. Troppo spesso noi tutti sentiamo lo Stato (dal fisco alla polizia) come nemico. Perché la sinistra non ha saputo lanciare un messaggio analogo? I messaggi sul fisco – oggi lo Stato è per la quasi totalità della popolazione italiana, il fisco – del Centrosinistra e della sinistra sono stati balbettanti e incerti, e soprattutto incapaci di intercettare quell’individualismo, in qualche modo lasciarlo “sfogare”; e quindi indirizzarlo verso la comprensione dell’interesse collettivo. 


Quinta tesi. La televisione rimane il primo mezzo di formazione delle opinioni della cittadinanza.


La televisione a dispetto degli anatemi di Grillo, conta, eccome! E il successo di M5S è stato determinato anche dalla tv: il fatto che i suoi esponenti rifiutassero, per diktat del capo e indicazione del gran sacerdote, Casaleggio (sul quale è ora di fare un po’ di chiarezza), di partecipare a programmi ha fatto sì che di loro si parlasse sempre e dappertutto, mostrando le immagini del Gesù-Grillo che attraversava le acque, che somministrava sacramenti politici, che teneva omelie incendiarie. Paradossalmente sono stati presenti anche da assenti. E presentissimi, anzi. 

D’altro canto, la tv attraverso programmi di intrattenimento o di attualità, sia con i suoi giornalisti, sia con i suoi comici, ha svolto un ruolo decisivo, più che mai, forse. Ricordo: a) La trasmissione Report ha messo di colpo fuori gioco Di Pietro e un intero partito (denunciando, ma non senza incorrere in errori, di fatto irreparabili); b) La trasmissioneServizio Pubblico ha rimesso in gioco Berlusconi in un tornante decisivo della campagna elettorale: la conduzione di Santoro si è tradotto in un straordinario assist a Berlusconi, non contrastato neppure da un avversario storico come Marco Travaglio; c) le imitazioni di Crozza sono state a loro volta assai pesanti nell’orientare l’elettorato: Ingroia ne è uscito massacrato, con una evidenziazione impietosa dei suoi difetti di comunicazione e di convinzione politica; Berlusconi al contrario è apparso un giuggiolone simpatico; d) le scene animaliste (Monti col cagnetto, Bersani col giaguaro) hanno buttato tutto sul piano della burletta, certo non facendo guadagnare consensi ai due candidati; e) nei talk show i candidati del Centrosinistra e di Rivoluzione Civile hanno rimediato sempre pessimeperformances, ancora una volta sottovalutando la specificità del mezzo. Grillo intanto aggrediva, mordeva, e pure da fuori del piccolo schermo, veniva ogni giorno messo in prima linea. Si parlava di Grillo, si mostrava Grillo, si temeva Grillo, si auspicava Grillo… Era onnipresente e si accendevano i televisori per conoscere la sua ultima impresa, che veniva preparata con annunci e previsioni: ci si chiede, quante persone porterà in piazza il “comico genovese?”…. Che cosa avrà oggi combinato Grillo?!... 
Ma la sottovalutazione della potenza della tv ha indotto il Centrosinistra nelle sue due stagioni al potere a sottovalutare il conflitto di interesse, e a non riuscire neppure a portare avanti uno straccio di proposta di legge. Il che ha consentito al Cavaliere Berlusconi di continuare a godere di una posizione dominante che ha facilitato sempre la sua azione in modo abnorme. 

