venerdì 6 luglio 2012

L'Umiliazione della Scuola Pubblica: sempre identica in Modalità e Forme.



                                                                                             



Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private.



 Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa.


 Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?

Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. 



Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.

A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. 



Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”.
 Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. 

I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile.

 Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. 
Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.

Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica.

 Le sue parole sembrano scritte ora: “L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico... Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. 
È la fase più pericolosa di tutta l’operazione... Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito”.

Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali.

 Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.





                                                                                  Nadia Urbinati


Fonte: Repubblica

giovedì 5 luglio 2012

La Particella di Dio o di Higgs? Semplicemente il peso della zavorra e della massa.





                                                                                                
Immaginate di dover attraversare una grande stanza affollatissima da persone accalcate tra loro. Troverete molto faticoso passarci attraverso, dovendo spingere per farvi largo nei pochi interstizi disponibili, faticoso più o meno come se aveste dovuto attraversare la stessa stanza, vuota ma portando addosso una pesante zavorra. 



Bene, si pensa che l'Universo sia pervaso da un campo forze che, come una stanza affollata, rallenta le persone, ovvero, fuori dalla metafora assegna a ciascuna particella elementare una zavorra, quella che chiamiamo massa.

Le particelle elementari (protoni, neutroni, elettroni, neutrini etc...) sono i mattoni fondamentali dell'Universo che conosciamo e, come mattoni, hanno ciascuno una massa che possiamo misurare. Schematicamente, i fisici immaginano così il meccanismo da cui deriva la massa delle particelle. Ma possiamo provare l'esistenza di questo campo?

Torniamo all'esempio della stanza affollata. 

Le persone che la popolano chiacchierano molto ed interagiscono fra loro. Supponete di essere ad un capo della stanza e di comunicare, alla persona più vicina a voi, una qualche scabrosa notizia, a bassa voce. Il vostro vicino tenderà a riferirla a un gruppetto di suoi vicini raccogliendoli stretti intorno a sé. E questi faranno qualcosa di simile a loro volta. Nessuno si sposta dalla sua posizione, ma la notizia circola, agglomerando in sequenza piccoli gruppi d'interessati che la riferiscono in sordina.

Se guardaste la scena dall'alto vedreste qualcosa come un addensamento di teste vicine propagarsi attraverso il mare di persone. Da questa prospettiva risulterà chiaro che il grappolo stesso fatica a farsi strada nella stanza, come se fosse appesantito anch'esso da una zavorra, la sua massa.

Al Large Hadron Collider (Lhc) di Ginevra si lavora per cercare la prova dell'esistenza del «campo di Higgs», dal nome di uno dei fisici che ha proposto nel lontano 1964 il suddetto meccanismo che conferisce la massa alle particelle elementari. Questa prova è data dalla presenza della particella (o bosone) di Higgs (l'addensamento che si propaga nel campo) lasciando traccia della sua effimera esistenza nei grandi apparati di misura che scrutano nei prodotti delle collisioni frontali di protoni.

Oggi, dopo una lunghissima attesa durata tutti gli anni che sono serviti per costruire Lhc e i suoi complicatissimi «occhi» (Atlas e Cms), Fabiola Gianotti e Joseph Incandela, i portavoce di questi due esperimenti, hanno annunciato la scoperta di una particella, con una massa circa 125 volte quella del protone, che sembra essere un formidabile candidato al ruolo di particella di Higgs.

Questa scoperta corona un percorso durato una cinquantina d'anni che aveva lo scopo di capire l'origine delle forze tra le particelle elementari e la loro massa.

Molti fisici erano pronti a scommettere che la particella di Higgs dovesse esistere: la teoria aveva avuto molte altre conferme sperimentali che sfortunatamente erano tutte indirette. Tuttavia c'è una differenza fondamentale tra credere nell'esistenza di una particella e nel dimostrarne sperimentalmente l'esistenza.

Fino ad oggi era sempre aperta la possibilità che l'accordo della teoria con gli esperimenti fosse stato solo casuale e che la scoperta della «non esistenza» del bosone di Higgs avrebbe fatto cascare questa costruzione come un castello di carta.
Così non è stato: con la scoperta del bosone di Higgs si chiude un lungo capitolo della fisica: rimane da dimostrare sperimentalmente se l'attuale teoria descriva accuratamente tutti i fenomeni osservabili a Lhc o, se al contrario, la teoria debba essere modificata o arricchita. Staremo a vedere!



