mercoledì 6 novembre 2013

Alla Ricerca dell'Impegno Perduto secondo Camilleri


La tendenza odierna di molti intellettuali italiani appare il disimpegno, contemplata dal rischio di sfociare non di rado nell' aperta indifferenza, le occasioni per ‘sporcarsi le mani’, nell’Italia dei nostri tempi di certo non mancano, ma che funzione svolgono gli intellettuali?


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L’impegno dell’intellettuale è una storia della quale cominciai a sentir parlare nell’immediato dopoguerra, con Sartre e tutti gli altri.
 Allora si chiedeva, da parte della sinistra, ma diciamo pure da parte del Partito comunista, una sorta di integrazione assoluta dell’intellettuale all’interno della politica del partito. 
Insomma, si chiedeva all’intellettuale un impegno civile, ma era un impegno esattamente definito dentro i «paletti» di un’ideologia e di una linea politica: chi sgarrava era fuori. 
Vedi Vittorini. Vedi tanti altri.

Successivamente, con la destalinizzazione e poi il boom, il carattere dell’impegno degli intellettuali è mutato, non più strettamente legato a un’ideologia ma più direttamente ai problemi della società.
C’è stata tutta una letteratura legata alla fabbrica, al boom economico e alla sua critica, prendiamo un autore certamente non «estremo» come Mastronardi…

Poi la critica, il senso politico, anche quello in senso lato sociale, è andato affievolendosi. Perché? Non lo so, eppure dopo l’onda lunga del Sessantotto, parliamo degli anni Ottanta, succede che ci troviamo in una situazione parecchio paradossale: in nove casi su dieci l’intellettuale in Italia non parla del mondo in cui vive, parla d’altro.


Una volta si diceva che la cultura si chiudeva in una sua «torre d’avorio», ed è proprio quello che è successo e che si sta accentuando.
 In peggio, addirittura, perché prima c’era l’impegno, poi il non impegno, e ora un terzo livello, il disinteresse per il mondo in cui si vive, l’indifferenza. 
Gli intellettuali che praticavano un tempo la «torre d’avorio» e magari la teorizzavano, erano consapevoli di questo loro «astrarsi» dalle vicende civili e politiche, ci tenevano a distinguersi, a essere considerati al di fuori, cioè «al di sopra». 
Oggi non c’è neppure questo aristocraticismo. Oggi c’è solo il «particulare»: lo scrittore racconta del suo ombelico, se vi sta bene, bene, altrimenti pazienza. 

Magari qualcuno obietterà che sul proprio ombelico Proust ha scritto un capolavoro in più tomi, che ci sono periodi storici in cui si può parlare ampiamente e splendidamente del proprio ombelico, magari anche oggi. Ma allora avanzo una contro-obiezione e chiedo una «separazione delle carriere»: tu come scrittore parli del tuo ombelico, ma come cittadino non puoi non accorgerti della situazione di disagio e di ingiustizia in cui vive la maggioranza del paese. Almeno come cittadino, ne vuoi parlare? Vuoi spendere una parte del tuo prestigio almeno per «aggregarti» umilmente con chi prende iniziative per combattere quelle ingiustizie? No, neanche questo. Ecco perché siamo a una sorta di grado zero della funzione dell’intellettuale oggi in Italia. Sono pochissimi gli intellettuali che partecipano come cittadini, e questo è un danno, un danno enorme. E anche una colpa. 

Perché se hai una qualche dote, che ti fa in qualche modo distinguere, ritengo un dovere che tu la debba usare impegnandoti come cittadino, è un modo di restituire parte dei privilegi di cui godi. Naturalmente bisogna intendersi sul termine «intellettuale». Mi lamentavo dell’assenza civile degli scrittori, degli artisti, perché altri intellettuali si impegnano, per fortuna. 

Zagrebelsky è un intellettuale, Rodotà è un intellettuale, però nel mio campo, nel campo più vicino al mio, io non trovo un impegno analogo, mentre la situazione del paese imporrebbe l’obbligo più assoluto di una costante par-te-ci-pa-zio-ne!
Il paese vive una situazione grave. La risposta sono le «larghe intese»? Io guardo i 700 mila posti di lavoro persi, denunziati non dalla Fiom ma addirittura dalla Confindustria. Settecentomila posti di lavoro persi in poco tempo, e non è che le immediate prospettive facciano sperare che si recuperino in due o tre anni. In Italia c’è una guerra in atto. Che cosa succede quando avviene una guerra? Spariscono due o tre generazioni, spariscono perché sono morti, rimangono lì sul campo, giovani, belli, di 22, 23, 24, 25 anni, schiattano tutti messi in fila e non hai problemi. Da noi è lo stesso. Noi ci troviamo con due, tre, quattro generazioni alle quali abbiamo levato praticamente ogni speranza di sopravvivenza. Solo che sono vivi.

E c’è qualcuno che ai pochi intellettuali che si impegnano ha la faccia tosta di rimproverare di occuparsi di problemi astratti, con cui non «si mangia», tipo la giustizia, il conflitto di interessi, l’ineleggibilità di Berlusconi, l’autonomia della magistratura, gli attacchi contro la procura di Palermo… come se non fossero cose concrete anche queste.

