mercoledì 29 giugno 2011

Memorie di una Talpa con nel cuore il Pensiero di un Mondo Migliore

Ho una certa considerazione per la memorialistica, la considero  quando ben riuscita un espressione profonda dell'anima dove dal giusto calibro di volontà di esprimere se stessi e dall'efficacia di linguaggi narrativi si dilata la   caratterizzazione personale attraverso un gesto che libera lo scrittore dal senso stesso della propria vita, per assicurargli nell'istanza realistica lo straordinario valore collettivo di vita anche degli altri. 


Per queste ragioni nutro una considerazione rispettosa e tutte le volte la lettura del genere è svolta sgombera da pregiudizi di qualunque genere specie ideologici o politici.

In essi ravvedo sempre un tentativo non semplice di documentare e informare che può esaltare o deprimere, ma che in ogni caso tenta di rendere vibrante l'interesse ad esprimere sé stessi nella complessità del senso di quella vita. 


Il diario che la Castellina redige tra i quattordici e i diciotto anni ovvero dal 1943 al 1948 impressiona e  a tratti suscita lo stupore che nasce dalla profonda e quasi mistica ingenuità di intellettuale. 


 Giornalista scrittrice, e soprattutto militante politica poi  parlamentare comunista, Luciana Castellina è <<incarnazione neorelistica>>  moto spontaneo e forse involontario di una scrittura rapida veloce e essenziale, tendenza spontanea di una corrente forse più coerente che ha forma in un "romanzo esistenziale" di una donna vivace coraggiosa e protagonista di avvenimenti che hanno fatto la storia di un tempo storico complesso e concitato: avvenimenti susseguitisi con rapidità che segnano il passo di idee politiche prima confuse poi sempre più nitide svolte tra un'educazione scolastica fascista una familiare moderatamente antifascista e destinata inesorabilmente ad evolversi in consapevolezza e determinazione, forse proprio perchè figlia di quel tempo storico.

Negli anni cruciali per l’Italia post bellica, così di quelli  della sua crescita personale, la personalità  procace e straordinariamente umana prende il sopravvento e si dipana nella vividezza dei racconti personali, in memorie storiche intense e documentali.
Testimonianza di vita e pensiero, di personale e collettivo di individuo e storia.
Racconta se stessa con l'innocenza di chi voleva cambiare il mondo e in fondo ha concorso con grazia e slancio a colorarlo col fascino delle parole ed uno sguardo fluttuante di chi ha invece solo saputo combatterne abbrutimento ed egoismo.  
                                                                         Donna Bruzia

martedì 28 giugno 2011

Sull'Identità della Filosofia e Altre Forme del Sapere

Due i paesi nei quali l'insegnamento della Filosofia nelle scuole è tradizione culturale consolidata: la Francia e l' Italia; sebbene in quest'ultimo paese la disciplina insegnata è la Storia della Filosofia, che identifica la Filosofia con la sua Storia ovvero con lo straordinario patrimonio accumulato nella vasta tradizione culturale.


In Italia per impostazione siamo soliti far risalire a Giovanni Gentile filosofo neoidealista italiano questa metodologia didattica che in realtà è diventata una consolidata impostazione nello studio di questa disciplina, largamente applicata.


In Francia paese culturalmente tra i più avanzati o per lo meno con una proiezione storicamente progressista invece, si insegna quella che in altri paesi è chiamata filosofia teoretica o morale, che pratica cioè un diverso approccio conoscitivo che sviluppa discussioni su vasti problemi filosofici, anche attraverso le forme della "dissertazione" elaborate sotto forma di scritti  ed elaborazioni indispensabili per esporre punti di vista, convinzioni e teorie.


Il rigore nel voler garantire i Contenuti della disciplina Filosofica impongono però in entrambi i paesi un'organizzazione di testi e fonti filosofiche accreditate nelle rispettive comunità scientifiche così come si conviene alla trattazione dei problemi filosofici attraverso l'asse meramente filosofico.


 Consideriamo comunque la Storia della filosofia ciò che in molti riconoscono come "filastrocca delle opinioni" dei filosofi e che talvolta non risulta coincidente con la mera essenza dei concetti filosofici espressi, un territorio di intriganti suggestioni che  inducono molti a scegliere l'idea che l' <<enciclopedia>> del sapere filosofico sia più praticabile e fruibile ma che unitamente all'idea del mero filosofare  e dello sviluppo cronologico  favoriscano entrambe la messa a fuoco di rilevanze teoretiche e nodi concettuali filosofici che intrecciano sempre o nella maggior parte dei casi autori a dottrine e problemi. 


 Anche in Italia hanno suscitato interesse modi diversi talvolta innovativi di fare filosofia, provenienti anche da paesi in cui le tradizioni culturali affrontano complessità e ricchezza in modo pressoché diverso rispetto a quello del nostro retroterra culturale, tutte concorrono all'arricchimento della discussione come la mia personale idea in merito alla questione aperta 


 Resta un elemento da proporre come provocazione al tema: ovvero il diverso atteggiamento attivo di fronte alla filosofia, che in ogni caso induce a  percepire la sensazione che proporre lo studio della filosofia sia un'esperienza utile e importante, che promuove in chi la pratica, per gli stessi contenuti che sviluppa, un'attitudine alla critica fondata e al dialogo consapevole e in entrambi i casi Attività costruttiva perché attraverso lo slancio prodotto riesce a promuovere dinamismo e creare vitalità .


L'influenza della filosofia kantiana secondo cui insegnare filosofia significa insegnare a "pensare con la propria testa" è profonda e evidente.
Probabilmente questa stessa influenza ha segnato la storia di molti laureati in discipline filosofiche perché fedele al principio illuministico della Ragione che illumina e guida.


Di recente lo storico della filosofia Enrico Berti nell' <<Invito alla filosofia>> La Scuola Editrice  -  ha sostenuto che vi sono due condizioni fondamentali per aprirsi alla filosofia:


 1° che si insegna filosofia a chi ha una testa. 
Condizione apparentemente facile da accettare che risulta però ben difficile da realizzare poiché dopo tutto elaborare qualcosa di nuovo o originale successivamente al consolidato e straordinario patrimonio  della tradizione filosofica risulta indubbiamente difficile se non al quanto difficoltoso. 
 2° che quella testa  a cui la filosofia si propone sia davvero la propria testa e non quella di qualcun altro, considerando che la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa specie televisione pubblicità e programmi demenziali, con mezzi per altro senza precedenti nella storia, condizionano quelle teste in modo subdolo e latente cioè senza che ci si renda conto, con effetti talvolta devastanti per la sua stessa integrità di "certe" teste.