                                                                                     Giorgio Parisi e Antonello Polosa


Fonte: il Manifesto

(5 luglio 2012)

Non basta il plico telematico a far la scuola 2.0



mboscaino20 giugno 2012, 8.30 del mattino.
 Un gruppo di studenti, qualche presidente di commissione, alcuni commissari d’esame e diversi membri del personale di segreteria sono raccolti in uno stanzone già surriscaldato a quell’ora dalla malefica sinergia tra temperatura esterna e numerosi computer accesi.
Il lieto evento, atteso con trepidazione, è l’arrivo, sulla casella postale del referente della scuola, della “chiave pubblica” necessaria – insieme alla “chiave privata”, già pervenuta all’istituto, e stampata su un foglio di carta che poi è stato piegato, pinzato e racchiuso in una busta sigillata per essere consegnato a ciascun presidente – per decrittare le tracce della prima prova (il “tema” di Italiano).
I minuti passano e sulla mail non arriva niente. La tensione cresce, insieme al sudore. L’ansia connaturata alla celebrazione dell’esame di Stato (paura di sbagliare, operazioni che spesso si prolungano in misura insopportabile, lo spettro del ricorso, sempre in agguato) e la prospettiva del flop di ciò che il ministro ha qualche giorno prima definito in modo quantomeno enfatico (“Attraverso l’operazione delle tracce online chiudiamo il Millennio precedente”) terrorizzano gli adulti presenti, mentre divertono i digital natives sorteggiati a testimoniare la legittimità dell’operazione, sulle cui labbra comincia a comparire qualche sorrisetto (2.0, naturalmente).
Ma ecco che uno dei presidenti prorompe in un grido liberatorio: “Ce l’ho! Eccola”. E porge al tecnico della scuola il proprio iPhone, con il quale ha raggiunto la “segretissima” pagina 101 di Televideo, sulla quale compare l’agognata stringa. Tutto ora funziona: i compiti vengono sbloccati e stampati nel numero di copie necessario. Il giorno dopo, in occasione della seconda prova, per la quale va ripetuta la medesima procedura, tutti i presenti dotati di smartphone hanno scaricato l’applicazione che consente di sfogliare le pagine del servizio di informazioni della Rai: la serenità regna assoluta.
Questo aneddoto (assolutamente autentico) è sintomatico di come la scuola “reale” abbia affrontato (ma ci verrebbe da dire subìto) l’innovazione della comunicazione per via digitale in uno degli snodi cruciali del suo percorso didattico e amministrativo. Già il 18 giugno, peraltro, giorno in cui si sono riunite preliminarmente le commissioni di esame, si era registrato il crash dei servizi approntati dal ministero per supportare su Internet la gestione di dati, punteggi e verbali. Tutti coloro che avevano provato ad avviare “Commissione web”, infatti, avevano dovuto constatare che l’applicazione non era disponibile. Nei giorni successivi essa ha cominciato a funzionare, ma ha continuato a generare dubbi e perplessità. Il ministero aveva organizzato una struttura di supporto, con tanto di numero verde; i tempi di attesa e la qualità delle risposte hanno però convinto alcuni presidenti e commissari (è il nostro caso) a creare una rete di aiuto reciproco via cellulare: chi scopriva per primo una funzionalità o raggiungeva qualche obiettivo (tipicamente, la stampa della scheda del candidato, un vero rebus!) comunicava agli altri il percorso di click da metter in atto.
Non siamo programmaticamente contro il rinnovamento delle procedure scolastiche, appesantite da una burocratizzazione a dir poco penalizzante. Né siamo aprioristicamente contrari alla politica scolastica (ammesso si possa chiamare così) che il ministro Profumo ha inaugurato. La nostra sarcastica ricostruzione ha un primo ed esplicito scopo: rendere evidente con poche pennellate quanto sia superficiale e demagogico l’aver presentato quanto descritto come “innovazione”, apporto degli esperti under 40 reclutati dal Miur subito dopo l’avvento del governo tecnico. Le tracce arrivano via web e nei prossimi anni probabilmente verranno superati gli impacci di questa prima stagione; ma gli studenti continuano e continueranno a svolgere le prove con carta e penna, ovvero con le tecnologie di comunicazione tradizionali, magari disquisendo di social network, nativi digitali, e responsabilità sociale della scienza e della tecnica, con il plauso dei commentatori integrati e il disappunto degli intellettuali apocalittici. Le commissioni continueranno dal canto loro ad apporre timbri con la ceralacca (sì, avete letto bene, con tanto di candela per sciogliere la cera fornita nel kit in dotazione a ciascuna commissione) sul “pacco” (collazione di svariati chilogrammi di carta – prove, verbali, statini – raccolti e archiviati a conclusione del rito). Questo mentre Internet seguita a essere soprattutto il luogo dove alle 8.43 – a pochi minuti dalla decrittazione, garantita dall’impiego di “tecnologie” militari – è comparsa la traduzione della versione di Aristotele e mentre gli studenti perseverano – nella totale indifferenza di molti insegnanti, che considerano la rete un inutile orpello – a presentare bibliografie in cui i siti consultati sono indicati con il loro URL e non con il loro nome (che ne definirebbe identità culturale e credibilità scientifica) o a infarcire le loro “tesine” di testi copiati-e-incollati senza citare la fonte e di immagini utilizzate senza alcuna attenzione al problema del copyright.
Ma non c’è soltanto questo aspetto di facile denuncia politica: la questione è più ampia. Lo spazio dedicato con entusiasmo dai media a celebrare il successo del “plico telematico”, fatto in sé del tutto banale nel contesto comunicativo attuale – trasmissione di dati in formato digitale per ridurre tempi e spese e necessarie e conseguenti misure di sicurezza – da una parte, e gli atteggiamenti di timore e distacco di molti insegnanti dall’altra sono frutto e testimonianza di una visione della scuola come irriducibilmente “vecchia” e subordinata, strutturalmente inetta per quanto riguarda la modernità. Ciò che in altri ambiti istituzionali e sociali, ma anche in altri spazi della cultura, è pacifico e fa parte dello sfondo, a scuola è insomma costantemente considerato eversivo ed eccezionale, se non miracolistico.
