venerdì 21 settembre 2012

Non solo Austerità per far ripartire il motore spento di una vecchia Economia




di Gabriele Pastrello e Joseph Halevi 



C’è una genia che prospera su tutto lo spettro politico, italiano e mondiale: i lungoperiodisti. 
L’atteggiamento di chi posa a pensatore del futuro, disdegnando le misure raffazzonate o gli interventi di breve periodo.
 I lungoperiodisti di destra aborriscono l’inflazione e vogliono una crescita finanziariamente sana; quelli di sinistra sono preoccupati per gli sconvolgimenti causati dalla crescita incontrollata passata.
 I secondi hanno ragioni migliori dei primi, ma entrambi paiono ignorare che siamo in un periodo di crisi economica che sta già creando recessione e miseria, come sanno bene gli ammalati gravi greci che non possono più curarsi. 
I primi però non lo ignorano affatto, anzi. Hanno deciso che la crisi economica è un’occasione d’oro per una terapia di immiserimento di ampi strati di popolazione come la cura migliore. Per questo sono acerrimi nemici di Keynes.

Keynes apprezzava quel passaggio di John Stuart Mill, economista e riformatore liberale nell’Inghilterra dell”800, secondo cui non è desiderabile un mondo che assoggettasse tutti gli spazi alla produzione, facendo scomparire quei luoghi appartati di natura incontaminata, che soli permettono solitudine e bellezza. 
Keynes vi pensava quando auspicava una crescita zero, ritenendo che la dotazione di mezzi di produzione fosse, già allora, sufficiente a garantire una vita decente per tutti. Ma si preoccupava che questa potenziale abbondanza non fosse funestata dalla miseria della disoccupazione.
 Doveva lottare contro i lungoperiodisti dell’epoca che si preoccupavano, anche loro, dell’inflazione futura e non della miseria presente. Mentre Keynes, contro i Monti d’allora, si ingegnava di far ripartire il motore d’avviamento di una macchina ferma, non di aggiustarne la carrozzeria. Si trattava e si tratta di un’emergenza da affrontare con mezzi di emergenza, poi il futuro. E in questo caso il primo tempo è l’opposto dell’austerità.

La nostra situazione ha alcuni importanti punti di contatto con quella di Keynes.
 La crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 è l’unica che, per globalità sistemica, può essere paragonata a quella del 1929.
 Ma allora se ne uscì, quantomeno negli Usa di Roosevelt e del Wagner Act, sostenendo la domanda con la spesa pubblica e con un aumento del potere contrattuale dei lavoratori. 
Stavolta, invece, dopo aver frenato con stimoli limitati – solo Usa e Cina – una caduta di reddito e occupazione più rapida di quella post-29, la strategia lungoperiodista di destra vorrebbe cancellare sia lo stato sociale che i diritti dei lavoratori.
 I lungoperiodisti di sinistra si preoccupano che la crescita prema sulle risorse naturali mondiali. Anche la destra condivide questa preoccupazione. Infatti, ha già deciso che debbano «crescere» oggi solo Sudamerica e Asia, poi l’Africa; e «decrescere» i paesi di più antica industrializzazione, o meglio, le condizioni di vita in quei paesi.
 Il risultato non potrà essere la «decrescita felice» dei lungoperiodisti di sinistra, ma l’immiserimento, perché il processo è strettamente in mano alla destra. Se si vuole strapparle il controllo, bisogna allearsi con grandi masse cui non si può offrire la miseria, bensì quantomeno il mantenimento – anche se rivisitato e depurato da sprechi – del benessere raggiunto.