Peraltro già Hegel criticava i pedagogisti suoi contemporanei che manifestavano l'ardire di insegnare a <<pensare con la propria testa>> quasi a volersi inventare ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia quindi non esistesse già, o non  fosse mai esistita prima.


Non si deve trascurare che Hegel intendeva per filosofia  la verità scritta nella mente di Dio (Idea) e realizzata nel processo della Natura e nello Spirito.


Per filosofia può inoltre anche intendersi il pensiero dei grandi filosofi che bisognerebbe conoscere e con i quali sarebbe bene potersi confrontare e dialogare.


L'insegnamento della Storia della filosofia in Italia dunque ci parrebbe pur sempre valido se non utilissimo, come  indispensabile strumento di emancipazione e progresso;  sebbene attualmente sia riservato - ingiustificatamente -  a soli due "elitari" ordini di scuola quella secondaria superiore dei licei classici e scientifici.

In ogni caso è indubbio lo straordinario valore e potere che riconosciamo alla filosofia pura, quella cioè che non è fine a sé stessa ma che insegna a conoscere i classici a <<co- filosofare>> con essi su problemi e temi, e che come tali dovrebbero perciò dismettere l'esclusività caratteriale dei licei per al contrario essere ampliata e dilatata  a ogni ordine e grado di istruzione.


Qualunque persona invitato in prima persona a partecipare alla costruzione teorica di un problema - cioè a filosofare - risulta pronto a seguirne lo sviluppo e le articolazioni, ponendo in relazione ove possibile e opportuno con la propria esperienza, sino a formulare opinioni e valutazioni corroborate dalla riflessione filosofica. 


Crediamo non troppo banale ribadire - più di quanto non abbiamo già fatto intendere - quanto utile sia sviluppare le potenzialità formative della filosofia anche in ambiti diversi da quelli meramente formative. 


Stride infatti l'apparente contraddizione in un'epoca in cui si invitano tutti a diventare filosofi o per lo meno a riconoscersi come tali quelli che in realtà filosofi non sono. 


Nell'attuale società  - di filosofi -  se ne ravvede anche qualcuno di troppo e dell'abbondanza si mutuano eccessi dai toni "modaioli"che francamente oltre all'eclettismo nulla altrimenti sono in grado di esprimere.
 Ribadiamo che ad averne di filosofi autentici potremmo aspirare in quel caso a stare forse tutti meglio o certo non peggio di come in realtà siamo condannati a stare.  


Ma dall'apparente contraddizione si coglie anche la ben più drammatica e temibile difficoltà di questi tempi che invece dei laureati in discipline filosofiche sembra non sapere cosa farne.
Sbocchi professionali ancora troppo angusti che non quelli del travagliato insegnamento nella scuola secondaria e dell'università. 


Pur tuttavia nonostante ciò che si considera come  la considerevole apertura mentale affinata da questi laureati ci risulta che per essi sarebbe possibile infatti  creare sbocchi diversi: dalle consulenze editoriali alla gestione del personale nelle aziende alle progettazioni culturali di enti pubblici o privati. 


Attività queste che confermano la nascita di una più nuova  e recente professione più propriamente detta del consulente filosofico magari destinata solo in parte a risolvere il problema degli sbocchi professionali della categoria  che al contrario non spinge né invoglia a far diventare tutti filosofi - cosa che per altro ci appare  del tutto cariaturale.


Si tratta invece di promuovere l'idea che ciascun individuo almeno una volta nella vita dovrebbe aver avuto la possibilità di esperire un'esperienza filosofica nella quale cioè possa misurarsi e affrontare un problema di verità o di senso svolto in modo filosofico.
Per inciso questo non significa approcciarsi a una fede ideologica né religiosa e neanche ispirarsi a un'autorità riconosciuta come tale, ma al contrario significa avvalersi attraverso la filosofia delle risorse umane della Ragione e dell'Esperienza in maniera oserei dire esclusiva; cosa per altro ampiamente applicata durante le lezioni di discipline filosofiche umanistiche o scientifiche svolte nelle lezioni di filosofia.


 Qualche decennio fa un ministro dell'istruzione del nostro paese ebbe modo di prendere in considerazione l'idea di promuovere l'introduzione di elementi di filosofia anche nel primo biennio della scuola secondaria con piena acclamazione della Società Filosofica Italiana che votando una mozione di approvazione sanciva per altro il diritto inviolabile di ciascun giovane italiano di fare esperienza almeno una volta  nella propria esistenza accostandosi alla <<filosofia>> magari semplicemente ai classici esattamente come facciamo con la letteratura la poesia la musica e l'arte.


Non crediamo infatti che praticare e conoscere poesia letteratura musica e quant'altro possa voler dire essere o aspirare a diventare romanzieri poeti artisti o musicisti... 
Non si capisce perché invece per i filosofi e la filosofia, la questione sia insormontabile.    


                                                   Donna Bruzia



                                                

sabato 25 giugno 2011

Sacro Sviluppo



     di Serge Latouche Saggio pubblicato su Carta numero 13/10
                      qui nella versione completa arricchita dalle note


Nell’era della globalizzazione i governi dei paesi occidentali, così come mostrato da Bertrand Mécheust, utilizzano in modo sistematico «La politica dell’ossimoro» 2.

 Sappiamo che l’ossimoro, figura retorica che consiste nell’accostare due idee opposte, permette ai poeti di farci percepire l’indicibile e di esprimere l’inesprimibile. 