I motivi di questa tendenza sono molteplici. Quella digitale è una pratica importata, mai realmente assimilata e autonomamente considerata e vissuta dal mondo della scuola come davvero culturale. Come la “modernità”, come “l’Europa” – feticci linguistici più che prassi e obiettivi analizzati, studiati ed, eventualmente, perseguiti – la digitalizzazione (molto più di quelli oggetto di investimenti economici) ha rappresentato un must acritico, sinonimo necessario di progresso, cui la scuola – talvolta in maniera recalcitrante – si è più o meno pacatamente adeguata laddove non è stato possibile farne a meno, senza comprenderne le effettive utilità, efficacia, ergonomia operativa e cognitiva. Né mettendo in dubbio il ruolo taumaturgico ad essa affidato. Ma l’effettiva blindatura mentale di molti, che si continua a imputare a una sorta di maggioranza silenziosa, che rifiuterebbe pervicacemente l’innovazione, non è solo frutto delle resistenze e delle inerzie dei docenti. Vanno infatti compresi altri fattori.
Da un lato osserviamo che i molti progetti e piani proposti e realizzati negli anni dal Miur sono alimentati da una prospettiva quasi fideistica: la diffusione dei dispositivi e delle pratiche ad essi collegate garantirebbe in modo deterministico il rinnovamento delle metodologie didattiche. Dall’altro troppi dimenticano le condizioni molto eterogenee delle istituzioni scolastiche, la maggior parte delle quali è caratterizzata da strutture così minimali e inadeguate – spesso insicure, oltre che disadorne o fatiscenti – che non rappresentano né potrebbero rappresentare concretamente il luogo entro il quale sviluppare una autentica dimensione culturale da affidare alla tecnologia. Alla scuola, spesso dell’amianto, delle facciate sovietiche, della lavagna di ardesia, degli arredi spartani, si affibbia una missione “tecnologica” più di facciata che sostanziale: con il conseguente disorientamento, lo scetticismo – e anche una certa rabbia da parte dei meno docili – che tutto ciò comporta. Ne fanno fede i ventilatori portati da casa per far fronte alla sequenza Scipione-Caronte, partita impietosamente insieme all’esame; e il numero di vestiti femminili sacrificati ai chiodi sporgenti delle sedie di legno che – quando non sono proprio le stesse – ricordano perfettamente quelle sulle quali ci sedevamo da adolescenti.
Soprattutto, l’innovazione digitale viene collocata dall’immaginario didattico collettivo in una sorta di zona franca, che neutralizza la concretezza delle scelte e opacizza la direzione degli indirizzi adottati. Quegli stessi che si scagliano con veemenza contro l’adozione di una politica della valutazione dei risultati e degli investimenti che premi le scuole e gli insegnanti già collocati dal punto di vista socio-culturale in condizioni di privilegio o, mentre scriviamo, contro il presunto trasferimento di fondi dall’università alle scuole private, sono del tutto indifferenti di fronte al fatto che i fondi destinati all’acquisto e all’impianto di strumentazioni digitali – per definizione mai sufficienti per tutti gli studenti di tutte le scuole – vengano assegnati, da quasi 20 anni, in base a criteri fondati sulla concorrenza e non sulla compensazione. Questo, magari, mentre sono impegnati a celebrare la valenza cooperativa della comunicazione odierna e l’importanza culturale e democratica dei contenuti aperti e del movimento opensource.
Un ultimo aspetto curioso dal punto di vista sia antropologico sia professionale è l’afflato volontario: con grande generosità personale, infatti, molti di coloro che tentano di introdurre nel proprio profilo professionale e nelle proprie pratiche didattiche le strumentazioni digitali mobilitano le proprie risorse intellettuali (e spesso anche economiche) per affermare la correttezza e l’efficacia delle proprie intenzioni e delle proprie scelte. Questa impostazione è a forte rischio di autoreferenzialità, oltre che di implosione per esaurimento, se non supportata da politiche scolastiche e scelte contrattuali che la sostengano e le diano respiro strategico. Siamo infatti arrivati a situazioni paradossali. Una per tutte: l’autoproduzione da parte degli insegnanti di materiali didattici, sull’onda dell’entusiasmo per i libri digitali. Chi ne è autore diretto è spesso vittima di narcisistica auto-infatuazione; chi ha responsabilità istituzionali ne assume volentieri il patrocinio perché gli garantisce rendita di posizione in quanto promotore della modernità. Entrambi sembrano non rendersi conto che sovraesporre i prodotti formativi e farne il fulcro della mediazione didattica porta con sé un rischio molto pericoloso: nel caso di insuccesso didattico il fallimento potrà essere attribuito solo all’inadeguatezza degli studenti.
L’impressione è che ci troviamo di fronte ad un crocevia. La scelta della direzione da percorrere è improcrastinabile e definitiva. Da una parte possiamo continuare a lasciare la cultura tecnologica in una dimensione di marginalità, rafforzata da proclami ministeriali e fanfare mediatiche che enfatizzano come rivoluzioni banali e dovuti tentativi di emancipare la scuola dalla burocratizzazione borbonica che la immobilizza. Pensare alla tecnologia come la soluzione di problemi che devono essere invece affrontati in sede di ricerca pedagogica e didattica, di revisione dei paradigmi epistemologici delle discipline, di raccordo tra relazione e mediazione educativa e didattica. Di investimenti di risorse professionali ed economiche, di studio e mobilitazione di ricerca, sviluppo e sperimentazione. Dall’altra tentare di rifondare – sulla base della rinuncia a pregiudizi negativi e a dogmatiche e fideistiche convinzioni – una scuola che, come il mondo, tenti di accogliere al proprio interno un rinnovato, dialogico, consapevole, civico approccio alla cultura tecnologica. Questa è la vera interpretazione democratica e inclusiva della competenza digitale definita dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea.