Sesta tesi. La politica si fa dappertutto


La sinistra storica sembra aver dimenticato la piazza: a cominciare dalla piazza, intesa come spazio fisico nelle città, ove invece Beppe Grillo, anche grazie alla sua notevolissima energia fisica, alla sua verve comica, al suo linguaggio dirompente, ha giganteggiato. Erano spettatori, i suoi, ma erano anche militanti e sempre più, nel corso delle settimane, veri e propri fedeli: non si ammetteva dissenso; la stessa figura del dissidente era presentata come eretica. Il suo ducismo inquietante per chi, come me, lo guardava dall’esterno, ha avuto effetti interni di compattamento della folla, e della sua trasformazione in forza dirompente. La misura stessa era impressionante, e finiva per galvanizzare i presenti da una parte, ma anche per suscitare ammirazione (e invidia, preoccupazione, turbamento…) negli altri. Sentirsi parte della casa comune, e insieme membri della comunità dava la sensazione dell’invincibilità ai “grillini”; i cittadini diventavano militanti, i militanti fedeli, i fedeli missionari. Siamo tanti, saremo sempre di più, stiamo arrivando, siamo contro, vogliamo fare la rivoluzione…. Fino al mitico: “Arrendetevi!”: linguaggio fascistoide, antiparlamentarismo sciagurato, ma messaggio di straordinaria potenza, in quanto raccoglieva il bisogno di fare tabula rasa, di cancellare la “casta”, di eliminare il regime dei privilegi: era davvero la Piazza contro il Palazzo. O così veniva presentata, con la curiosa aporia che coloro che contestavano il Palazzo stavano cercando di arrivarci, non con l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma con il ricorso alle schede elettorali. E che il Movimento era stato pensato da un miliardario e guidato da un altro miliardario. Come la Lega Nord che ha tuonato contro Roma, ma appena ci è giunta si è ben sistemata. O si era sistemata, visto che ora è naufragata, fino alla vittoria dell’orrido Maroni in Lombardia, che è facile presumere darà nuova linfa al verde stinto di un partito in stato comatoso. È evidente che la quasi scomparsa del movimento di Bossi è correlata all’emergere del movimento di Grillo, anche se non sono affatto la stessa cosa: e il popolo del primo non si è travasato, se non in parte, nel secondo. Ma ci sono elementi di inquietante analogia. 

Ma Beppe Grillo ha insegnato che la politica si fa anche nella piazza virtuale del Net. E ha saputo sfruttarla in modo efficace e capillare. La sinistra e il Centrosinistra che ormai hanno mostrato di non sapere più controllare le piazze delle città, non hanno peraltro neppure imparato a usare questo strumento con la necessaria e oggi indispensabile abilità. Machiavelli teorizzava la necessità di “milizie proprie”: oggi sono i militanti che si portano in strada, che sanno di combattere per qualcosa che li riguarda profondamente, e li tocca da vicino; la sinistra e il Centrosinistra ha ormai pochissime milizie proprie. Non solo e forse non tanto sul piano fisico, ma soprattutto sul piano dell’entusiasmo. Troppe sconfitte, troppe delusioni, troppa disaffezione, troppo scontento. Se Berlusconi aveva milizie mercenarie (aborrite da Machiavelli), se Monti ha usato milizie ausiliarie (apparati confindustriali e di enti finanziari e così via), la sinistra ha sempre fatto ricorso a “ milizie proprie”. Ma stavolta esse sono state surclassate, per numero, energia ed entusiasmo, da quelle del Movimento di Grillo. Ammettiamolo. E come non pensare che il fortissimo travaso di voti dal Centrosinistra al M5S ne sia una conseguenza e insieme una prova?

Settima tesi. Se ci si presenta come “nuovi”, occorre esserlo davvero (o almeno sembrarlo).


Il “novitismo” è una delle malattie della “postdemocrazia”. Innovare, ringiovanire, cambiare: che cosa? Non sempre si spiega. Ma introdurre l’innovazione nella politica. Tutti vogliono presentarsi come “nuovi”. Ma le forme contano. E Grillo ha innovato il linguaggio nel senso che ha cancellato il lessico della politica tradizionale (perciò anche l’accusa di “antipolitica”) e ha fatto ricorso alla lingua di tutti i giorni, alla lingua del bar, del vagone ferroviario. Una sorta di futurismo eversivo, che parlava di giovani (anche se era portato avanti da un sessantenne), che ha trasformato le forme tradizionali della comunicazione politica in eventi, in serate futuriste, appunto; in spettacolo gratuito e coinvolgente (si ricordi che gli spettacoli di Grillo erano sempre stati a pagamento, e mi risulta neppure a prezzi popolarissimi). Ma senza mai perdere la forza della mobilitazione. Grillo ha saputo far sentire protagonisti i gregari. 