E allora: è vero, io personalmente Andrea Camilleri, nome e cognome, ho difeso la procura di Palermo e al tempo stesso mi sono trovato più volte accanto alla Fiom per ciò che riguarda i problemi del lavoro. Perché sono certo che c’è un nesso, che bisogna avere una visione delle connessioni tra i problemi. È astratto proprio «settorializzare». Il problema della giustizia è in strettissimo rapporto con il problema dei soldi che ci sono, per esempio. L’evasione fiscale gigantesca, il costo gigantesco della corruzione.

Il funzionamento della giustizia (oltre al problema Berlusconi, che resta cruciale), che snellisca e acceleri i processi, compresi quelli della giustizia civile, perché un investitore straniero che voglia venire in Italia, competente il Foro di Roma (ma non solo), si terrorizza all’idea di un qualsiasi contrasto. 



Se non combatti la tangente l’economia non riparte. Una legge come quella attuale sul falso in bilancio che garanzia dà? Sono tutte «perle» che sembrano slegate dalla crisi economica, ma insieme fanno invece una collana. Pensiamo alla prescrizione, basterebbe abolirla dopo il rinvio a giudizio, e i processi sarebbero infinitamente più rapidi. A parte il fatto che una sentenza per prescrizione lascia tutto in quella ambiguità alla quale noi italiani ci rassegniamo, e che è uno degli elementi peggiori della nostra vita associata. In Italia, i misteri d’Italia non si risolvono mai. 

Qualche giorno fa il presidente Napolitano se ne viene fuori che vorrebbe sapere la verità sull’abbattimento di Ustica. Bene, sono passati trent’anni, è davvero sbalorditivo stare dentro al potere per decenni, e poi «chiedere chiarezza». Della strage di Bologna ancora non sappiamo come davvero siano andate le cose. Nell’ambiguità italiana i personaggi del potere ci sguazzano, perché sono personaggi ambigui, tutti. Poi ti accusano di antipolitica.

Non so se Napolitano sappia, so che anche Cossiga faceva il gioco di chiedere chiarezza, ed era addirittura più diretto, perché indicava ipotesi. So soprattutto che quello dell’ambiguità è in Italia lo sport nazionale. Guardiamo il governo della «larghe intese», un capogruppo del Pdl dice che questo governo non funziona, il vicepresidente del Consiglio di questo governo dice che se non si fa una certa legge il governo se ne va a casa, eppure sono al governo e questo signore ne è addirittura il vicepresidente! Se gli amministratori delegati di una società ragionassero e parlassero così, la società in Borsa andrebbe a vacca nel giro di trenta secondi.

Gli intellettuali, in una situazione così, avrebbero di che pascere, e invece non lo fanno. Alcuni per «non sporcarsi le mani» con la politica, altri per un certo timore di perdere qualche privilegio, di non essere invitati in qualche salotto. Magari dirò una sciocchezza, ma se il bianco è il bianco e il nero è il nero, e tu sei il bianco che comincia a combattere il nero, la situazione è chiara, sai chi sono i tuoi alleati, sai chi sono i tuoi nemici. Ma in un mondo melmoso, paludoso, come quello della politica italiana, probabilmente fa già un po’ di ribrezzo perfino entrarci dentro. Eppure si può e ci si deve rimboccare le maniche e combattere con impegno politico contro la politica ridotta a cosa sporca. È inutile chiamare questo impegno «antipolitica», la politica resta essenziale, è indispensabile alla vita di una nazione. Ma se questa politica diventa una cosa putreolente è chiaro che tu…
Ecco perché gli intellettuali dovrebbero impegnarsi in politica: per farla tornare a essere quella che è stata o, meglio ancora, quella che potrebbe essere.

So che quando pubblico un libro ho un certo numero di lettori. E che nei confronti di un romanzo circa il 99 per cento dei lettori si ferma alla «prima lettura», alla superfice. Però qualcuno va più a fondo. E allora so che anche nel mio piccolo, anche attraverso Montalbano, posso parlare dei problemi dell’Italia di oggi. Se i miei colleghi non vogliono far questo nei loro romanzi, almeno, visto che hanno la possibilità di scrivere sui giornali, di apparire in televisione eccetera, da cittadini esprimano le loro idee, che voglio sperare (anzi ne sono certo) non saranno quelle di una politica di basso conio. 


Lavorare per orientare l’opinione pubblica nel senso di più «giustizia e libertà», per educarla a questi valori, dovrebbe per un intellettuale, per uno scrittore, essere sentito come un dovere. Sentirsi responsabili per la formazione dell’opinione pubblica e, se non si fa nulla, sentirsi come un maestro di scuola che non fa lezione, che viene meno ai suoi doveri.

È triste dirlo, ma effettivamente pochi scrittori e pochi intellettuali lo fanno. Firmare un appello, partecipare a un’iniziativa, significa come dicevo prima «aggregarsi» con chi si è fatto carico di un problema, lo ha individuato meglio di te, lo espone e organizza la lotta per risolverlo. Significa partecipare alla vita sociale. Quelli che dicono che un intellettuale che firma un appello viene meno al suo ruolo non sanno quello che dicono: si può accusare un intellettuale perché partecipa alla vita sociale?