Marina Boscaino e Marco Guastavigna


Fonte: MicroMega

mercoledì 4 luglio 2012

Un Fulmine che Addomesticava. In Ricordo di un Docente


                                                       

Interpretare il senso delle cose, è spesso duro e difficile in alcune circostanze impossibile. Nei giorni scorsi è mancato il Professore Umile Altomare era conosciuto e stimato docente nella comunità di Là Mucone frazione di Acri, collega irrefrenabile, onesto e intellettualmente sincero. Era un singolare Docente, uno che credeva profondamente nel valore della conoscenza specie quella critica, indispensabile per conoscere il mondo e magari anche per trasformarlo ricreandolo, cominciando da noi, dai nostri gesti piccoli e cortesi dalle nostre più semplici azioni quotidiane.  Era un Professore, Umile Altomare, uno di quelli che è una fortuna incontrare nella vita - come insegnante e come collega – che ti  insegnano a colorare il mondo con l’immaginazione e la curiosità timone dell’esistenza e strumento per cambiarlo questo mondo. Credeva profondamente nell’importanza della cultura quella che ti rende migliore e ti rende figlio di una realtà storica e fisica nella quale abitare, anche attraverso un sistema di relazioni e un’organizzazione della vita che è forma degli individui che vivono uno specifico territorio come la zona prospicente Acri.
Ho sempre considerato Umile nell’accezione aristotelica del termine come  un autentico “animale politico” lui che amava profondamente gli animali, il suo cane; uno che amava vivere e stare  insieme ad altri non gregariamente, ma costruendo nella sua comunità un sistema di relazioni di rapporti con gli altri – con noi altri, i suoi colleghi, i suoi alunni, i suoi amici.
Capace di organizzare il suo modo di vivere. Possedeva il beneficio del lògos che è lotta per la razionalità, beneficio della parola che crea comunità; è spazio o reticolo collettivo di intelligenza.  Ha forgiato numerose generazioni di giovani nella scuola media Là Mucone, tante e variegate; ragazzi genuini e autentici come il sogno tenero della loro stessa giovane età. Erano in molti nella comunità della di Là Mucone grande “periferia” a riferirsi a lui sempre e comunque, non solo perchè per anni ha ricoperto in essa il ruolo della vice presidenza; ma anche quando nonostante i vari assetti e stravolgimenti amministrativi, era soggiogata - la scuola -  essenza e funzione, di quella “strana” istituzione singolare e “bipolare” che coniugava cioè la semplicità delle povere cose, alla floridezza e intensità dei rapporti umani, professionali, all’insegnamento e alla vita.
Ho conosciuto Umile diversi anni or sono, insegnavamo l’uno di fianco all’altro, eravamo vicini di aule colleghi delle stesse discipline, ma anche di passione e amore per la scuola, per i “nostri” ragazzi: Ricordi memorabili e indelebili, in quella stessa stessa scuola dove sono nate e costruite alcune tra le mie migliori e importanti amicizie, che rendono un senso a cosa significhi vivere la professione del docente da Docente, nel rispetto e nella stima reciproci, nella collaborazione continua, anche quella fatta a distanza, e  ritrovata sempre in qualunque circostanza, viva più di allora; dedita  alla interpretazione del senso della strana professione di insegnante che in tanti
 - docenti stessi -   pur ignorano ed offendono.
Apprenderne la perdita ha gettato in un turbinio di ricordi e tristezza, molti “vecchi” colleghi un triste giro di telefonate per una conferma giunta troppo in ritardo e dolorosissima.
La scuola di Là Mucone  a dirigenza Straface è stata forse la sua vera casa
 - ne ridevamo di questo - forse per questa stessa ragione non si è mai del tutto allontanato da essa fino in fondo, anche se consumato e talvolta anche deluso da essa. Per quella “Sua” Scuola si è sempre prodigato e speso senza alcun risparmio di sé. In quel luogo aveva costituito insieme ad altri valorosi docenti, in anni gloriosi e non troppo lontani, una “macroarea di passione” nella quale condividere il principio che si dovesse star bene tra docenti per far stare bene gli alunni. Anche da questo suo modo di vivere la scuola, nasceva il gusto per la vita, la sua passione per la cucina e l’amore per le cose autentiche e vere.  L’ultima volta ci siamo ritrovati a sfilare insieme durante la manifestazione acrese per la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia; docenti non più nella stessa scuola ma all’unisono accorati e realisti nell’entusiasmo, ci siamo ritrovati anche a far sflilare il nostro orgoglio di Docenti di Storia con la nostra Passione civile, a parlare con composita dignità delle nostre sofferenze umane e delle disillusioni  professionali. Il nostro ultimo saluto un abbraccio, per un arrivederci che non si è trasformato in occasione d’incontro. Voglio perciò se possibile salutarlo ricordandolo adesso come un insegnante “organico” un uomo di gusto, partecipe di una concezione del mondo, che aveva una consapevole linea di condotta morale; che ha contribuito a sostenere e talvolta modificare quella stessa concezione del mondo, suscitando nuovi modi di pensare; uno di quelli  che riusciva sempre a infonderti sicurezza, calma, conoscendo quello che si deve e non si deve fare, magari improvvisando e ricorrendo alla creatività; uno di quelli che sanno tenere celate le angosce non i propri dubbi e le paure non le umane debolezze. Era netto, spedito e l’espressività dei suoi giudizi secca e levigata.  Lungimirante e progressista capace di immaginazioni visionarie; politico appassionato e fine intellettuale interessato al 900 letterario così come alla meridionalismo culturale, entrambi bussola di un suo prezioso discrimine morale. Non sapeva essere aspro nè pessimista, nè vinto nè vile, anche quando da politico avvertiva le ideologie disfare le certezze. E’ stato coraggioso e verace, ci mancherà.

