lunedì 28 maggio 2012

Non Sono Samurai Invincibili



Walter Tobagi è stato uno straordinario giornalista fine scrittore; un acuto e profondo analista storico, nato nel 1947 assassinato in un attentato terroristico nel 1980, per mano di un gruppo organizzato di estrema sinistra la "Brigata XXIII Marzo".






Della grandezza di un uomo è umanamente possibile dire di tutto, dopo la sua morte; Ma quando  a marcare  il suo valore risuonano proprio le parole, le idee e l'intelligenza, è bene continuare a farne risaltare l'intensità del coraggio e della grandezza, pronunciandole ancora  squillanti e cristalline, ancora  oltre il suo vuoto e lo scempio di chi quell'assenza aveva programmata.
Abbiamo quindi scelto di dar voce e vita ad uno straordinario articolo comparso sul Corriere della Sera il 20 aprile del 1980 un "pezzo" capitale di straordinaria bellezza analisi e incisività che decretò per stessa ammissione dei suoi carnefici "collaboranti" l' ingiustificabile e barbaro assassinio.  







 Se tentiamo di ragionare sui frammenti di verità che la cronaca ci offre in questi giorni, dobbiamo confessare una sensazione: pare proprio che il terrorismo italiano, almeno quello delle Brigate rosse, sia giunto a un tornante decisivo.
 Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti.
 E ancor più colpiscono gli squarci che ci aprono nel tessuto dell’organizzazione terrorista, dopo gli arresti in fabbrica. 
Impressiona l’ex operaio della Lancia, Domenico Iovine, che legge un proclama di adesione alle Br nel tribunale di Biella. Impressiona la ragazza di Torino, Serafina Nigro, che si premura di spiegare la specializzazione del suo lavoro nelle Br, «settore informazioni su carabinieri, polizia, magistratura e agenti di custodia». 
È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito?
 A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia.
 Epperò sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche, come è successo alle Presse o alle Carrozzerie della Fiat. 
Si è scoperto che il terrorista non esita ad acquattarsi sotto lo scudo protettivo delle confederazioni sindacali e perfino del Partito comunista. 
Anzi, il brigatista Iovine ha strettamente legato lamilizia clandestina con le lotte sindacali più dure alla Fiat, i blocchi stradali del luglio scorso, i cortei nell’azienda.
 Si assiste, insomma, al tentativo fin troppo chiaro: il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. 
È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. Ma non c’è dubbio che questa linea delle Br costringe a rifare i conti con una realtà complessa: non serve parlare di fascisti travestiti, quando le biografie personali di capi brigatisti come Lorenzo Betassa o Riccardo Dura rivelano una lunga militanza nel sindacato e in altri gruppi di vecchia o nuova sinistra. 
L’interrogativo da porsi è un altro: come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva? 
Questo è il terreno inesplorato, e forse converrebbe mettere un po’ da parte la discussione sulle matrici ideologiche e preoccuparsi delle ragioni individuali, magari psicologiche. 
Stupisce sapere, come si è detto in questi giorni, che la mitica direzione strategica delle Brigate rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzarani e l’ex cameriere Peci. E fra loro, solo Moretti avrebbe collegamenti col supervertice politico, il sinedrio occulto dei capi di tutti i capi.
 In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrabile e l’altra l’onnipresente.
 Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinitagamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili. 
Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche.
 Quanti dovevano essere, in febbraio all’Alfa Romeo, per compiere l’agguato contro un dirigente dentro lo stabilimento?
 Quanti dovevano essere, alla Lancia di Chivasso, per scrivere «onore ai compagni caduti» sui muri della fabbrica dove aveva lavorato Piero Panciaroli, uno dei quattro uccisi nell’appartamento di via Fracchia? 
E la stessa domanda bisogna porsela per gli striscioni da campagna elettorale che hanno attaccato giovedì sul cavalcavia di Genova e venerdì davanti alla Breda e alla Magneti Marelli di Sesto. 
Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. 
Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno.
 In questo senso, la scoperta dei brigatisti mascherati da delegati sindacali è stato uno choc violento, tale da amplificare il clima di sospetto.
 L’Adriano Serafino, sindacalista di punta fra i metalmeccanici torinesi, ha raccontato un paradosso attorno al quale si è discusso seriamente: «Se arrestassero il segretario del sindacato, noi che faremmo? 
Andremmo davanti alle carceri con un corteo di protesta, o sospenderemmo il segretario dall’organizzazione?».
 L’interrogativo nasce da una considerazione: «Il segretario del sindacato è il più insospettabile. Ma proprio perché è il più insospettabile può essere ance il più sospettato». 
Paradossi a parte, gli arresti di Torino e Biella impongono al sindacato di riconsiderare dieci anni di storia. 
La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici.
 I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti. 
Giova rileggere e meditare quel che ha detto il giurista Federico Mancini, a un recente convegno Uil: «Le lotte 1969-72, proprio perché così estese e antagoniste, mobilitarono militanti in eccesso: col risultato che nel ’73, quando il sindacato cambiò strategia, molti di loro – esperti com’erano di un solo mestiere, la lotta – continuarono a correre». 
Si determinò un «sovrappiù di militanti», che in parte trovarono sbocco nei nuclei clandestini. E Piero Fassino ha scritto su Rinascita: «Il terrorista può vivere e alimentarsi in fabbrica solo su obiettivi che richiedano, per essere perseguiti, il ricorso a forme di illegalità». 
La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. 
Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica.
 Ma la scelta non ammette grandi alternative, se è vero come è vero (e tutti i dirigenti sindacali lo ripetono) che il terrorismo è l’alleato «oggettivamente» più subdolo del padronato, e se non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio.
 La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. 
Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze.
 E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato.  
                                                           Walter Tobagi


Da il Corriere della Sera del 20 aprile 1980

mercoledì 23 maggio 2012

La Guerra all'Austerità



Si dice spesso che l'Europa unita ha perso

 potere di attrazione, adesso che gli europei non si fanno più guerre. Ma è difficile chiamar pace, quello che stiamo vivendo.