Forse se oggi sono così pochi gli intellettuali impegnati è anzi perché non si può impegnarsi, diciamo così, «in carrozza», con licenza dei superiori, avendo alle spalle un partito. Oggi se ti impegni, devi farlo a nome tuo e basta, ma io trovo che sia più stimolante, avere dietro la rete del partito la trovavo un’esercitazione da circo equestre per bambini. Impegnarsi in prima persona è assai più stimolante e, se mi è concesso, assai più dignitoso.

C’è anche un modo più sottile di evitare l’impegno, restare sul generico, in modo che non sia scomodo per nessuno. Chi è che non aderisce a un manifesto contro la mafia? Perfino Totò Riina aderirebbe… Quando vai all’atto pratico e devi trarre le conseguenze concrete, allora le cose cambiano, devi difendere dei magistrati con nome e cognome, quelli della procura di Palermo, tanto per dire. E allora a impegnarsi con coerenza rimangono in tre o quattro. 

Ci sono atteggiamenti che non capisco. A proposito di procura di Palermo, ad esempio. Non parlo neppure dell’atteggiamento di Napolitano, mi colpisce perfino di più l’atteggiamento della gran parte della stampa italiana rispetto a un atto fatto dal presidente della Repubblica: sono rimasto sinceramente molto turbato che chi ha criticato il presidente sia stato accusato, o poco ci mancava, di lesa maestà, quasi che il presidente della Repubblica fosse «Sua Maestà». E questo mentre non si fa una piega nei confronti di manifestazioni di piazza contro una sentenza, con tanto di parlamentari berlusconiani e con Berlusconi che qualche giorno dopo viene ricevuto dal Quirinale! 

Questo atteggiamento unanime, di conformismo dei media non è che mi ha sconcertato, mi ha quasi spaventato: mi ha atterrito sentire e leggere che non appena si sentisse la voce dell’Altissimo bisognava chiudere immediatamente le registrazioni, bruciarle… Significa confondere il rilievo, la dignità, l’importanza di una carica, che è pur sempre una carica, con una sorta di cattolica infallibilità della medesima. Ripeto: questo mi spaventa.

Un tale atteggiamento di sudditanza a Napolitano è perfino più inquietante delle stesse scelte fatte dal presidente. Posso ripetere qui quanto ho detto in un confronto pubblico con Massimo Ciancimino: per l’amor del cielo, cerchiamo di essere persone concrete, la trattativa è innegabile, no? Non è difficile da immaginare: da questa parte del tavolo siede Totò Riina e Ciancimino (il padre) dall’altra il generale Mori; è chiaro lo squilibrio di forze, da una parte due generalissimi, Riina e Ciancimino, dall’altra sì e no un caporalmaggiore.

I due avranno chiesto a Mori: «Quali sono le sue commendatizie, Signore? Chi la manda? Chi l’autorizza a venire a trattare? Perché altrimenti noi “nni susemo e nni nni iemo” [qui Camilleri ripete l’espressione in romanesco: “S’alzamo e se n’annamo”, n.d.c.], in quanto lei non ha nessuna voce in capitolo, nessuna autorità». È chiaro che a questo punto i nomi sono stati fatti, ma non solo i nomi, sono state portate le prove che quei nomi corrispondevano a volontà precise. Chiaro? Perché altrimenti non ci sarebbe stata nessuna trattativa. Insomma, troppe volte si dice che si vuole chiarezza ma in realtà di preferisce mantenere la nebbia. È come quando dicevano: Andreotti e Coso si sono baciati? Ma figurati! Non è possibile! Eppure la risposta vera è stata data dall’attore comico siciliano Ciccio Ingrassia: se si sono incontrati, allora si sono anche baciati. Il punto cruciale è in quel se. Il bacio viene di conseguenza e non è neppure essenziale.

Perciò, se la trattativa c’è stata, vuol dire che il caporalmaggiore Mori aveva dietro di se i capi di Stato maggiore che gli avevano dato l’incarico, e aveva la possibilità di dimostrare di averlo effettivamente ricevuto. Perché allora oggi tutti, tranne qualche magistrato sempre più solo e nel mirino, sembrano preferire la nebbia? Non voglio arrivare a dire perché sono tutti coinvolti. Non lo so. Questa voglia di servilismo, questa servitù volontaria, io infatti non riesco a spiegarmela. 
Tra le tante cose che mi preoccupano dell’Italia di oggi, quella che più mi preoccupa è lo stato dell’informazione. L’ambiguità dell’informazione, il detto e non detto, il non chiarire, il tenersi la nebbia. Del resto, la trattativa Stato-mafia, che c’è stata, è una cosa gravissima, ma non ci fu a suo tempo la trattativa Stato-Brigate rosse? 

Tirare fuori la trattativa con la mafia costringe a diverse domande inquietanti, alle quali probabilmente non ci sono risposte. Comunque io non credo che un ministro della Giustizia decida motu proprio l’alleggerimento del 41 bis senza consultare gli altri membri del governo, queste sono fantastorie che possono andare a raccontare agli altri. In realtà i tentativi di accordo ci furono, ed è grave che uno Stato tratti con la mafia. Ma, lo ripeto, questo stesso Stato la prova generale di trattativa con la criminalità organizzata l’aveva fatta con il caso Ciro Cirillo. «Mai trattare con i terroristi» e poi si trattò per la sua liberazione. È stata la prova generale.