Ci sono momenti infatti che rivelano in modo radicale la presenza del legame, che ti possono rendere vicini a una persona a un tempo e a un luogo; oltre che all’essere  e al sentirti vicino a qualcosa e qualcuno; che ti permettono di realizzare un costitutivo legame di amicizia più ampio e profondo, complessivo.  Questo è uno di quei momenti, è questa radicale presenza del legame amicale mi lega ai suoi familiari, agli altri colleghi che con lui hanno lavorato e vissuto, agli studenti  che lo hanno conosciuto e apprezzato, e a tutti quelli che gli hanno Saputo voler bene.
Il vuoto nel quale Umile ci lascia è più grande, forse perché ci ricorda che il sentire è proprio costitutivo dell’essere-con, dell’appartenenza a  che in questo caso è la casa comune: questo nostro strano mondo nel quale essere e fare il docente appare inconcludente e meschino, banale o forse poco più che inutile per alcuni; ma magari per altri una vera, alta e consapevole ragione di vita.
Umile è stato un docente magistrale uno di quelli che hanno insegnato la vita e la cultura; che meriterebbe invece la menzione di “addomesticatore” :  ci ha ricordato  e insegnato  che ha più senso di ogni senso il legame, anche quello nella sofferenza che lampeggia; quello nel bisogno, nella cura e nella premura, capace di fare brillare i legami professionali così come quelli umani e rendere i suoi amici sempre ricchi nel riabbracciarlo idealmente per incontrarlo nuovamente nei preziosi ricordi.
Umile Altomare è stato in grado di attestare d’un colpo l’improvvisa percezione del bisogno costitutivo dei sani legami, di cui è stato maestro e professore.
 Un fulmine che “addomesticava” legami, Umile.
Adesso solo un dolore che lampeggia nello sconcerto e nell’incredulità di avere smarrito un Caro Amico Professore; per provare a consolarsi nel solo patrimonio dei ricordi belli e colorati come i pranzi che preparava per noi colleghi, nei nostri allegri incontri insieme.  
Ciao Umile, Caro Amico Professore ci mancherai forse più della tua stessa capacità di creare legami, ecco perchè pensadoti ho sentito il bisogno di rileggere il XXI°capitolo del Piccolo Principe  di Antoine de Saint-Exupery, perchè a modo tuo hai Saputo essere anche tu, un poetico “piccolo-grande principe” di Là Mucone, uno di quelli eleganti e garbati che sanno bene come creare legami.