Utilizzato dai tecnocrati, l’ossimoro serve soprattutto a farci prendere lucciole per lanterne.
 La burocrazia vaticana non sfugge alla regola, e si potrebbe anche dire che l’ha anticipata. La chiesa ha una lunga storia di pratica delle antinomie, dagli eretici bruciati per amore, alle crociate e altre guerre sante che anticipano le guerre giuste e pulite di W. Bush. Benedetto XVI, con «Caritas in veritate», ce ne fornisce un nuovo esempio a proposito dell’economia.
Secondo alcuni religiosi, Alex Zanotelli, Achille Rossi, Luigi Ciotti, Raimon Panikkar, così come per Ivan Illich o Jacques Ellul [per non evocare la teologia della liberazione], la società di crescita si basa su una struttura di peccato.
 Questa è condannabile per la perversione intrinseca, poiché favorisce la banalità del male, e non in ragione di un’ipotetica deviazione. 
La diplomazia del Vaticano non intraprende questa strada. Non sono condannati né il capitalismo, né il profitto, né la globalizzazione, né lo sfruttamento della natura, né le esportazioni di capitali, né la finanza, né certamente la crescita e lo sviluppo.

 Solamente i loro «eccessi» sono illeciti. Quindi, accanto agli eccessi e alle perversioni, vi è un profitto «buono», una buona divisione internazionale del lavoro, una buona globalizzazione, una buona finanza e anche un buon capitale.
 Sono, quindi, le deviazioni, gli abusi, le sottrazioni di queste «cose» né buone né cattive a essere riprovevoli. Come ogni istituzione, la chiesa può sopravvivere solo facendo dei compromessi, e noi non gliene faremo una colpa. 
Tuttavia, il compromesso non implica necessariamente una compromissione con la banalità del male generato naturalmente dalla grande macchina tecnico-economica. 
Non si era padroni di condannare la logica del sistema, perché incompatibile con la morale cristiana, riconoscendo che tutti i capitalisti, tutti gli agenti del sistema globalizzato non sono necessariamente cattivi e il loro comportamento non è per forza contrario agli insegnamenti dei Vangeli? 

Fortunatamente è ancora possibile fare buoni affari senza schiacciare il prossimo né distruggere irragionevolmente la natura, né soccombere all’avidità illimitata diffusa dalle business school, anche se questi spazi sono limitati e non costituiscono la regola. Frédric Lordon, economista, coglie il punto quando scrive: «L’impresa capitalista è, per costruzione, il luogo del dispotismo padronale, e da quando Marx l’ha notato non è assolutamente cambiata. È inutile obiettare che, a volte, vi sono dei despoti illuminati, se non addirittura amorevoli, e forse anche dei dirigenti che si preoccupano di non andare fino in fondo al potenziale dispotico che i rapporti sociali di produzione oggettivamente mettono nelle loro mani» 3.

Infatti, ciò che colpisce nel testo dell’enciclica, è la predominanza della doxa economica sulla doxa evangelica. 
La colonizzazione dell’immaginario papale da parte dell’economia è quasi totale.
 L’economia, invenzione moderna per eccellenza, è posta come un’essenza che non può essere messa in discussione.
 «La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale» [p. 57]. Partendo da ciò, ne deriva che questa può essere buona, così come tutto ciò che implica. 
Così, per quanto riguarda il profitto: «Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo». 
Certamente va ricordato: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà». 
Stesso trattamento per il capitale e per il [4 Maggio 2010] lavoro, la cui mercificazione non è né denunciata né condannata. 
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ricordiamo che Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore».
 È vero anche per la cassiera del supermercato? [p. 65]. 
Sembra l’umorismo involontario e sinistro di Stalin [ma è un
caso?]: «Con il socialismo anche il lavoro diventa più leggero». Ma, soprattutto e prima di tutto, sono la crescita e lo sviluppo a venire ipostatizzati. Lo sviluppismo dell’enciclica è incredibile. Secondo i miei calcoli, la parola sviluppo appare direttamente o in locuzione 258 volte in 127 pagine, ossia in media due volte per pagina. Certo, questo sviluppismo è fortemente umanista: «sviluppo di ogni persona», «personale», «umano» e «umano integrale», «veramente umano», «autentico», «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini», e ancora «autentico sviluppo umano integrale» [p. 110]. Per la morale, è opposto allo sviluppo disumanizzato [solo incremento dell’avere]. Ma, lo sviluppo è assimilato al benessere sociale, all’«adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l’umanità» [p. 7]. 
Questo eccesso non è sfuggito ai sostenitori del papa che ne traggono delle argomentazioni a suo favore. «Lo ‘sviluppo umano integrale’ è il concetto fondamentale di tutta l’enciclica, usato ben ventidue volte per amplificare il tradizionale concetto di ‘dignità umana’» 4 .
 Si assiste a una vera ipostasi dello sviluppo. «Se l’uomo... non avesse una natura destinata a trascendersi... si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo». È la feticizzazione/sacralizzazione dello sviluppo. Si parla dello sviluppo di popoli, come «vocazione». «Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo», perché rivela l’uomo a se stesso. Con, naturalmente, la garanzia di Paolo VI.
 Ricorda la «Populorum progressio»: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» [p. 24]. E’ un ammiccamento alla famosa formula del suo predecessore: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
«In ogni caso, secondo François de Ravignan, il ventesimo anniversario dell’enciclica Populorum progressio, nel 1987, per i cristiani avrebbe dovuto essere l’occasione di porsi delle domande sullo ‘sviluppo’ che questo testo pontificio giustificava e celebrava. In particolare, le sofferenze e le ingiustizie del mondo contemporaneo erano attribuite agli abusi e non alle concezioni economiche produttiviste e libero-scambiste dominanti» 5