Ha sicuramente senso pensare a un mondo futuro non più ossessionato dall’accumulazione.
 Ma ciò non autorizza il disprezzo verso epoche passate, la cui crescita ci permette di poter pensare a un futuro diverso. 
Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, diceva: «io sono un figlio delle politiche rooseveltiane, solo grazie a quelle sono qui». Bisognerebbe ricordare, inoltre, che solo il trentennio d’oro – e le lotte sociali del periodo – insieme trasformarono un’Italia povera in un paese con un benessere diffuso. Grazie a questo anche chi non era figlio, o nipote, di magnanimi e prosperi lombi ha potuto accedere a possibilità prima precluse: vita quotidiana decente, istruzione, e poi magari pubblicistica, ecc. 
Combattere il capitalismo è un conto, ma disprezzare l’unico periodo – quello keynesiano – in cui fu costretto a dividere maggiormente i frutti con i lavoratori, è insensato. 
Il futuro è certo nero; ma ciò non autorizza a sputare su un passato grazie a cui possiamo ancora quantomeno sopravvivere. E questo vale non solo per Renzi.

Fonte: Il Manifesto

venerdì 14 settembre 2012

Un Monumento a Rodolfo Graziani: "Macellaio d'Etiopia? NO Grazie! Per Favore Non Sforbiciate la Memoria Storica.




La notizia dell’inaugurazione ad Affile (Roma) del monumento dedicato al maresciallo Rodolfo Graziani, (nato l’11 agosto 1882 a Filettino e morto l’11 gennaio 1955 a Roma),  conosciuto come "macellaio" d'Etiopia per i crimini di cui si macchiò durante le guerre coloniali, è stata una notizia apparsa in tono quasi minore sulla stampa nazionale, è stata invece dilatata dalla stampa internazionale, in una eco rilanciata con intermittenza. 
La stampa italiana ha relegato la notizia ai margini, soffermandosi più sullo spreco di fondi pubblici che non sulla portata politico-culturale di questa iniziativa. 

Siamo il paese della memoria corta, è vero, nel quale l’apologia di un criminale come Graziani, si trasforma all'occorenza in memoria malata o persecutoria, a seconda dei punti di vista; in memoria ideologica che qualche ideologo a buon mercato, mai troppo isolato tenta di alleggerire dalla sostanza. 


La notizia comunque resta un dato scandaloso, per ragioni storiche Chiare e Precise; lo è alla stessa stregua la notizia che nella società italiana è del tutto assente una dimensione per così dire postcoloniale della nostra storia fascista. 


Resta così il dato raccapricciante di  un monumento dedicato al maresciallo Rodolfo Graziani: un discutibile "eroe" che molti riconoscono non essere stato tale. 

ma per non confondere la storia e i dati della memoria offesa è bene “risvegliare“ quelle ragioni storiche profondissime che offendono e inquietano. 
Graziani dopo una carriera militare costruita quasi interamente nelle guerre coloniali d’Italia, dove si macchiò di gravissimi crimini, al punto di guadagnarsi il titolo di “macellaio” d’Etiopia, finì la sua “carriera” come ministro della Difesa della Repubblica sociale italiana, rendendosi responsabile della condanna a morte di renitenti alla leva e partigiani, crimini per i quali venne condannato nel 1948 a 19 anni di carcere (17 dei quali gli furono poi condonati).

Non stupisce dunque lo sdegno, misto a incredulità, che hanno suscitato i pezzi apparsi sulle testate del  The New York Times, El Paìs e BBC, i quali hanno condannato un’operazione dal sapore revisionista con l’intento di riabilitare la memoria di uno dei personaggi più sanguinari del trascorso regime fascista e del colonialismo italiano.
Stupisce e preoccupa però lo scarso interesse con il quale si è colorata la vicenda. La stampa nazionale, ha relegato la notizia a una posizione marginale, soffermandosi più sul possibile sperpero di fondi pubblici in tempi di crisi economica per un manufatto che sarebbe costato 160 mila euro, piuttosto che interrogarsi seriamente sull’ineludibile portata politico-culturale di una simile iniziativa: un certo ottundimento dunque della società italiana che sembra fare da contraltare al clamore suscitato sulla scena internazionale e confermare quel rapporto controverso con il nostro passato coloniale con il quale non possiamo ancora essere in pace.
Se infatti Graziani venne condannato per i crimini perpetrati contro i partigiani italiani, fu in colonia che commise una sequela infinita di atrocità contro patrioti libici ed etiopici in particolare. In Libia Graziani portò a termine la “pacificazione” della colonia nel 1931 al prezzo di massacri, torture, fucilazioni e l’impiego di armi chimiche, oltre alla deportazione di 100 mila civili dalla Cirenaica ai campi di concentramento costruiti nella regione desertica della Sirte da dove molti non fecero mai ritorno. 