Il Centrosinistra si è convinto (o così ha fatto credere) che le primarie (e le “parlamentarie”) fossero la novità dirompente della vita politica italiana. Le quali dietro l’apparenza della democrazia, sono state, a dire il vero, un esercizio feroce di lotte intestine, occasioni di regolamenti di conti, e hanno premiato non i migliori ma coloro che erano capaci di acchiappare, variamente prezzolati, voti (che non si identificano nei consensi), tra amici e parenti, e tra sconosciuti reclutati con modalità assolutamente poco trasparenti. Non ha più osato tirare in ballo la “diversità” comunista, seppellita da un trentennio di scandali, culminati in quello del Monte Paschi Siena. Eppure quella diversità (socialista e poi comunista) era stata una vera carta di identità. Buttata alle ortiche, come l’intera storia di un movimento, e non soltanto di un partito: il movimento del riscatto del popolo. E ci si è baloccati sulle primarie, scimmiottate da un sistema (statunitense) che ha tutt’altro fondamento storico e tutt’altre regole (non ottimali, peraltro!). La diversità è stata cancellata in una pratica amministrativa sempre più priva di motivazioni ideali. E di spinta capace di raccogliere il grido di dolore dei ceti subalterni. 
Ad essi, invece, ha mirato a dare voce Rivoluzione Civile. Ma la scarsa trasparenza, e l’assoluta assenza di processi democratici e dal basso – che invece venivano perentoriamente proclamati come segno di “diversità” – ha caratterizzato l’intera operazione guidata, assai male, da Antonio Ingroia, cittadino stimabilissimo, ottimo magistrato, mediocre politico, pessimo comunicatore. Antipatico ricordare le proprie “profezie” e i propri ammonimenti; ma non sono stato certo il solo a mettere in guardia contro procedure non democratiche, non trasparenti, e pratiche della più canonica politica politicistica. Io che ho creduto all’inizio nel progetto da cui è nata RC, ho messo in guardia ripetutamente contro il pericolo di compiere errori che si sarebbero rivelati fatali (ancor prima che nascesse RC, scrissi un promemoria intitolato 21 punti per un politica rinnovata, pubblicato su questo spazio, il 17 dicembre 2012, e raccolto anche subito sul sito del Movimento Arancione). Ma ne sono stato profondamente deluso, come ho già spiegato in un precedente articolo qui (Pensieri di un cittadino perplesso davanti alle elezioni, 17 febbraio). Ci si può presentare come “nuovi” se le facce sono le stesse? Se le liste si formano in modo verticistico e nient’affatto trasparente? Se non si ascoltano i famosi “territori” – che si ripete di voler rappresentare – e si riciclano le intere segreterie dei partiti confluiti nella lista? Se le modalità di comunicazione e le parole della propaganda sono vecchie e stantie?
Per di più quelle parole, e quelle facce, erano state perdenti da anni. Come si poteva immaginare di rovesciare la tendenza, senza cambiare né le une, né le altre?

Ottava tesi. La campagna elettorale si fa su temi concreti e in modo semplice


Bersani, parlando già da capo del futuro nuovo governo, non ha assunto un impegno chiaro su nulla. Ha fatto discorsi, talora alti e nobili, anche con qualche momento di enfasi, che non hanno affrontato i problemi urgenti e drammatici della grande maggioranza della popolazione. Che non hanno fatto che ripetere i temi della famigerata “Agenda Monti”. Che hanno dato per acquisiti una volta per tutte i dettami della Troika che impera sull’Europa. Che non hanno provato a entrare nel vivo di cose banali, eppure essenziali, come il funzionamento dei trasporti e della scuola, come la difesa e la valorizzazione dei musei, degli archivi e delle biblioteche, come la tutela del paesaggio. Il PD ha continuato, come faceva Monti, e come facevano i signori del PDL, e tutta la variegata destra italiana, a dare per scontato il micidiale progetto TAV (come è stato possibile che a Bersani sia uscita fuori una frase, che, per giunta voleva esser spiritosa: “è solo un treno!”?): M5S ha conquistato il suo successo proprio sulla lotta al TAV, che ha capito essere una questione nazionale, di forma e di sostanza. La sua battaglia ha avuto ben maggior successo di quella altrettanto ferma condotta dal PRC e dalla variegata galassia della sinistra extraparlamentare che ora ha tentato invano di ritornare alle Camere. Perché? Forse perché M5S non si è connotato ideologicamente, e ha catturato l’adesione e il sostegno di valligiani e valligiane assolutamente non “di sinistra”, che anzi si spaventano ancora davanti a una bandiera rossa e al simbolo Falce e Martello. E la stessa battaglia Grillo l’ha condotta ovunque ci siano, a dispetto delle cifre fantasmagoriche stanziate per l’alta velocità ferroviaria, condizioni di disagio mostruoso per i viaggiatori “normali”, il popolo bue che non si può permettere di stanziare 30 euro per un viaggio Torino – Milano. Il viaggio sulla Roma-Viterbo del Grillo formato Striscia la notizia, è stato significativo in tal senso, ed è valso forse più di migliaia di manifesti elettorali.