Contrariamente alla formula infelice dell’enciclica «Populorum progressio», lo sviluppo non è il nuovo nome della pace, bensì quello della guerra [in particolare per il petrolio o le risorse naturali che stanno scomparendo]. 
Non ci sarà mai più pace e giustizia nella società di crescita. 
Al contrario, una società di decrescita riporterebbe la pace e la giustizia al centro. 
La via della decrescita significa l’abbandono della religione della crescita. Implica la necessità di una «de-credenza» [«décroyance»].
 È necessario abolire la fede nell’economia, rinunciare al rituale del consumo e al culto del denaro 6.
 Certamente non si tratta di ricadere nell’illusione di una mitica società perfetta, dalla quale il male sarebbe definitivamente sradicato, ma di costruire una società in tensione che affronta le sue ineluttabili imperfezioni e contraddizioni dandosi una prospettiva di bene comune, piuttosto che lo scatenamento dell’avidità. 
Non solo il papa non prende la via della decrescita, ma una piccola frase, a pagina 20, [«L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio»] sembra proprio mirare agli «obiettori di crescita». 
Ritroviamo tutti i luoghi comuni evoluzionisti dello sviluppismo. Lo sviluppo è fondamentalmente positivo. «È vero che lo sviluppo c’è stato e continua a essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale» [p. 30].
 Affermazione superficiale e decontestualizzata ripresa, probabilmente, dal suo «esperto» il professore Stefano Zamagni, in un’intervista pubblicata in «Un Mondo possibile» 7 intitolata «’Caritas in veritate’ e nuovo ordine economico», che, dopo aver evocato l’incredibile crescita dei paesi emergenti, dichiara: «Prestando la dovuta attenzione all’incremento dei livelli di popolazione, si può dire che il tasso dei poveri assoluti nel mondo è passato dal 62 per cento nel 1978 al 29 per cento nel 1998».
 Non so dove Zamagni abbia trovato questi dati. Se, effettivamente i rapporti della Banca mondiale mostrano un calo statistico della percentuale della povertà assoluta [che non vuol dire molto] a causa dell’effetto meccanico della crescita cinese, si tratta di una diminuzione molto modesta e non di una riduzione così spettacolare che può alimentare le fantasie degli sviluppisti impenitenti.
 Si riprende così la visione gradualista ed evoluzionista di Rostow. Perciò si parla di «una fase iniziale o poco avanzata del loro processo di sviluppo economico» [p. 100]. O ancora: «In alcuni paesi poveri persistono modelli culturali e norme sociali di comportamento che rallentano il processo di sviluppo» [p. 32]. 
Qui si ritrova un luogo comune dello sviluppismo contro le sopravvivenze.
 La «riprogettazione globale dello sviluppo» e il «ripensamento» non cambiano gran che... anche se parla di una «equa riforma agraria nei paesi in via di sviluppo» [p. 40] e dell’«alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani», questa audacia viene fermata dall’astrattezza delle dichiarazioni. A partire da qui, la globalizzazione è presentata fondamentalmente come qualcosa di buono così come il libero scambio, avvicinandosi molto alle posizioni di Banca mondiale e Fondo monetario, il cui precedente direttore, il signor Michel Camdessus, è diventato consigliere di Giovanni Paolo II. 
Effettivamente in un libro intitolato «Notre foi dans le siècle», di Michel Albert, Jean Boisonnat, Michel Camdessus [Arlea, Paris 2002], questi esperti cristiani vedono nella globalizzazione «l’avvento di un mondo unificato e più fraterno» 8.
 E azzardano addirittura una formula: «La globalizzazione è una forma laicizzata di cristianizzazione del mondo» 9.
 L’apostolo Matteo, secondo François de Ravignan, aveva ragione: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi. 
Ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori... il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte» [Mt 24, 7-30].
Il protezionismo dei ricchi è giustamente condannato; sarebbe questo ad impedire ai paesi poveri di esportare i loro prodotti e di accedere ai benefici dello sviluppo, ciò che poi sarebbe la causa della loro miseria.
 «Il principale aiuto di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo è quello di consentire e favorire il progressivo inserimento dei loro prodotti nei mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena partecipazione alla vita economica internazionale». [p. 98]. «La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno» [p. 68], e comporta aspetti positivi come «inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte» [p. 68].
 La globalizzazione è, quindi, giudicata complessivamente come positiva.
 «Essa è stata il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo» [p. 50]. «Non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria» [p. 64]. 
E’ la delocalizzazione felice. «Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del paese che la ospita» [p. 64]. 
Lo sviluppismo spiega quest’incredibile giudizio positivo sulla globalizzazione.
Accanto a tutto ciò, vi è un grande silenzio sull’ingiustizia e sull’immoralità del libero scambio imposto ai poveri. E’ sufficiente aiutarli ad adattarsi. «E’ pertanto necessario aiutare tali paesi a migliorare i loro prodotti e ad adattarli meglio alla domanda» [p. 98].
 Ci troviamo sempre più vicini a Bm, Fmi e Wto. Anche il turismo internazionale, «che può costituire un notevole fattore di sviluppo economico e di crescita culturale» [p. 102], è visto in modo positivo. Ci sembra di sognare. Il turismo organizzato, anche non sessuale, sarebbe il prolungamento delle peregrinazioni di San Paolo e degli apostoli?
Grazie alla confusione alimentata dall’ideologia dominante, tra «mercati» e «Mercato», ossia tra lo scambio tradizionale e la logica dell’onnimercificazione, neanche l’economia di mercato è condannata: «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani». 
Secondo una retorica ben rodata, sono unicamente le devianze a essere condannabili. «E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso» [p. 57]. Ed eccoci rassicurati.
Per quanto riguarda la distruzione dell’ambiente, il problema è sollevato dalla forza delle cose, ma risolto molto rapidamente. Infine ci si appella a «un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate, in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita» [p. 84].
 Viene, quindi, data fiducia alla tecnica e a Dio.
 Sembra un po’ poco. Dov’è la carità in tutto questo? Senza dubbio dimenticata per strada. Eppure, fin dall’inizio si è detto: «La fede è insieme apage e logos, carità e verità, amore e parola» e «la giustizia è la prima via della carità» [p. 8]. 
I disastri dell’economia mondiale capitalista non portano alla condanna dei suoi agenti, senza dubbio responsabili, ma non colpevoli, se il profitto è stato estorto per una «buona ragione».
 Come per la tortura inquisitoria, la quadratura del cerchio tra la logica economica e l’etica cristiana sta, senza dubbio, nel concetto che ritroviamo nei manuali dei grandi inquisitori: «che questo sia fatto senza odio». E anche con amore. 
L’economicizzazione del mondo può realizzarsi sotto il segno della carità. E’ in questo la grande riconciliazione di Dio e di Mammona. La favola degli interessi ben compresi è ampiamente sviluppata. «C’è una convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche costi economici» [p. 48]. 
Siamo salvi! Si possono servire due padroni. E poi tutto ciò deve essere bagnato nell’acqua benedetta dei buoni sentimenti: il buonismo. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento» [p. 75], dell’etica della carità.
 Che meraviglia! Troviamo un vigoroso appello alla «responsabilità sociale» dell’impresa. Tuttavia, poiché questo potrebbe non essere sufficiente, per essere generosi si introduce, come sostegno, l’economia della carità [p. 5]. 
«Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» [p. 58]. 
Ed è qui che gli amici del Mauss [Movimento anti-antiutilitarista nelle scienze sociale] Jacques Godbout e Alain Caillé, sfarzosamente invitati al Vaticano, a sostegno di Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Leonardo Becchetti, Pier Paolo Becchetti e di qualche altro si riveleranno utili, a loro insaputa, nel caso in cui ce ne fosse bisogno. Si porta nelle acque ghiacciate del freddo calcolo economico il dolce calore della Logica del dono e del perdono. «Le relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione sono prime i rapporti di diritti e di doveri».
 Siamo d’accordo che con la globalizzazione l’ibidrazione del mercato da parte della logica politica e di quella del dono sono ancora più necessarie [p. 59]. «Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» [p. 60], ciò che, tra parentesi, è un controsenso nell’interpretazione del dono maussiano. L’economia di comunione e il settore non profit, il terzo settore, l’economia civile, sono esplicitamente menzionati ed esaltati. L’ibridazione, cara a Jean-Louis Laville, permetterà al profitto di diventare «uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società» [p. 77]. 
«È la stessa pluralità delle forme instituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo» [p. 78].
 Siamo sempre nel mito della buona azione/buon affare. Si ha comunque diritto a essere un po’ sorpresi dal vedere il terzo settore che, nel tentativo di sopravvivere al riparo della concorrenza, diventa uno dei suoi strumenti.
La concorrenza [quella della volpe libera nel libero pollaio] promossa da Bruxelles è riuscita, al contrario, a smantellare l’economia sociale e mutualistica e una gran parte del settore pubblico.