Con la mafia non può essere andata diversamente. Oltretutto, quel tavolo di trattativa in cui sedeva Mori era talmente importante che la mafia vi operò addirittura un cambio di «rappresentanza»: poiché l’irragionevolezza di Riina tagliava la strada a qualsiasi trattativa, allora si sono venduti Riina ed è subentrato il «diplomatico» Bernardo Provenzano. Quindi vuol dire: la trattativa c’era ed era seria.

Di fronte a fenomeni così gravi, non capisco il silenzio di troppi intellettuali. Non so come spiegarmelo. In alcuni è pura imbecillità, diciamolo francamente. In altri è assoluto disinteresse, in altri è una sorta di… continuare a convivere con quell’ambiguità di cui parlavamo prima. Poi ci sono quelli che arrivano a dire «ma è storia vecchia, dai, è passata in giudicato, non interessa più». Perché sembra che ormai in Italia le «storie» abbiamo una scadenza di ventiquattr’ore. Dopo ventiquattr’ore spariscono, dalla stampa, dalla televisione, dalla memoria dell’opinione pubblica, spariscono da tutto. 


Eppure una delle funzioni dell’intellettuale è coltivare la memoria. Brutta storia questa perdita di memoria. Anche quando i processi si fanno, dopo trenta o quarant’anni, quante testimonianze non sono più possibili, quanto prove sono state opportunamente perse, e tutto finisce nel dimenticatoio.

Uno storico potrebbe divertirsi a scrivere un’autentica storia d’Italia, una storia del non detto, una storia d’Italia per omissioni, sarebbe interessantissima. Dal delitto Moro a Ustica, dalla stazione di Bologna all’Italicus, dalla Banca dell’Agricoltura a Milano a quella di piazza della Loggia a Brescia, se li mettiamo tutti in fila la storia d’Italia è un continuo succedersi di bombe e di attentati, e di ruolo di alte cariche e perfino presidenti della Repubblica. Stranamente negli ultimi 20-25 anni le stragi cessano, dopo la famosa trattativa, come se tanti anni di bombe avessero provocato dei crateri melmosi dentro i quali affondare e controllare il paese. Attenzione, però, perché l’intellettuale che crede di salvarsi con la non partecipazione rischia di affondare in questa stessa melma.

Perché la mancanza di partecipazione è contagiosa. Se ci sono intellettuali che partecipano, dibattono, polemizzano, si mantiene viva la ricerca delle soluzioni ai problemi. Se gli intellettuali smettono di partecipare, tutto torna nella nebbia e nel silenzio.



 Se ci fosse un Pasolini, oggi magari il Corriere accanto al suo articolo ne pubblicherebbe un altro per smussarne le punte, ma comunque Pasolini lo pubblicherebbe. Ma oggi non c’è un Pasolini, uno Sciascia, neppure un Moravia, che in più momenti è stato lucidissimo e bravissimo sui problemi italiani. Quando manca questo sprone continuo, anche l’intellettuale che si impegna finisce per trovarsi isolato, ha la sensazione che il suo diventi solo uno sfogo di malumore, perché manca il confronto, chi ti controbatte, magari, ma senza eludere i problemi.

La cattiva salute dell’Italia è data oggi anche da questa sorta di melassa dentro la quale tutti ci rotoliamo e dall’omologazione che ne consegue.


 Un giovane intellettuale che comincia a emergere oggi, non emerge perché rappresenta una voce fuori dal coro ma proprio perché sa raccogliere meglio di tutti un desiderio dominante di non impegno, di non partecipazione. Per questo Antonio Tabucchi ci pareva una voce rara. Ma ai tempi di Sciascia e Pasolini, non era una voce rara. Poi è diventata una voce rara, Antonio, perché era ormai l’unico che dicesse le cose con chiarezza e anche con il necessario sdegno. Dopodiché, fine. In realtà gli intellettuali – non vorrei pronunciare parole per cui domani mi diranno «da dove arriva questo a farci lezioni?», ma lo devo dire, con molto dispiacere – gli intellettuali oggi non hanno coscienza neanche del loro tradimento.

Talvolta si concedono un impegno blando, pro forma, sempre tenendosi sulle generali, ma è come fare l’elemosina. Mentre ci sarebbe bisogno che gli intellettuali avessero oggi il coraggio di impegnarsi in prima persona, parlando chiaro, facendo j’accuse concreti, rispondendo solo alle proprie idee, poi se il partito x pensa y non me ne frega niente e se anche il salotto x e il giornale y, io vado avanti comunque…

Non so perché gli intellettuali non lo facciamo, se non in pochi. Cos’hanno da perdere? Eppure molti pensano di essere impegnati, di essere coraggiosissimi. Ma si limitano ai valori generali, e dunque non colpiscono nessuno. Mentre se vuoi lottare contro la mafia devi schierarti con quelli che la mafia la combattono davvero.

Perché mi sono schierato con Caselli, Ingroia, Scarpinato e con tanti altri magistrati che lavorano per sconfiggere la mafia? Ma perché se io voglio essere contro la mafia, quei magistrati ho il dovere di considerarli un prolungamento di questa mia scelta, un braccio mio (e di tutti i cittadini che pensano che con la mafia non si debba convivere), e dunque non posso rinnegare il mio braccio, devo difenderlo.