E comunque la concretezza implica la capacità di dare risposte a domande elementari che sono l’oggetto delle chiacchiere quotidiane della gente semplice. Come si può accettare che i treni per pendolari siano schifosi e lenti, e ogni giorno se ne sopprimano decine senza avvertire? Come si deve interagire con i flussi migratori? Come si può tollerare come “imposta legata al possesso” il canone Rai davanti alle milionate erogate nei compensi alla Littizzetto? Non si può rispondere in modo astratto evocando Kant per il diritto all’universale ospitalità, o la bellezza delle tasse, o la validità complessiva del servizio pubblico radiotelevisivo e i suoi costi inevitabili. Occorre che chi fa politica sappia parlare con le vecchine insopportabili perennemente nella sala d’attesa del medico della mutua, e con i pendolari inferociti di Chivasso o di Rho. Grillo l’ha saputo fare. Con demagogia, con artifizi, con prestazioni spettacolari; ma ha saputo cucinare il suo elettorato, e galvanizzare il suo popolo, ogni giorno più ampio. 

Nona tesi. In Italia la destra è forte


Forte e irriducibile, perché risponde a interessi precisi e a una diffusa carenza di senso dello Stato. Essere di destra per gli italiani significa badare al proprio particolare: per nobilitarli, contrapponiamo, classicamente, Guicciardini a Machiavelli. Il secondo esprime una tensione alla politica come ricerca del bene comune; il primo una esaltazione dell’interesse privato, del singolo. Le proposte politiche delle formazioni di destra vanno appunto in tale direzione. Io vi toglierò l’IMU. Anzi, restituirò a ciascuno di voi l’importo pagato. La trovata di Berlusconi, l’ultimo suo coup de théâtre intercetta esattamente quel sentimento dell’uomo o della donna che “bada ai fatti suoi”. Forse qualcuno degli elettori che ha votato PDL ha capito che era una trovata, ma l’ha votato perché ha pensato che fosse normale mettere in vendita il proprio voto. Un Paese in cui l’etica pubblica è stata devastata da Berlusconi, ma non è mai stata alta; e il senso dell’interesse comune, è sempre stato debolissimo; una proposta del genere era lecita. O tale è parsa. In Francia, in Germania, in Inghilterra e dappertutto, ben oltre i confini dell’Unione Europea, sarebbe impensabile. Dunque la destra in Italia è forte ed è misera culturalmente, quanto aggressiva politicamente. 

Si tratta di una destra diversa da quella europea, che, dovunque, conserva il senso dello Stato, anche se volto magari in un antipatico “interesse nazionale”. Non è neppure assimilabile ai movimenti neonazi. È la destra di chi continua a fregarsene, che anzi non ha mai smesso di pensare “Me ne frego”, anche se non osa più dirlo. Una destra ideologicamente disponibile a capriole, ma sul piano sostanziale fermamente legata a grovigli di interessi privati, da quelli di singoli, a quelli di centri finanziari, laici e religiosi, di gruppi industriali. E spesso collusa con organizzazioni criminali: almeno questo, alla sinistra manca. 
Questa destra, con le sue rozzezze spaventose, con i suoi personaggi spesso disgustosi, è stata capace di creare un senso comune, di far credere ai cittadini di essere “tutti sulla stessa barca”, di confondere interessi degli uni e bisogni degli altri, oppressi e oppressori. Questa destra è in grado di unirsi ogni volta che vi sia il rischio di essere battuta dalla sinistra. Da ultimi, Maroni e Berlusconi hanno impartito una lezione di politica al Centrosinistra: si detestavano, si sono insultati, si sono dati reciprocamente il benservito, eppure davanti al rischio fortissimo della vittoria del Centrosinistra alla Regione Lombardia hanno privilegiato che li univa su ciò che li divideva. Il che, tra l’altro, dimostra, ad abundantiam, che la destra non è solo espressione ideologica, ma rappresentanza di interessi materiali: interessi corposi. L’area progressista, se così vogliamo chiamarla, non ha battuto ciglio: ha atteso fiduciosa gli eventi, nella certezza che sarebbero stati favorevoli. Nella campagna elettorale nazionale Bersani e Ingroia si sono reciprocamente rinfacciati voto utile e voto disgiunto, alleanze cercate e rifiutate, e così via, fornendo uno spettacolo penoso all’elettorato. 