Senza un cambiamento di sistema, avverrà lo stessa cosa con tutte le forme economiche alternative. 
Come osserva l’economista Pierre Dockes: «La competizione degli interessi stimati che dinamizza nelle fasi di espansione economica, nelle crisi diventa scontro di avidità» 10.
 E si può aggiungere, con Philippe Thureau-Dangin: «Nella misura in cui la concorrenza, dapprima circoscritta nell’ambito economico, invade tutte le sfere della vita sociale e della vita privata, nulla può impedire né moderare la crudeltà che può esprimere a piacimento con la scusa di dover raggiungere un risultato obiettivo» 11.

Ha ragione Franco Totaro quando commenta criticamente Luigino Bruni a proposito del suo libro «L’economia, la felicità e gli altri». «In questo libro – scrive Bruni – non ho ceduto alla tentazione di definire che cosa sia la felicità, e spero solo di avere mostrato, da una parte, che non è possibile oggi occuparsi di teoria economica, con lo scopo di contribuire alla ricchezza o al benessere, senza fare i conti con i paradossi della felicità, e dall’altra di aver indicato alcuni meccanismi che, una volta individuati, potrebbero essere portati allo scoperto e magari evitati» [p. 201]. 
«E allora – commenta Totaro – sarebbe importante esplicitare che gli elementi di ‘gratuità, di apertura sincera e non strumentale all’altro’, fonti di felicità ma storicamente espulsi dall’economica contratta nel rapporto oggettivo di mezzi e fini, non possono emergere in virtù di una semplice conversione relazionale dell’economia considerata in se stessa e cioè nel suo codice produttivistico» 12.

 Certamente, questa «buona» economia dovrebbe essere esportata al Sud. «Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati», ma la «Populorum progressio» ha cambiato tutto. In particolare, i benefici della finanza etica e del microcredito si fanno sentire «nelle aree meno sviluppate della terra» [p. 76].
 Ritroviamo l’eco delle analisi di Leonardo Becchetti, uno dei responsabili di Banca etica. Lo slogan di Banca etica è: «L’interesse più alto è quello di tutti» 13

Tuttavia, dire che «Banca etica ha completamente capovolto la logica dell’homo oeconomicus» significa confondere i desideri per realtà 14. Tutto si basa sull’idea che «Ethics is a good business». «Dobbiamo prendere atto che la realtà di oggi è questa e partire dalla partnership, il dialogo o la pressione sulle imprese per realizzare l’obiettivo dello sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile o quello della felicita economicamente sostenibile» 15


L’obiettivo della felicità economicamente sostenibile non è propriamente un ossimoro? Certamente, la finanza e l’economia che dovrebbero diventare etiche «per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura». Come? Non ne sapremo di più, rimaniamo in un registro incantatore che lascia trasognati.

 Il fatto di reclamare una «rivalorizzazione» o una «rivalutazione» che somiglia a quella reclamata dagli obiettori di crescita non modifica in nulla la questione.
Infine, si notano i silenzi che pesano tanto quanto le parole scritte e che ci raccontano molto sulla visione pontificia.
 Non una sola parola è spesa per denunciare la perversità della pubblicità, l’indecenza del marketing o il crimine del nucleare. Si deve concludere che vi siano anche una «buona» pubblicità, un «buon» marketing e un «buon» nucleare? Il richiamo obbligato alla dottrina sociale della chiesa non fa alcuna differenza.

Certamente, sarebbe ingiusto accusare il papa e il Vaticano di non vedere le ingiustizie e l’immoralità dell’economia mondiale attuale, ma, in fin dei conti, queste condanne verbali vanno
meno lontano di quelle del G20 di Londra e del presidente Sarkozy, che denunciano gli eccessi della finanza e del neoliberismo e richiamano a una moralizzazione del capitalismo, o di quelle di Barak Obama, che critica violentemente l’oscenità dei bonus e dei superprofitti delle banche. 
Alla fine, il Grande Inquisitore di Dostoevskij ne «I fratelli Karamazov», aveva ragione a dire a Cristo: «Vattene e non tornare più».