 Ecco perché ho difeso Ingroia nelle recenti polemiche e non esiterò se qualcun altro si troverà nella stessa posizione. A restare sul generico siamo tutti bravi. Ma l’impegno si dimostra andando nel concreto. Sei contro la disoccupazione, per la difesa dei posti di lavoro? Ma chi è che questa lotta la fa davvero? Landini e la Fiom. E allora devi stare con la Fiom e con Landini, non è che rimani nel generico. 

Ma è proprio questo passo, quello della coerenza e della concretezza, che ripugna a molti intellettuali. O li spaventa.


                                                             Andrea Camilleri



Fonte: MicroMega 6/2013 numero dedicato al tema <<L'Intellettuale e L'Impegno>>.

martedì 5 novembre 2013




Che cosa significa “rappresentanza” in Kant? E come tutto ciò si collega alla distinzione fra forme di Stato e forme di governo? Ne parla Giuseppe Duso, nel suo recente Idea di libertà e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, (Polimetrica, 2012), di cui pubblichiamo, per sua gentile concessione, un estratto.




Idea di liberta e costituzione repubblicana nella filosofia politica di KantBisogna allora mettere a fuoco ciò che Kant intende per quella rappresentanza che costituisce il nucleo centrale dei principi repubblicani: solo così si eviterà di fraintendere il pensiero kantiano e si potrà comprendere il suo contributo specifico all’interno della storia dei concetti politici moderni, contributo che consiste in una problematizzazione filosofica. In tal modo sarà possibile anche intendere il significato che viene a prendere il termine direspublica. Certo questo non è assimilabile all’uso pre-moderno, che indica ciò che accomuna una pluralità di parti politiche, come evidenzia una copiosa iconografia, in cui la repubblica è raffigurata mediante un corpo femminile le cui diverse membra alludono alle parti della società, principe, senato, milizie ecc.. Neppure il termine si risolve totalmente nel quadro della moderna sovranità, segnato dal dualismo radicale di pubblico – come politico – e privato, in cui l’unica comunanza sta nell’aver riconosciuta la sfera del proprio arbitrio e del proprio interesse dal potere unico. Infine il termine non può essere inteso secondo l’assetto delle moderne costituzioni, nelle quali vi è separazione dei poteri e un principio rappresentativo che si basa sull’autorizzazione che i cittadini esprimono mediante il voto. Nel significato del termine repubblicanoriemerge in Kant una nuova comunanza, non riducibile alla sudditanza e alla difesa della propria sfera privata, una nuova appartenenza, al di là dell’unità realizzata dal potere: è l’appartenenza alla sfera pubblica della ragione, che determina per i cittadini un ambito di partecipazione diverso e ulteriore nei confronti di quello del voto[1].
Nella costruzione hobbesiana il rapporto di rappresentanza è totalmente risolto nella forma a cui dà luogo il processo di autorizzazione: il fatto che la volontà del soggetto collettivo non possa essere espressa se non da colui che lo impersona, che lo rappresenta, significa che la volontà espressa dal rappresentante è immediatamente la volontà del popolo. Non c’è nessuna eccedenza della volontà dell’essere collettivo nei confronti della sua espressione empirica attraverso il rappresentante sovrano. In tal modo la funzione rappresentativa si risolve nell’espressione di una volontà arbitraria, che non ha nessun punto di riferimento e nessun obbligo fuori di sé. Così non è in Kant. Il fatto che il vereinigter Wille des Volkes, in quanto grandezza ideale, debba passare attraverso la mediazione rappresentativa, non significa che si identifichi con l’espressione empirica della volontà comune da parte del rappresentante (chiunque esso sia, a seconda della forma dello stato: il monarca, i pochi o tutto il popolo). Non abbiamo qui un meccanismo procedurale legittimante, sia pure ideale, quello proprio della figura del contratto sociale, che, partendo dalla volontà dei singoli, autorizzi l’espressione della volontà comune da parte del rappresentante. “Autorizzare” significherebbe che ognuno non può che ritenere come propria la volontà del rappresentante in ragione del processo di autorizzazione, senza cioè poter giudicare di volta in volta i contenuti della rappresentazione, cioè i contenuti del comando espresso dalla persona legittimata a ciò. In Kant è invece necessario che colui che dà la legge guardi alla ragione e alle sue leggi, che non dipendono da un semplice gioco degli arbitri.
Un tal modo di intendere il principio rappresentativo emerge già nel momento in cui si identifica in esso l’elemento che caratterizza la costituzione repubblicana, che – Kant si preoccupa di precisare – non deve essere scambiata con quella democratica, dal momento che è piuttosto a quest’ultima opposta. Se si intende bene in che cosa consiste questa contrapposizione e dunque il carattere specifico che Kant ravvisa nella democrazia, si potrà capire come la rappresentanza non possa essere ridotta alle procedure costituzionali della democrazia contemporanea, e dunque come la riflessione kantiana sulla rappresentanza non si esaurisca nell’affermazione della democrazia rappresentativa come modello costituzionale. In Sulla pace perpetua il principio rappresentativo viene introdotto in seguito alla distinzione tra leforme di Stato e la forma o il modo del governo.