Decima tesi. La sinistra è debole


Debole, rissosa, autolesionista, al limite del masochismo. Dopo la rottura nel Governo Prodi, seguita dalla fondazione di un altro micropartito comunista, dopo l’espulsione dal Parlamento, abbiamo assistito a una infinita, sempre più triste vicenda di scissioni, faide interne, uscite, rientri, rotture definitive. Una parte della sinistra, dopo la fine del PCI, una fine decisa da una persona (ricordate il prode Achille?), e sostenuta dalla dirigenza, e accettata dalla gran parte della base, disorientata, si è immediatamente tuffata nel gorgo del turbocapitalismo, mentre arrivava addirittura a negare la propria storia e a tentare di smacchiare il rosso della colpa comunistica. Si accettò la logica e il lessico dell’avversario. Si accolse il “Libero Mercato” (che era tutt’altro che libero) e il sacro dogma del Profitto, come unica via. E si introiettarono ipso facto i vizi degli “altri”. La questione morale, morto Enrico Berlinguer, fu rapidamente posta nel sottoscala. Fino ad essere addirittura considerata irrilevante con gli anni Novanta. E nell’età berlusconiana la si perse del tutto di vista. Dall’altro canto, ciò che rimaneva della sinistra che si ostinava a chiamarsi comunista, si consolava con la intelligenza delle proprie analisi, chiudendosi in se stessa, sempre più incapace di dialogare con quel popolo proletario che intendeva rappresentare. E ciascuna delle sue componenti, come sempre, si autorappresentava come un universo chiuso. E detentore della verità. La dis-unità era nei cuori, e nelle menti, prima che nelle organizzazioni. 

Gramsci aveva l’ossessione dell’unità. Lenin diceva ai comunisti italiani: separatevi dai socialisti e poi alleatevi con loro. Machiavelli invitava all’unità i sovrani d’Italia per scacciare lo straniero “A ognuno puzza questo barbaro dominio”. Gli stranieri sono i Berlusconi, e i suoi berluscones; i Maroni, e le sue camicie verdi. E così via. O siamo noi. Se non vogliamo accettare anche noi, noi che siamo l’altra parte, anzi l’altra Italia, la logica della secessione (secessione morale, e politica, invece che geografica; e la tentazione, confesso, in me è assai forte), e se la sinistra non vuole rassegnarsi alla chiusura nel museo delle cere, con le sue figurine di album, i suoi ritagli di giornale, le sue canzoni e le sue vecchie gloriose e sdrucite bandiere, che si può fare?

Undicesima tesi. Che fare?


Non mi interessano le epurazioni e le dimissioni reclamate o minacciate. Chi sente di dimettersi lo faccia. Ma non per finta. Onore a Di Pietro, ancora una volta, che ha annunciato subito le sue dimissioni dalla presidenza dell’IDV. Ma questo non è ciò che comunque è necessario, anche se sarebbero gesti apprezzabili (il primo a offrirle dovrebbe essere peraltro Bersani, che ha subito dichiarato che non ha intenzione di “abbandonare la nave!”. Rovesciando il valore morale che noi attribuiamo alle dimissioni in gesto di viltà. Notevole!).