 (…) “Creare dei legami?”  “Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò' per te unica al mondo”."Comincio a capire" disse il piccolo principe. “C'e' un fiore (...) credo che mi abbia addomesticato...” La volpe ritornò' alla sua idea: “La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò'. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà' illuminata. Conoscerò' un rumore di passi che sarà' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà' uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù' in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e' dorato, mi farà' pensare a te. E amerò' il rumore del vento nel grano (...)”
La volpe tacque e guardò' a lungo il piccolo principe: “Per favore (...) addomesticami”, disse. “Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però'. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più' tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già' fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più' amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” domandò' il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po' lontano da me, così', nell'erba. Io ti guarderò' con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. (…) Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più' vicino (...)” Ci vogliono i riti".
"Che cos'e' un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa e' una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. (…)
Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe..E quando l'ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “(...) piangerò'”. “La colpa e' tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi (...)” “E' vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “E' certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?” "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
                                                                            Angela Maria Spina 

Vittorini: La Letteratura, la vita


 
È salito sul podio per dire BASTA alla dittatura fascista, alle devastazioni della guerra, alle sterili proteste, all’aristocratica separatezza degli intellettuali, alle distaccate contemplazioni dalla “turris eburnea”.
 Attraverso gli interrogativi nascosti tra le righe di pagine fortemente sintetiche e dense di informazioni, ha annotato le aspettative di profonda rigenerazione nate dalla Resistenza e riconosciuto la grande valenza formativa della storia letteraria che, attraverso collegamenti sincronici e diacronici, è un veicolo delle tante visioni del mondo succedutesi nel tempo, vettore incisivo in una società dominata dalle apparenze e dalla visibilità.
Vittorini, figura centrale della cultura italiana, protagonista attivo, fra gli anni Trenta e Sessanta, di tutti i suoi momenti più vivi come scrittore e, soprattutto, co me instancabile organizzatore di cultura, in questo grandissimo classico di ieri, di oggi e di domani, ha denunziato le tante lacerazioni che non avevano saputo con trastare le barbarie né evitare l’apocalisse bellica … “I morti più di bambini che di soldati; le macerie di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo” (Polemica Vittorini- Togliatti, 1945) …  Non si poteva più delegare l’azione po litica e sociale “a Cesare”, bisognava agire ed essere “organici” al le forze politiche che si adoperavano per questa trasformazione.
CONVERSAZIONE IN SICILIA, uno dei più incisivi mausolei della letteratura italiana, a scuola è una presenza imprescindibile, un’eco viva che, in 49 capitoli, spinge a ritrovare la luce di quei valori, quali la libertà di coscienza e la capacità di autodeterminarsi, per i quali ancora oggi si combatte … 
Chi o cosa rappresenta il centro focale del romanzo pubblicato nel 1941?
Un intellettuale che, pur essendo in preda ad “astratti furori, astratti, non eroici, non vivi”, è immerso nella “quiete” della “non speranza”?
L’attentato all’essenza stessa dell’uomo provocato dal clima plumbeo degli ultimi anni del Fascismo?
Un’allegoria con cui l’autore, per non incorrere nella censura del regime mussoliniano, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste?
Una metafora con tante chiavi di lettura affidate a personaggi e dialoghi che hanno un ruolo di sempiterna attualità?
La ricerca implicita di soluzioni atte a salvare il “mondo bello, ma molto offeso”?
La percezione di “un genere umano perduto che non ha febbre di fare qualcosa in contrario” (Vittorini)?
La molteplicità di temi e di significati fanno sì che il romanzo si codifichi come documento di alto sapore gnomico, pregno di significati politici su cui soffermarsi, su cui riflettere e far riflettere i giovani studenti, i quali, adeguatamente guidati, potranno introiettare le allusioni criptiche che l’au todidatta dalla raffinata cultura trasmette.
 Il nucleo fondante di questo specchio rinfrangente del 1939, con parenesi di grande respiro che fanno luce sui nodi problematici dell’epoca di riferimento e sulle incognite a essi correlate, risponde all’esigenza di ridar linfa vitale a un’umanità fiera “pronta per altri doveri”, nella coscienza che l’uomo perda la propria dignità quando è schiacciato e perseguitato.