Al tempo si parlò di sterminio, poi c’è chi ha utilizzato il termine genocidio. Trasferitosi nel Corno d’Africa ai tempi della seconda guerra italo-etiopica che culminò con proclamazione dell’Impero fascista e la costituzione dell’Africa orientale italiana nel 1936, Graziani pianificò l’utilizzo estensivo di armi chimiche proibite, come le bombe all’iprite, sganciate dal cielo contro i patrioti etiopici e, una volta divenuto secondo viceré d’Etiopia, lasciò che, a seguito del fallito attentato contro la sua persona il 19 febbraio 1937, i fascisti per tre giorni si lasciassero andare a una violenza collettiva senza freni: furono colpiti mortalmente i giovani patrioti dei Leoni neri, l’elite istruita della società etiopica e il suo clero nel vano tentativo di azzerare la resistenza al dominio italiano. 
Non a caso fu il governo etiopico, dopo la liberazione nel 1941, a inserire il nome di Graziani nella lista dei dieci criminali di guerra italiani indirizzata alla War Crimes Commssion delle Nazioni Unite, senza però ottenerne mai l’estradizione e l’incriminazione.

 La nuova Italia repubblicana processava così Graziani per i crimini contro la resistenza italiana, ma poteva evitare di fare i conti con i crimini commessi in colonia non tanto o non solo dal fascismo, ma dall’Italia colonialista nel suo complesso?
La persona alla quale la giunta di centro-destra del comune laziale rende omaggio, presentandola sul proprio sito web come uno dei «personaggi illustri di Affile», luogo nel quale Graziani trascorse la prima infanzia e gli ultimi anni di vita, restano un'ignominia che ignora e  disonora la vertità.

Se si prova ad accostarsi alla nota biografica online curata per l'occasione da Giovanni Sozi, si commette un vero tradimento della memoria che strumentalmente dipinge Graziani come colui che, «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose, seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la patria attraverso l'inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».

Tradire la memoria equivale al tradimento della storia, soprattutto quando quella storia è manipolata sia pure con fini agiografici.

Resta la grande amarezza per decenni di ricerca storica sul fascismo e sul colonialismo italiano, che tanto hanno prodotto  per "scalfire" il mito degli “italiani brava gente” luogo comune delle false verità.

Intorno alla pagina africana della nostra storia nazionale permangono come cristallizzate memorie rimosse, latenti e ancora oggi diversificate a vari strati che conservano una inspiegabile resistenza alla verità.
 In effetti anche chi in questi giorni si è giustamente levato contro questa operazione istituzionale di revisionismo storico aveva spesso in mente la guerra partigiana piuttosto che quelle coloniali.
A una mancata decolonizzazione delle memorie hanno contribuito rimozioni istituzionali e silenzi autorevoli se si considera che fino a tutti gli anni Settanta continuarono ad insegnare nell’Accademia italiana docenti di storia coloniale formatisi sotto il dominio fascista o i loro allievi. 

Eppure ancora oggi che le ricerche storiche hanno ormai indagato senza compiacimenti e compromissioni quel sistema di sfruttamento, razzismo e violenza che fu il colonialismo italiano, proprio i risultati di quelle ricerche non si sono riverberati nella società italiana.
L’apologia del criminale Graziani è solo l’ennesimo indice di un quadro più complesso nel quale si inscrive anche la partecipazione dell’Italia all’intervento militare internazionale contro il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, proprio in quel Paese dove l’Italia e Graziani commisero alcuni dei loro crimini peggiori e per di più nel centenario della prima guerra di Libia quella che, dopo aver impegnato il Regno d’Italia contro l’allora Impero ottomano tra il 1911 e il 1912, continuò contro la resistenza libica fino al 1931, divenendo la più lunga guerra della nostra storia unitaria.