Questo è un punto che porta con sé una serie di difficoltà e che bisogna cercare di chiarire. Il problema è molto complesso. Infatti Kant distingue le forme di Stato in relazione alle persone (Personen) che detengono il sommo potere statale (oberste Staatsgewalt). In tal modo egli riprende la distinzione tradizionale delle cosiddette forme di governo. Tuttavia tale ripresa è nell’ottica della moderna sovranità che in realtà, in base al concetto dell’uguaglianza degli uomini, esclude che tra di essi possa razionalmente esistere una relazione basata sulla diversità, come quella esistente tra chi governa e chi è governato. Conseguentemente non essendo più pensabile il governo, nel senso antico del termine, viene a perdere di significato la stessa distinzione tra quelle che sono, in senso proprio, forme di governo[2]. Ora Kant, riferendosi a queste forme di Stato o dell’imperium, pensa di indicare le persone che sono depositarie della sovranità e che possono dunque esprimere il proprio comando come comando del corpo collettivo. Ma nella formalità di questa logica il contenuto del comando dipende unicamente dall’arbitrio dei detentori del potere, dell’imperium o della Herrschaft, di colui o di coloro che si trovano nella situazione di essere Herren, detentori appunto del comando, dell’autorità, del potere.
Non è a questo livello, delle forme di Stato, che Kant parla del principio rappresentativo. La rappresentanza emerge piuttosto nell’ambito della forma di governo (forma regiminis), del modo cioè secondo il quale coloro che detengono il potere nella sua pienezza (Machtvollkommenheit) ne fanno uso. È questa la cosa di maggior rilievo, la modalità dell’esercizio del potere, che può avere due soluzioni: o quella repubblicana, o quella dispotica. Ora la differenza tra dispotismo e repubblicanesimo è tutta giocata sulla distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Questa distinzione si riferisce alla modalità dell’uso del potere, che può essere esercitato o come fosse cosa propria, secondo il proprio arbitrio – e allora si ha dispotismo – oppure in modo rappresentativo, cioè riferendosi a regole razionali che indicano la via della legge e che escludono che sia la propria volontà a divenire legge[3].
La distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo non mi pare possa essere identificata con quello che si intende nel momento in cui, in età contemporanea, si parla di divisione dei poteri. Nel contesto kantiano non si tratta di individuare gruppi di persone o corpi dello Stato che, con forme diverse di autorizzazione, esplichino il proprio potere in forma indipendente e tale da poter controllare gli altri poteri. Non è a questo meccanismo costituzionale che Kant allude[4]. Infatti nel testo a cui ci stiamo riferendo si vede come la distinzione del potere legislativo da quello esecutivo si tramuti nell’affermazione del principio rappresentativo: il sistema del governo, se vuole essere repubblicano, e dunque conforme al diritto, non può che essere rappresentativo. Ciò che in questo contesto viene chiamato rappresentativo(ZeF 352-353, M 184-185, G 172-173) o sistema rappresentativo (das repräsentative System) non è legato alla necessità costituzionale che qualcuno eserciti di fatto il potere per tutto il corpo politico, ma piuttosto che l’agire di costui non dipenda dal proprio arbitrio, bensì dalla ragione e dalle sue leggi[5]. Allora la separazione tra esecutivo e legislativo appare consistere in questo: che il detentore del potere (che è colui che di fatto fa le leggi) non si limiti ad esprimere la sua propria volontà, ma piuttosto si riferisca alla volontà legislatrice del popolo.
Allora si può comprendere come, delle tre forme di Stato, quella democratica sia necessariamente dispotica, in quanto si basa sulla assolutizzazione della volontà di tutti: infatti essa stabilisce “un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno, ed eventualmente anche contro uno (che non è d’accordo con loro, e dunque tutti deliberano anche se non sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà”[6]. Naturalmente qui non si tratta semplicemente del potere esecutivo, in quanto la democrazia è una forma di Stato, che implica che il popolo sia legislatore, come appare chiaro nella Rechtslehre, dove vengono distinte le diverse forme in cui si può incarnare il potere sovrano e in cui questo potere si rapporta con il popolo[7]. Il potere sovrano dello Stato (che Kant chiama Beherrschung, Herrschaft, o Souveränität), può avere come depositario o una sola persona, e allora si ha autocrazia, o alcune persone, e allora si ha aristocrazia, o la totalità del popolo, e allora si ha democrazia. In quanto queste tre forme incarnano il potere sovrano, e quest’ultimo si esprime nella formazione della legge, le tre forme imperii costituiscono tre maniere di intendere il potere legislativo e dunque il modo di esprimersi della volontà comune o del comando che costituisce la legge[8]. Conseguentemente le tre forme di Stato implicano anche che i detentori del potere siano coloro che esprimono l’aspetto più alto del potere, quello di fare la legge, riunendo in sé potere legislativo e potere esecutivo. Ciò è da tenere presente, perché quando Kant si riferisce alla forma regiminis, cioè di governo, non si riferisce alle forme diverse che può avere l’esecutivo, ma al modo di esercitare il potere, che può essere o dispotico o repubblicano e cioè rappresentativo.