NOTE
1 Tutte le citazioni dell’enciclica si riferiscono all’edizione italiana «Benedetto XVI, Caritas in veritate», Libreria editrice Vaticana. 2009.
 2 Bertrand Méheust «La politique de l’oxymore», La découverte, Paris 2009. 
3 Frédéric Lordon «La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli. Fayard», 2009, p. 276. 
4 Margaret Archer «L’enciclica di Benedetto provoca la teoria sociale» Vita e Pensiero, n.5 settembre ottobre 2009. Milano.
5 François de Ravignan «L’économie à l’épreuve de l’Évangile. A plus d’un titre éditions», Lyon, réed. 2008, p. 90.
 6 «Le veau d’or est  vainqueur de Dieu. Essai sur la religion de l’économie». Rivista Mauss n. 27, primo semestre 2006
7 settembre 2009, n. 22, p. 6. 
8 François de Ravignan, op. cit, p. 161. 
9 Ibid, p. 162. 
10 Dockes Pierre, Fukuyama Francis, Guillaume Marc, Sloterdijk Peter, «Jours de colère. L’esprit du capitalisme. Descartes et Cie», 2009, p. 128.
11 Philippe Thureau-Dangin «La concurrence et la mort», Paris 1995, p. 213.
12 Franco Totaro «I rischi dell’economicismo buono. Una critiqua etico-filosofica» in Etica e forme di vita, a cura di Antonio Da Re, V&P, Milano 2007, p. 215.
13 Leonardo Becchetti «Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni» Città Nuova, Roma 2009, p. 222. 15 Ibid. p. 226

giovedì 16 giugno 2011

Della Vertigine della Precarietà, dell’Insolenza del Ministro e della tentata Cura.

      


Ha scritto George Orwell <<per vedere quello che abbiamo davanti al naso, serve uno sforzo costante>>, vi è dunque necessità d’immedesimazione e di partecipazione per riuscire a scorgere e tenere lungo lo sguardo, tanto più quando il ruolo o la funzione istituzionale propongono di ideare meccanismi di trasformazione e di cambiamento, che si misurano con i problemi reali delle nostre vite e del nostro tempo; per innovare e talvolta modernizzare più complessivamente anche le nostre convinzioni. 


Colpisce perciò l’assoluta mancanza di considerazione eleganza e sensibilità dell’improvvido ministro Brunetta che nella sua ignobile esternazione contro i Precari ha suscitato scatti di dignità, orgoglio e passione per rilanciare il tema della precarietà.

Precarietà è termine che verosimilmente deriva da prex, preghiera, sembrerebbe voler dire “ottenuto per concessione altrui, che non dura sempre” - dunque qualcosa d’instabile e temporaneo -  destinato cioè  a una durata limitata o breve.

 La connotazione terminologica, suffragata anche dalla lunga tradizione filosofica e religiosa, ha dunque una caratterizzazione nella dimensione fragile e impermalente, della vita di uomini e donne in una parola della umanità dolente, che nonostante tutto resta in attesa, non certo per incauta scelta bensì per violenta necessità. 


Un' umanità dolente che attende magari la conclusione di un contrato a termine a durata annuale. Quella che tanti <<peggiori>> attendono tirando avanti con dignità e coraggio magari i docenti del sistema dell’Istruzione pubblica italiana, ai quali senza vergogna rinnovano contratti precarizzati da settembre a giugno.

Quanto accaduto a Roma protagonista l’insolente Ministro della Repubblica Renato Brunetta non è una questione semantica né lessicale.


 L’offesa gratuita e incivile ha scorticato una ferita putrida e puzzolente che solo l’arroganza ignobile di questa classe politica può trattare in questo miserabile modo.
 L’incapacità di elaborazione del ministro, e lo strumentale disconoscimento della “questione precari” nel nostro paese, è un dato incontrovertibile di inadeguatezza, con cui lui stesso e numerosi altri suoi colleghi di questo sudicio governo Repubblicano italiano si sono già altrimenti misurati.

Si sono sentite proferire cose ignobili e miserevoli, degne della levatura di questi questi minuscoli statisti; ma stavolta l’offesa del disprezzo e della condanna deve essere lavata in un unico modo possibile: le Dimissioni.


Si chiedono a nome e per conto di una generazione di donne e uomini quarantenni che, sono stati condannati esattamente da questi nani della politica italiana a cronicizzare senza nessun senso lo stato di una condizione drammatica e insopportabile, che essi pur disdegnano e dai possono solo fuggire.

Un tempo il significato della parola Precariato è stato ampio e si poteva forse anche tollerare uno sciocco gioco lessicale che alimentava illazioni e squallidi fraintendimenti; oggi la strumentalizzazione è inaccettabile poiché il termine è trasferito con frettolosità dall’ordine economico a quello umano, esso è entrato più che nel lessico del lavoro, nella vita delle persone, ricondotto come tale a un fattore che fa derivare il diffuso senso di incertezza, da situazioni assai spesso disperate che pervadendo tutte le sfere dell’esistenza, schiacciano e massacrano le vittime immolate all’estremo sacrificio.

Sono molteplici le esperienze precarie di chi  deve fare i conti ogni anno mese e giorno con un mostro che corre dietro alle loro vite e che non si è scelto: lo stato ignobile della precarietà. 


Sono molti ad esempio i ricercatori e professionisti della conoscenza, studenti e le intelligenze creative di questo paese, a cui è già negato ogni privilegio di scelta e ai quali nessuno ha guardato e guarda con considerazione; ma che non per questo è offendibile come  parte peggiore della nazione.

Essi rappresentano loro malgrado generazioni di donne e uomini che non sanno come progettare la propria esistenza, individuale e collettiva, che spesso lottano con rabbia per abbattere lo stato di cose presenti, anche senza aver chiaro che cosa proporre per il futuro a sé e alle loro famiglie; ma che malgrado tutto continuano a vivere, lavoricchiare studiare, credere e sognare.

Sono Volti, Storie e Sofferenze, che accorciano talvolta nei drammi le loro distanze; in molti altri casi quelle distanze tra loro e una politica inadeguata, le divaricano rendendole incolmabili nella somiglianza; distanze tra Chi non l’ha ancora conosciuta e chiede le applicazioni della democrazia; e tra chi la democrazia conosce e la contesta poiché ne sperimenta sulla propria pelle ogni giorno i limiti e l’incapacità di cambiare un sistema economico spietato, ma soprattutto un sistema politico incapace incompetente e inadeguato le cui vittime sacrificali uccidono le fondamenta stesse della società civile.