 Se siamo tornati senza complessi a bombardare l’ex colonia, ridotta per “ragioni umanitarie” a un Iraq qualunque, non ci si può stupire che quel che è accaduto ad Affile è stato generato anche dalla mancanza nella società italiana di una dimensione postcoloniale della nostra storia, nella quale non si "ritaglia" tanto il periodo temporale successivo alla fine del dominio diretto in Africa, ma piuttosto la capacità di (Ri)Elaborare il presente alla luce di quel passato.


martedì 11 settembre 2012

Parola di Zygmunt Bauman: E' LIQUIDA


 di Massimo Di Forti


«La ragione di questa crisi, che


 da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere».
 Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della "Vita liquida" e della "Modernità liquida" (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquidaLa società sotto assedioModernità liquidaDentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?
«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…
«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?
«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?
«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza».



Fonte: il Messaggero

sabato 8 settembre 2012

Per Educazione NON SOLO PER Educazione


Come affrontare il tema dell'educazione nella società contemporanea? 

Un approccio sistematico e accademico può risultare quantomeno discutibile nell'epoca del sapere frammentato, del web e di Wikipedia.

Durante l'atteso e apprezzato appuntamento festivaLetteratura di Mantova 2012 è intervenuto Zygmunt Bauman che ha raccontato il senso di disorientamento provato quando, alla ricerca di una definizione dell'espressione "cultura europea" su Google, si è imbattuto in 947 milioni di risultati.

 A volte risulta comodo "appoggiarsi" alla potenza di calcolo di un server, che può ricordare per noi centinaia di migliaia di informazioni, ma d'altro canto non siamo mai certi della veridicità del materiale che ci troviamo davanti.  Si è calcolato, ad esempio, che nell'edizione domenicale del "New York Times" siano contenute più informazioni di quante un illuminato accademico del Settecento potesse immagazzinarne in una vita intera.

In questo contesto, come scegliere cosa memorizzare e cosa no?


 Diverse teorie sostengono che l'educazione non debba essere qualcosa di invasivo, che non debba condurre ad un atteggiamento pedante nei confronti del sapere; piuttosto dovrebbe presentarsi come una tappa della nostra formazione capace di dotarci di una forma mentis, lasciandoci poi autonomi di fronte all'immensità della cultura umana.

 Non si deve quindi inculcare un contenuto già pronto e impacchettato, si deve insegnare ad imparare.
Una metafora avvicina l'educazione alla scultura, che plasma la materia informe. Lima, corregge, ma che non aggiunge nulla. Semmai toglie. 


Un individuo correttamente istruito deve poter riuscire in un'opera di selezione e scomposizione del sapere.


Di certo la selezione non è cosa facile di fronte alla mole di informazioni che ci investe di questi tempi. Allora un altro meccanismo che dobbiamo fare nostro è quello della decostruzione.


 Schemi cognitivi devono poter essere dimenticati e rimpiazzati da altri più moderni. Dobbiamo cercare di essere flessibili, quasi come un supporto di memoria digitale.
Fare una periodica pulizia dell'hard disk, e un aggiornamente del software, per intendersi, può essere una buona abitudine.

 Per tornare al carattere dell'educazione, questa deve somigliare ad una carezza fatta alla nostra anima.
Non deve essere invadente, o imporre qualcosa (Luigina Mortari ricorda "le tre i" dell'ultima riforma dell'istruzione). Ma purtroppo l'educazione è strettamente legata alle strutture politiche e sociali di un popolo. Noi, che , come scriveva Jean- Paul Sartre, da produttori, siamo diventati consumatori, abbiamo creato meccanismi come la concorrenza, che penetrano nel tessuto culturale delle nuove generazioni: cerchiamo costantemente di essere migliori degli altri, di superarli, senza concedere a nessuno la nostra lealtà.


 Trasposizioni pratiche di questa realtà sono fenomeni come il "Big Brother", reality che ha infestato praticamente tutti paesi civilizzati, e che abbracciano intere fette di popolazione, che vi si riconoscono. Tutto questo fa pensare che qualcosa va cambiato, non solo nei processi educativi, ma nelle strutture sociali stesse.