La critica della democrazia, che qui è intesa come democrazia diretta, non dipende tanto da una mancata distinzione di carattere empirico e fattuale tra potere legislativo e potere esecutivo: in questo caso basterebbe che il popolo legislatore affidasse ad un esecutore, al principe, l’esecuzione delle leggi, alla maniera di Rousseau. Il problema consiste piuttosto nel fatto che, se il popolo è inteso come soggetto empiricamente presente, tende ad esercitare il potere a proprio arbitrio, essendo il soggetto collettivo e non secondo le leggi della ragione: non ha nessun punto di riferimento ideale al di fuori del suo arbitrio eil suo arbitrio viene scambiato per volontà generale. È allora escluso ilprincipio rappresentativo, in quanto ognuno (e tutti insieme) vuole essere sovrano (Herr sein will)[9]. La democrazia, in quanto dispotismo, è caratterizzata dalla mancanza del principio rappresentativo, risultando, in tal modo, priva di forma (Unform). Qui non viene detto che la democrazia corre il rischio di essere dispotica, ma piuttosto che in quanto tale è dispotica: incarna il dispotismo nella forma più pura, si potrebbe dire, in relazione alle altre forme. In quanto il popolo, inteso come reale soggetto della politica trova in sé una volontà che è assoluta, che da niente può essere vincolata.
Il senso della critica alla democrazia e il vero significato del principio rappresentativo possono essere compresi se ci si chiede in quale senso il principio rappresentativo sia principio di forma e perché le tipologie non democratiche (intendendo in questo caso la democrazia come democrazia diretta) non siano, in senso pieno, rappresentative. L’affermazione kantiana che ogni forma di governo che non sia rappresentativa (e dunque il dispotismo, in cui si riassume un uso del potere non  repubblicano, in quanto non ispirato al principio rappresentativo o – e ciò sembra essere la stessa cosa – alla distinzione tra legislativo ed esecutivo) è priva di forma potrebbe suggerire una riflessione basata sul principio rappresentativo quale è nato con Hobbes ed è venuto a caratterizzare lo Stato moderno: solo attraverso il rappresentante la volontà generale può prendere forma e dunque presentarsi in modo determinato[10]. Ma non è tale il senso dell’affermazione kantiana. La forma richiede che colui che detiene il potere non possa esprimersi in modo arbitrario, ma si debba rivolgere alla razionalità della volontà generale e a quell’idea del popolo legislatore che eccede colui che di fatto deve esprimerla, rappresentarla. Se la volontà generale fosse immediatamente quella che il detentore del potere rappresenta, ci sarebbe arbitrio, mancanza di razionalità e di forma. Ritroviamo in tal modo quella sfera della ragione, come superiore alla emanazione della legge, che si è presentata nel Gemeinspruch attraverso la libertà di penna.
Per comprendere cosa Kant intenda per rappresentanza è necessario capire il vero senso della critica alla democrazia e il perché non siano considerate rappresentative monarchia e aristocrazia, cioè l’esercizio del potere pubblico da parte di uno o di pochi. Chiediamoci innanzitutto come mai, se il dovere del legislatore è quello di riferirsi all’idea del contratto originario e dunque al principio di fare le leggi come se (als ob) tutto il popolo le facesse, Kant rifiuti la possibilità che sia tutto il popolo, insieme riunito e concorde[11], a poter legittimamente decidere e ad esercitare il sommo potere. Può sembrare paradossale che si ravvisi nella volontà del popolo il vero sovrano e si rifiuti nello stesso tempo l’idea democratica dell’esercizio del potere da parte del popolo. La ragione non consiste tanto, in questo caso, nella difficoltà di pensare il popolo, nell’accezione dell’insieme di tutti, come empiricamente presente, quanto piuttosto nel fatto che ci si troverebbe di fronte ad un soggetto che può intendere il suo arbitrio – qualunque esso sia – come volontà generale, solamente per il fatto che è costituito dalla totalità dei cittadini. In tal modo andrebbe persa l’eccedenza ideale e razionale della volontà comune nei confronti di chi esercita il potere e si trova ad esprimere la volontà del soggetto collettivo. Si avrebbe identità di potere legislativo e potere esecutivo, nel senso in cui ne parla Kant. Perciò il pensiero del popolo come soggetto empiricamente presente offrirebbe una modalità immanente di legittimazione che perde quel necessario rapporto con la ragione che è principio di forma e che caratterizza un governo repubblicano. Il popolo cioè, in quanto soggetto collettivo,  costituirebbe una fondamento immanente della politica, autosufficiente e perciò assoluto, negando proprio quella eccedenza dell’idea che vedremo essenziale per il pensiero kantiano della prassi.