Negli ultimi tempi in Europa e fuori dall’Europa la sindrome precarietà si è estesa diffusamente, rendendo per così dire  <<uguali nel disagio>> uomini e donne di ogni latitudine geografica. L’urlo corale è stato per tutti : “Ci rubano il futuro” parola d’ordine che ha unito lotte talvolta tanto diverse e distanti. Tutti accomunati dalla medesima condizione di precarietà che unisce le ultime generazioni, con le precedenti e non vorremmo con quelle successive.

La precarietà lavorativa, è dura da sopportare, poiché tiene in uno stato d’insicurezza, di ansia che il più delle volte Esclude, collocando ai margini per lunghi periodi: colloca fuori dal lavoro, fuori dal mercato, fuori dal simbolico, fa vivere nell’ombra e tiene in scacco con sempre costanti nuove minacce, come quella di essere ricacciati in zone dove non si ha valore e non si conta, dove i diritti rappresentano un lusso per pochi eletti e i privilegi un beneficio per politici di casta.

 Dunque come tale il Precariato merita Rispetto Considerazione e Spazi di Visibilità, in qualunque contesto, sebbene il ministro non ne approvi la presenza, ne neghi l’esistenza e ne mistifichi i bisogni, fin anche quello di parola.

Una linea collega e relaziona tra loro diverse generazioni precarie di lavoratori di  uomini e donne di questo paese: Equilibri precari, di questo assurdo tempo storico, che solca finanche il tempo di questa insulsa politica che non interpreta i bisogni, non intercetta le necessità e che dovrebbe collocare  ai margini della società unicamente i politici incapaci, inadeguati e buffi, posto dove meriterebbero di essere cacciati: altrove.

La precarietà è condizione comune per soggetti-oggetti vulnerabili, anche della biopolitica, da cui derivano lotte che - si sbaglia -  a considerare parziali o ideologiche, che altresì sono Collettive e a ben guardare forse sono anche Intergenerazionali, trasformate cioè in lotte tra padri e figli.

Lotte che dallo stare in bilico hanno provato ad applicare forse solo l’arte della dignità; e che magari parossisticamente distinguono la retorica dalla flessibilità, dalla prospettiva di libertà, proposta da certi economisti liberali, che amano esaltare la possibilità di non legarsi tutta la vita a un’unica attività lavorativa a un unico luogo; ad aspetti ben più complessi e articolati, forse meno banali e vuoti, che tentano di legare elementi diversi, talvolta contraddittori, ai quali la politica dovrebbe saper, essere attenta.

Bisogna riconoscere che certi economisti, le spalle le hanno ben coperte e cercano di spacciare per naturale o necessario un ordine (o disordine) che è invece frutto di precise scelte storiche e politiche. Quelle che pesantemente stiamo tutti nostro malgrado vivendo come ignominia della miserevole condizione di chi questa condizione ha marchiata a pelle.

L’insulsa retorica del governo Berlusconi, di cui Brunetta si è reso protagonista, ha in fondo confermato un dato consolidato dalla politica attuale così come di quella meno recente che è usitata nel manifestare scarso rispetto per segmenti di umanità.

In fondo certi avvenimenti squarciano un velo, svelando nudità ignobili, magari quelli della stessa politica che non si capisce bene come conservi e tramandi cariche e ruoli dai padri ai figli, annullando ogni precarietà. 


Nonostante si tenti di propagandare l’ideologia dell’imprenditoria di sé, che ottunde ogni capacità critica, cogliendone in essa un sottile godimento perverso e non troppo nascosto nella parvenza di libertà del cambiar lavoro, che investe nella stessa sciatteria più che nella gigantesca vulnerabilità.

L'incapace ministro Brunetta vorrebbe Trasformare l’insana convinzione del Precariato in un guadagno in libertà; nell’idea che far parte di qualcosa anche se precario finalmente accomuna e che come tale fa ‘valere’.

Peccato che abbia trascurato di considerare la prima come inganno che annichilisce e mortifica, sottraendo tempo per sé, per le relazioni, spesso per i contenuti sostanziali. La seconda che contempla di sé il valore, ne favorisce invece l’ambiguo desiderio di una proliferazione di desideri oggettuali, con l’adesione a infiniti attaccamenti a stereotipi (beni), provocando un senso di svuotamento e di mancanza, da cui nascono cose: insoddisfazioni, crisi, tensioni.

Dal vuoto, dalle mancanze possono nascere desideri senza oggetto, desideri dell’impossibile, tangibili,e reali che convogliano aspettative e visioni del reale trasformandole talvolta in istanze, non sempre di adeguata passione per il reale, ma più spesso in annichilimento, miseria e povertà.
Mentre invece nascerebbe dalla passione per il reale l’amore del mondo, della curiosità per ciò che abbiamo intorno, per la bellezza e magari l'armonia di relazioni tra generazioni diverse; strumento potente specie quando si trasforma in interesse per la politica.

Scegliendo perciò di valorizzare ed esaltare differenze e le sanabili antinomie, che frappongono ostacoli alla realizzazione di una buona Politica fatte da altrettanto buoni Politici, all’altezza di ruoli e funzioni, scopriamo perciò che ad allontanarsi dalla realtà, levitando nel mare della vacuità e dell’inconsistenza, non siamo Noi Comuni cittadini peggiori di questo incomprensibile paese; ma costoro – politici senza ritegno né vergogna come Brunetta - che cominciano a correre a gambe elevate di fronte alla realtà.

In fin dei conti non mi sono sentita offesa dall’incauto Ministro, per essere stata tacciata come Precaria elemento Peggiore dell’Italia, messa alla berlina  o sullo stesso piano di un corrotto fraudolento ladro o assassino dello stato e della democrazia, di un bancarottiere  di un non meglio specificato e ignobile delitto -questo sì autentica vergogna della società! -   
– No, non è per questo che mi sono indignata -   Non ha neanche urtato la mia suscettibilità, il sentirmi “pezzente” più simile e vicina a un modello di varie povere umanità precarie, dove nelle relazioni tra generazioni ho finanche ritrovato il valore della mia storia umana,  in un passato di emigrazione della storia della mia gente, la stessa del mio paese, nel mio identico presente.
Quanto piuttosto mi offende la convinzione che attraverso il lavoro precario dignitosissimo, passa il paradigma del diritto al lavoro, con il quale Essi (politici di governo) vorrebbero modellare l’asse dell’intera società civile reinventando presente e futuro della nazione, attraverso un lavoro precario e senza diritti.  