L’opera, raccontando la condizione spirituale di un trentenne trapiantato a Milano, rimanda a quella di tutti gli intellettuali che, come lo scrittore, maturavano la consapevolezza della difficoltà dell’azione negli anni della Guerra Civile spagnola, mentre il regime cambiava volto; appariva chiaro, infatti, che stavano per essere deluse le aspettative di chi aveva aderito al cosiddetto “Fascismo di sinistra”, credendo nella possibilità di una rivolta a sfondo popolare contro il conformismo borghese.
La crisi determinata dal conflitto, che aveva fatto cogliere la vera natura della dittatura, scatena nell’autore una maturazione ideologica e lo spinge a generose pro teste in attività clandestine di dissenso alla dittatura. 
Tali reazioni filtrano continuamente dalle parole che aiutano a ritrovare in esse l’uomo-Vittorini, anche se l’identità del viaggiatore è incerta e non si è di fronte a un’autobiografia; l’autore auto-omodiegetico fa continuamente capolino tra le righe e, servendosi delle voci dei personaggi, introduce situazioni e idee proprie. 
Viaggiare non è, per lui, solo un’occasione per registrare nuove sensazioni, ma il ponte per recuperare una dimensione umana e, di conseguenza, la propria identità.
 In qualsiasi opera d’arte, appunto, chi scrive, intaglia, dipinge, lascia una qualche inconfondibile traccia del suo privato, immettendovi il suo stato d’animo, le sue aspirazioni, le sue angosce, le sue ansie, i suoi problemi, provenienti non solo dalla sua sfera cosciente, ma, soprattutto, dal suo inconscio, con quelle note affettive che giacciono dentro di sé, ma di cui non ha un’immediata percezione.
Il romanzo, che prende avvio dalla Stazione di Bologna, è ambientato in Sicilia, una terra misera e arcaica “è solo per caso Sicilia; perché il nome Sicilia gli suonava meglio del nome Persia o Venezuela” (Vittorini).
 L’autore non si sofferma su descrizioni naturali e preferisce puntellare l’ambiente con dei simboli che conferiscono al libro un tono oracolare e sapienziale, di rivelazione di verità essenziali e assolute, anche se egli stesso, come ulteriore prova del proprio coinvolgimento emotivo, nell’edizione del 1953, ha lasciato un nostos fotografico dei luoghi stessi del suo romanzo, di cui l’Università di Catania ha curato la ristampa anastatica per Rizzoli. 
Vi si ritrovano quasi 200 fotografie che, arricchite da mappe geografiche, cartoline postali, illustrazioni di quadri antichi e di pupi siciliani o altri pezzi recuperati, testimoniano il lungo tragitto spirituale di Silvestro; un’immagine, infatti, sebbene opponga resistenza alle ferree regole della grammatica verbale e sia incapace di rappresentare gli sviluppi tematici o le dinamiche narrative di qualsiasi storia, risulta molto efficace “per la rappresentazione grafica delle idee e la sua suggestione è tanto più efficace quanto più riesce a essere documento che visibilmente sottolinea l’informazione; le figurazioni accortamente collocate, nell’ingenua convinzione che venga evitato ogni processo di manipolazione, influenzano il lettore più di un lungo articolo perché viene attribuito a esse un carattere di obiettività pressoché assoluta e danno concretezza storica al fatto narrato.
“Scrittura e fotografia, così, anche se viaggiano su due piste distinte, mantengono un dialogo aperto e continuativo, in vista di un fine comune; la pagina scritta non ne risente, anzi, vede accrescere la sua potenza espressiva, come le ombre si congiungono ai corpi di cui sono le prosecuzioni.” (Pierfrancesco Frillici, La “Conversazione” fotografica di Elio Vittorini, www.artribune.com).
Silvestro Ferrauto, quando riceve la lettera con cui il padre gli annunzia di aver lasciato la moglie per andare a Venezia con un’altra donna, si decide a tornare al suo paese in coincidenza dell’onomastico della madre. 
L’io narrante, così, si trova, su un treno che lo riporta nella natia Sicilia, da cui era partito quindici anni prima e, nei tre giorni di permanenza, è accarezzato dai ricordi che affiorano in lui, odori, colori, sapori prendono corpo in montagne brulle, zolfo, fichidindia, aringhe, bracieri di rame. 
Il passato felice vivo nella sua memoria naufraga, però, nelle discussioni lente e ripetitive dal tono semplice e quasi “distaccato” di Concezione che gli ricorda la miseria in cui erano vissuti.
Nell’isola, in cui “nessuno ha più coltelli da affilare”, il giovane accompagna la madre che, da infermiera, non si lascia abbattere dall’abbandono del coniuge e si adopera per curare i malati del paese, avvelenati da malaria, tisi ed endemica povertà, nella segreta speranza di superare il suo stato di malessere.
 Nel suo giro quotidiano, visita delle case che sembrano delle grotte, in cui viene sempre circondato di attenzioni, anche se non può vedere gli infermi a causa del buio in cui essi vivono; davanti alle natiche dei pazienti, ripercorre la propria infanzia in un viaggio iniziatico intessuto da conversazioni sulla miseria e sul significato della malattia che lasciano emergere la realtà dell’indigenza, dell’angoscia e della morte, nella demistificante certezza che esse non porteranno ad alcuna svolta, né al bisogno di rivolgimento interiore, ma solo al proprio girovagare solitario.