                                                                                      GIUSEPPE DUSO










NOTE
[1] Sulla funzione regolativa del senso comune al di là della sua riduzione al piano empirico dell’accordo delle opinioni, cfr. F. Menegoni, L’a-priori del senso comune in Kant dal regno dei fini alla comunità degli uomini, “Verifiche 19 (1990), pp. 13-50; per il significato politico del senso comune e del giudizio è da tenere presente la nota proposta di H. Arendt, specialmente inThe Life of the Mind, Chicago 1958, tr. it., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.
[2] È da notare che, quando ci si riferisce alla distinzione tra le forme di governo che troviamo nei Greci e in tutto lo sviluppo del pensiero politico fino a Hobbes, senza avere consapevolezza della distinzione tra l’antico principio del governo e il moderno concetto del potere, si interpretano le forme di governo come indicanti il numero diverso delle persone che possiedono il potere supremo, la possibilità della decisione sovrana: in questo modo si intendono tali forme alla luce di quel concetto di sovranità che nasce invece proprio nel tentativo di negazione del fatto che ci sia tra gli uomini chi governa e chi è governato. Quando i termini di monarchiaaristocrazia edemocrazia emergono nel quadro della sovranità, essi non possono venire a indicare altro che diverse forme rappresentative di esercizio del potere sovrano. Le affermazioni qui fatte si possono comprendere nella loro motivazione solo grazie alla radicale distinzione tra governo e potere, per la quale rimando ai miei lavori: La logica del potere, cap. III, La rappresentanza politica, sp. pp. 69-92, e Il potere e la nascita dei concetti politici moderni, ora in S. Chignola e G. Duso, Storia dei concetti e filosofia politica,Franco Angeli 2008, cap. V.
[3] ZeF 352 (M 183, G 172). I problemi relativi alla terminologia kantiana sono sempre assai ardui, anche perché i termini non sempre sono usati in senso rigoroso nel significato che Kant puntigliosamente determina. I problemi aumentano poi nelle traduzioni, in cui si ha spesso un uso poco oculato dei termini, che rende difficile o fa deviare la comprensione concettuale. In M 183 si ha il riferimento alle “tre forme di governo”, mentre in realtà il testo tedesco parla coerentemente delle tre Staatsformen. Infatti Kant aveva appena distinto le forme della Beherrschung o imperii, dal modo del governo (der Regierung oregiminis), ed ora vuole giudicare come le tre forme in cui si esprime la sovranità dello Stato si rapportano, o si possono rapportare, al modo di governo. Se entra nel ragionamento la possibilità che ci siano forme di governo diverse, autocratica, aristocratica e democratica non si riesce più ad intendere il testo che parla di due modalità dell’uso di governo, quella dispotica e quella rappresentativa o repubblicana. Da ciò si può intendere che tale distinzione non è traducibile in termini formali e costituzionali, ma coinvolge piuttosto il problema del concreto agire politico.
[4] Cfr. il saggio di Rametta citato alla nota 25.
[5] Si tenga ben presente ciò quando si leggerà (si veda l’ultimo paragrafo del presente lavoro), nel § 52 della Rechtslehre, che “la vera repubblica non può essere altro che un sistema rappresentativo del popolo”.
[6] ZeF 352 (M. 183, G 172).
[7] Cfr. RL § 51, p.338 (tr. it. 173), dove è chiaramente affermato che autocrazia, aristocrazia e democrazia di distinguono tra loro a seconda di chi è il legislatore.
[8] Per questa distinzione e per la terminologia usata da Kant, oltre al passo cit. di ZeF, e al § 51 della RL, anche i §§ 45 e 49.
[9] ZeF 353, M 184, G 172.
[10] Da questo punto di vista Schmitt afferma il carattere formante della rappresentazione, che è l’elemento di forma nella forma politica, in quanto non c’è costituzione senza l’elemento rappresentativo (cfr. G. Duso,Rappresentanza e unità politica nel dibattito degli anni Venti: Schmitt e Leibholz, in La rappresentanza politica cit., pp. 145-173).
[11] “Soltanto dunque la volontà concorde e collettiva di tutti (der übereinstimmende und vereinigte Wille Aller), in quanto ognuno decide la stessa cosa per tutti e tutti la decidono per ognuno, epperò soltanto la volontà generale collettiva del popolo può essere legislatrice” (RL § 46, 313-314; tr it. 143). Sulla rilevanza dell’als ob insiste anche V. Fiorillo, La concezione politica del Zumenigen Frieden, in La filosofia politica di Kant cit. pp. 45-50.









Giuseppe Duso è stato Professore ordinario di Filosofia politica all’Università degli Studi di Padova. Ha recentemente pubblicato  Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna (ed.), Roma 1999, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma 1999, La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con Gaetano Rametta), Milano 2000, La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Milano 2003.








Fonte: MicroMega Il Rasoio di Occam - Filosofia

domenica 3 novembre 2013

Socrate nostro Patrono







“Il filosofo moderno è spesso un funzionario,
 sempre uno scrittore, e la libertà che gli è
 concessa nei suoi libri ammette una controparte:
 quello che scrive entra fin dall’inizio in un
 universo accademico dove le opzioni di vita sono
 indebolite e le occasioni di pensiero velate [...]
 Ora, la filosofia deposta nei libri ha cessato di
 interrogare gli uomini. Ciò che in essa vi è di
 insolito e di quasi insopportabile si è nascosto
 nella vita decorosa dei grandi sistemi. Per
 ritrovare l’intera funzione del filosofo bisogna
 ricordare che sia i filosofi-autori che leggiamo, sia
 noi stessi in quanto filosofi, non abbiamo mai
 smesso di riconoscere come patrono un uomo che
 non scriveva, che non insegnava, quanto meno
 da una cattedra di stato, che si rivolgeva a coloro che
 incontrava per strada e che ha avuto delle difficoltà
con l’opinione pubblica e con i poteri statali.
 Bisogna ricordarsi di Socrate“

                                            (Merleau-Ponty, Elogio della filosofia)