Ma non mi piace la mancata assunzione di responsabilità. Bersani e Vendola non mi pare abbiano detto: abbiamo sbagliato (il secondo si è spinto a proclamare: “missione compiuta”, sfidando coraggiosamente il ridicolo). Quanto a Ingroia addirittura (non diversamente da Crosetto, naufragato con la sua barchetta dei Fratelli d’Italia), ha dato la colpa ai media e…, naturalmente, al PD. Affermazioni siffatte sono persino peggio della sconfitta. (Onore a Pierferdinando Casini, che ha ammesso la sconfitta del suo partitino).
Al di là di queste piccolezze, io credo che occorra ripartire da capo, pur pesti e doloranti; pur laceri e contusi; pur scoraggiati e con l’amaro in bocca e la disillusione nel cuore. Ripartire vuol dire quello che ancora Gramsci (il maggiore interprete-attualizzatore di Machiavelli, non a caso), chiamava “un lento lavorio culturale”. Occorre lavorare per una “riforma intellettuale e morale”, sapendo che le vittorie si costruiscono sui tempi lunghi. E che le scorciatoie, quando non si è guidati da un Vladimir Ilič (!), sono impraticabili. La questione morale trascurata a sinistra è stato invece il cavallo di battaglia vincente di Grillo. La legalità non può essere oggetto di merce di scambio. La Costituzione va difesa anche contro le pretese dei tecnoburocrati europei. E invece, accanto alla questione morale, appunto la legalità costituzionale, è stata obliterata, quasi fossero temi non à la page
E invece la sinistra che voglia vincere senza rinnegare la sua ragione sociale, deve proporre una politica sostanziata di cultura e prima di chiedere voti occorre costruire una grande pedagogia di massa, che raggiunga uno per uno gli abitanti di questo Paese, li faccia maturare, che sveli cosa si nasconde dietro il velo dell’ideologia, che dia una coscienza a chi non ce l’ha, o la faccia ritornare a chi l’ha smarrita. Se la sinistra radicale vuole sperare ancora, deve davvero fare tabula rasa, e ripartire con modestia e con rigore dal basso. Se la sinistra moderata o l’intero Centrosinistra non vuole regalare al “giullare” Grillo – e al suo confuso interclassismo populistico – l’intero Parlamento, si guardi da ogni collusione con la destra, da ogni cedimento sui princìpi. Non è facendo un governo di “grande coalizione” che si salva il Paese, e soprattutto si salvano i poveri, i lavoratori supersfruttati, i disoccupati, i lavoratori in nero, i precari, i migranti umiliati e offesi, i pensionati che attendono la morte come liberazione dal bisogno. 
Il successo di M5S non mi ha fatto gioire, ma è la resistenza e la nuova rinascita di Berlusconi e dei suoi che mi ha angosciato, anche per la cecità della classe politica del Centrosinistra, da Napolitano a Prodi. Può essere uno stimolo, tuttavia, il successo di M5S. Esso ha canalizzato l’indignazione sia pure in un movimento bislacco, che è diventato improvvisamente “di moda”, perché può piacere un po’ a tutti; l’indignazione, da noi, a differenza che altrove, non ha prodotto alcun movimento di protesta di massa. M5S ha dato forme discutibili alla diffusa indignazione, secondo parole d’ordine e analisi certamente estranee alla cultura e alla tradizione politica della sinistra, e ideologicamente per tanti versi, addirittura, etichettabili come “di destra”. Eppure ha raccolto alcune delle istanze degli Indignados e dei movimenti Occupy. È stato il solo a farlo, su un piano di massa. Solo il movimento No TAV nell’Italia degli ultimi anni, ha saputo avere continuità di lotta generale, anche se essenzialmente sul piano locale, e a partire da una battaglia specifica. Il NO TAV nazionale è stato solo un bel desiderio, mai divenuto realtà. 
“A ognuno puzza questo barbaro dominio”, scriveva Machiavelli chiudendo Il Principenel 1513. Ma per liberarsene davvero, quale che sia il nome dello straniero da cacciare o del nemico da spegnere, consapevoli che il berlusconismo sopravviverà a Berlusconi, occorre cominciare a scavare dentro di noi, nelle nostre coscienze, nelle nostre frasi fatte, nei nostri preconcetti e pregiudizi. E buttare via tutto ciò che in qualche modo riconduca alla fatuità volgare, alla disonestà pubblica e privata, all’egoismo, alla vanità. Prestare attenzione ai fenomeni sociali. Interrogare e ascoltare, prima che imbonire e indottrinare (vanamente, peraltro). E così, lentamente, tentare di metter in luce il senso autentico della politica, come ricerca e lotta per realizzare una società in cui valga la pena di vivere. E in cui, prima ancora, sia possibile sopravvivere. Il cammino è lungo e irto di ostacoli. Ma le elezioni non sono l’unico modo per segnare le tappe del nostro incedere. E dunque non cediamo – noi intellettuali, ma in generale noi che alla sinistra crediamo ancora – alla tentazione di ritirarci nel cenobio. O peggio di badare ai “fatti nostri”. Continuiamo a occuparci, come incitava Sartre parlando della funzione dell’intellettuale, a occuparci dei fatti di tutti.
La lotta, in fondo, è appena cominciata. 
                                                                                         Angelo d’Orsi


fonte: Micromega