Il Primo capitolo dell’opera miliare ricalca movenze montaliane, con l’espresso riferimento all’inutilità di “chiedere la parola” rivelatrice (Montale, Non chiederci la parola, 1923); il “capo chino”, l’impotente e silenziosa protesta di fronte a “giornali squillanti”, l’inerzia di fronte ai “massacri sui manifesti”, il silenzio assoluto persino con gli “amici” o, addirittura, con “una ragazza o moglie” e, ancora, “le scarpe rotte” ribadiscono con forza il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Montale, Non chiederci la parola,1923) da opporre a un regime che, servendosi dei tanti “servi volontari” (Sciascia, Porte aperte, 1987), ha tentato di annientare l’uomo, spegnendone le scintille vitali.
L’opera d’arte, in tal senso, pare associarsi al “Languore” (Poesie, 1884) di Verlaine, ricordando lo smarrimento del poeta francese, che, di fronte al dominante “male di vivere”, leit -motiv del secolo, assume su di sé tutte le caratteristiche negative del periodo storico vissuto dalla sua generazione, caratterizzato da debolezza, corruzione, incapacità di fronteggiare i pericoli della realtà, passività nei confronti dei drammatici eventi della storia.
Dallo scorrere delle pagine, poi, si colgono principi che, se ribaditi in tutto il romanzo, trovano la loro più incisiva rappresentazione nelle riflessioni di estrema concentrazione lirica del trentacinquesimo capitolo. In queste pagine si assiste all’incontro particolarmente costruttivo tra Silvestro, da un lato, e i personaggi cardine dell’ultima parte, soffocati “dallo stesso dolore per l’umanità” e portatori di un messaggio di ribellione; la connotazione paradigmatica di questi ultimi è molto chiara.
L’arrotino CALOGERO, che vorrebbe agitare il popolo con “lame e coltelli”, resta deluso perché tutti “fanno finta di niente di fronte alle violenze”, divenendo metafora dell’ideologia marxista e, con la sua istanza rivoluzionaria, prefigura la condizione di quanti, pur in situazioni difficili e insopportabili, scelgono di opporsi a ogni forma di prepotenza; il mercante di panni PORFIRIO, che disegna la cultura idealistica sempre pronta a schiacciare l’uomo con la promessa di un aldilà consolatore, predica la necessità dell’ “acqua viva”; L’UOMO EZECHIELE, “i cui occhi madidi sembrano implorare pietà per il mondo offeso”, veicola la filosofia consolatoria e, pur con la demistificante “quiete nella non speranza”, fa percepire agli studenti il palpito di loro cuori in tempesta e la forza di andare avanti. Il sellaio, in particolare, dà lezioni di vita perchè “soffre, ma ha il coraggio di denunziare tutte le offese e tutte le facce provocatorie che ridono per gli oltraggi compiuti e da compiere”.
340 pagine (Bur, 1986) coinvolgenti e appassionanti, fino alla conclusione che lascia il lettore pensoso di fronte ai tanti interrogativi … Silvestro annunzia alla madre che ripartirà in giornata, esce e piange davanti al monumento ai caduti per ricordare il fratello Liborio … Poi … Cosa rappresenta il suo incontro surreale e inverosimile con tutti i personaggi che hanno puntellato il romanzo? Chi è l’uomo dai capelli bianchi che piange nascondendosi il volto tra le mani mentre Concezione gli sta lavando i piedi? E’ il padre? … Improvvisamente invecchiato? … Sì, il figlio deve tornare a Milano, avvolto da e nel silenzio, la sua mente ha bisogno di riposare e di cercare il filo che accomuni le varie esperienze in questo percorso senza coordinate temporali ben precise, in un tempo della storia che è spesso minore del tempo del discorso, … solo tre giorni dall’arrivo alla partenza? … e tale struttura narrativa è innanzitutto evidente nei lunghissimi dialoghi, estenuanti e ripetitivi, tra i personaggi che perseverano nel ripetere poche frasi intramezzate da brevi esclamazioni sulla tecnica dell’anafora martellante.
 Nel sottofondo rimangono le parole dell’uomo Ezechiele che, “come un eremita antico, trascorre i suoi giorni nel cuore della terra per scrivere non solo la storia del mondo offeso, ma anche di tutte le facce canzonatorie che ridono per le offese compiute e da compiere” nel tentativo di far sentire l’esigenza di un confronto costruttivo.
CONVERSAZIONE IN SICILIA, in sostanza, dimostra che IL MESSAGGIO LETTERARIO è reale strumento di crescita, a patto che INSEGNI agli studenti “a rifiutare una cultura pronta a consolare nelle sofferenze o rinchiusa nella torre d’avorio e, piuttosto, li FACCIA PROPENDERE per una formazione che le combatta e le elimini, che LI SPINGA a orientarsi verso opere che potenzino i princìpi operativi dell’azione politica”, a contestare chi pretende di coartare le coscienze o si riduca a “suonare il piffero per la rivoluzione” (Vittorini, Polemica Vittorini-Togliatti, 1945), LI EDUCHI a esprimersi liberamente in forma critica verso una pubblicazione e LI CONVINCA a tener stretto “il punteruolo” per trovare strade sempre nuove verso la vita. Stigmatizzare i vari “Coi Baffi e Senza Baffi”, che offendono la dignità di tutti i prevaricati di ogni tempo e ogni luogo, è dovere morale di ogni cittadino per uscire dalla “selva oscura”, per non demordere, per non rimanere inermi nei confronti della storia e impotenti di fronte ai suoi massacri.


                                                                         Matilde Perriera