E’ infatti con il lavoro che si costruiscono le strutture antropologiche del sociale. 
Quelle che occorrono per far marciare il paese in Europa nel mondo. 
Sono le coscienze dei lavoratori a qualificare il lavoro; sono le esperienze precarie che quel lavoro lo banalizzano; cancellando il Lavoro attraverso il Non riconoscimento dei Diritti umani e civili.

Direbbe Kant <<la più grande e più grave miseria degli uomini non dipende dall’avversa fortuna ma dall’ingiustizia>>.

Questo nostro presente dilaniato da cadute fisiche e morali è scosso nell’immaginario di tutti, dall’idea di un eterno insanabile conflitto manicheo delle parti sociali, impedisce la tessitura di qualsivoglia discorso credibile su questi temi e problemi concreti a cui trovare soluzioni, forse semplicemente per assoluta mancanza di credibilità di certi ministri di questo governo.

Perciò fuori dall’ordine simbolico, delle sue esternazioni – Ministro Brunetta -  si ricacci dai luoghi dell’esclusione alla quale meriterebbe guadagnare un suo spazio proprio; per partecipare al banchetto della nostra concreta precarietà non certo vacua e inconsistente come le azioni del suo ministero.


 Si muova con noi verso una libertà che non cerca l’inclusione nel sistema, ma piuttosto l’iscrizione in un ordine che permetta di  creare mondi e relazioni possibili, nel segno dei diritti, che vorrebbe per parte vostra voler dire rispondere alle vostre precise responsabilità politiche nel non saper affermare senso del reale ed efficacia.

Su ciascuno attuale politico Grava infatti l'inadeguatezza nel non riconoscere consapevolezza e senso di responsabilità, e la vostra incapacità pesa come un macigno sulle vite precarie di giovani-vecchi.

Inviterei il piccolo ministro perciò non a chiedere scusa ma a dimettersi perché incompatibile con il paese reale, del quale non può essere degno rappresentante se non della sua insopportabile arroganza e mediocrità.

 Espressione mal riuscita di un sistema politico sgangherato e claudicante, autoreferenziale per nulla innovativo e prospettico.
Incapace di iscrivere nel proprio paradigma politico altri mondi e relazioni possibili al di fuori della propria, nell’ordine simbolico di vite e di problemi ai quali non è capace di rispondere e che per questo sfugge.

In fondo si poteva tentare di mettere insieme tutte le forme dalla precarietà per determinare da esse, aperture e soluzioni di Cambiamento, per disancorarsi da identità e ruoli fissi, legati semplicemente al lavoro al consumo, alla fruibilità.


Egli avrebbe potuto più semplicemente porsi e rispondere alla domanda ‘chi sono costoro, cosa rappresentano?’ Sarebbe bastato poco più che l’ascolto di ciascun contenuto, per mostrarsi anche solo ipocritamente disponibile ad approntare una situazione  non esattamente  alla sua altezza per l'inconsistenza delle  trasformazioni e delle innovazioni della sostanza di cui non si è stato capace.

Rocamboleschi “salti mortali” i precari li garantiscono tutti i giorni, ma essi Non sanno assicurare insane “addomesticabilità”  per imparare ad essere di inciampo a loro stessi e aderire alla domesticità che costringe a un ordine creato senza di loro ma che pure di essi ha bisogno.

Vorrei perciò mettere in gioco il senso più alto o forse tutti i significati del valore professionale e individuale del genere, specie quando è possibile rintracciare parole e sostanza della creatività, della sperimentazione.

 Politicamente certe cose sono già accadute, ma ciò non significa che restano fisse e immutabili; c’è sempre qualcosa, una forza, un’energia che spinge altrove. Per questo sollecitare immaginari e destinazioni Nuove  di stabilizzazione, sviluppo e progresso, è in fondo un tributo alla vita nella quale tutti vorrebbero costruire la loro storia meglio di come si stia già facendo e a nutrire la speranza che una normalità che cancelli il precariato possa solo far bene al paese.

In fondo hanno scaricato addosso a diverse generazioni di precari ultra quarantenni, il compito di attivare il lungo lento processo della trasformazione in tutti i settori della nostra società civile; ad essi hanno demandato oneri ma non onori, anche quando nell’incertezza del futuro essi si caricano del difficile compito di ricostruire e riempire di senso di questa caduta.


 La caduta non di un eccesso, ma del venir meno di una traiettoria, percepita come sorprendente perché procede in senso inverso a quello che pensano naturale, e che i giovani/vecchi precari hanno l’onere di dover ricostruire col sudore e le fatiche di lavoratori e lavoratrici delle personali risorse, frutto esclusivo delle loro intelligenze, che la politica pur rinnega, offende e avvilisce, ma che è necessario difendere fino allo stremo.

Si tratta di risolvere il problema, ri-fondando e rinnovando la civiltà di questo paese, cominciando da un’adeguata rappresentazione dei disagi. Intraprendendo una nuova strada, fuori dalla mera costruibilità, della quale doverci far carico tutti, attraverso un alto senso etico e morale delle  professioni, dei mestieri nel rispetto degli individui.

 E’ fin troppo noto come le generazioni precarie italiane, abbiano attuato forme di resistenza affermative di essi stessi, espresse proponendo  altre prospettive interpretative dei problemi che i legislatori hanno l’obbligo di ordinare.

 La posta in gioco è, quella di creare nuove alleanze tra parti, fatte fuori da giochi politici confusi e improvvisati che avviliscono i ruoli e forse anche le funzioni in contesti sociali difficili e incerti come quelli attuali.
E’ bene allora vincere la riluttanza, smascherare un sistema politico arrogante e torbido, che non si capisce bene che cosa abbia a cuore.

Questo è un invito a recuperare la capacità di saper distinguere ciò che rappresenta una porzione di civiltà e dignità italiana; e ciò che ne governa le contraddizioni e le ambiguità, con cieca volontà di non saper che cosa fare.


                                                   Donna Bruzia