Guerresco è il modo in cui da due anni Greci e Tedeschi si parlano. Guerresco il clima di depressione, di paura. Guerresco, soprattutto, il trattamento riservato ai paesi indebitati, non a caso chiamati con l'acronimo Pigs, maiali: considerati alla stregua di popoli vinti con le armi, da ostracizzare, punire. I piani di austerità, come la guerra di Clausewitz, stanno diventando la continuazione della politica con altri mezzi, e l'Europa, associata a tali piani, subisce lo stesso destino. Il che vuol dire: austerità e bellicosità soppiantano la politica, la sopprimono. C'è dominio tedesco, ma l'egemone non ha progetti di rifondazione della civiltà europea. È tragicamente assente un potere europeo che rappresenti tutti, democraticamente legittimato, che sia pronto a fronteggiare la buona sorte e la cattiva. Latitano istituzioni sovranazionali forti, che nella sciagura di uno Stato riconoscano la sciagura dell'intero sistema. Ci sono innocenti e colpevoli, vincitori e vinti: l'idea stessa di solidarietà, più morale che politica, oscura pericolosamente l'interesse, le responsabilità, gli obblighi condivisi.

Fu trattata così la Germania, nel trattato di Versailles del 1919, e sappiamo quel che seguì, il rancore nazionalista che il castigo suscitò. Hitler sfruttò tale risentimento, dando al popolo non solo una crescita trainata dalle spese militari ma dignità e senso di appartenenza perduti. Manca oggi il Keynes della situazione, che denunci le calamità ineluttabilmente provocate da penitenziali terapie deflazionistiche. Conseguenze economiche della pace s'intitolava il libro pubblicato nel '19, e oggi potrebbe esser scritto tale e quale, con le periferie sud-europee al posto della Germania.

Keynes aveva partecipato alla conferenza di Versailles come rappresentante del Tesoro britannico, ma il 7 giugno 1919 si dimise, e scrisse il suo libro denuncia. Le sue idee, respinte dai vincitori, furono straordinariamente veggenti: non si può chiedere l'impossibile a un popolo vinto, demoralizzato, devastato, e dare al diktat il nobile nome di trattato. Non è pace, se la crisi non è vissuta come dramma comune a debitori e creditori. In queste condizioni era una beffa, il proclama del Presidente Usa Wilson: il '14-18 avrebbe «messo fine a tutte le guerre». Altre conflagrazioni sarebbero venute, precipitando l'Europa in una guerra di trent'anni.

I ricordi giocano brutti scherzi, proprio alla Germania che dopo il '45 ricostruì una democrazia modello, forgiata dalle introspezioni della politica della memoria. Ma col tempo la memoria si è fatta come emiplegica: come se solo una parte della storia venisse trattenuta. Resta l'assillo dell'iperinflazione fra il 1914 e il 1923, ma svapora la deflazione cominciata nel '29 e finita con l'avvento di Hitler. Lo stesso vale per le riparazioni che frantumarono la democrazia di Weimar, e per la sconfitta di Keynes a Versailles: si dimentica la vittoria tardiva, ma pur sempre vittoria, che questi conobbe dopo la seconda guerra mondiale. Stavolta Europa e America cambiarono rotta: nacquero il Piano Marshall, il Fondo monetario internazionale, l'unità europea. Vinse il New Deal di Roosevelt, non l'ottimismo cieco di Wilson. Di nessuna guerra si poteva dire che sarebbe stata l'ultima, tantomeno in Europa, se tra ex belligeranti non si concordavano una comune crescita e comuni istituzioni, nella consapevolezza che sempre può arrivare qualcuno che alla politica preferisce altri mezzi.

Il Cancelliere sembra indifferente alle lezioni di ieri, se non ignaro. La stanchezza europea del suo popolo è anche opera sua. In parte, forse, pesa il suo apprendistato nella Germania comunista. Se si esclude l'attuale governo polacco, i governi dell'Est tendono a diffidare di un'Unione sovranazionale. Sono i più puntigliosi difensori delle decisioni unanimi, dei veti nazionali, dell'Europa impolitica. Coltivano sovranità illusorie, e non vedono che il presente crollo è crollo ormai palese degli Stati nazione.

Tanto più succube è la Merkel verso la Germania della Banca centrale tedesca e della vecchia dottrina che la pervade: prima viene la casa in ordine, poi la comunanza transnazionale. La Bundesbank sta prendendo la sua rivincita sull'internazionalismo di Brandt, Schmidt, poi di Kohl che volle la moneta unica contro l'istituto di emissione. La storia contava ancora, a quell'epoca: Kohl disse che bisognava «liberare l'Europa dal problema tedesco» e creare gli Stati Uniti d'Europa, di cui la moneta unica sarebbe stata la molla inaugurale. Il trattato di Maastricht doveva preparare ben più radicali trasformazioni istituzionali, e se il disegno naufragò fu perché - per colpa del nazionalismo francese - rimase a metà strada.

Lo stesso Patto di stabilità e di governo della crisi (fiscal compact), approvato a marzo da 25 Stati, disciplina le singole economie con nuovi trasferimenti di sovranità ma non crea né le istituzioni comuni (Commissione che risponda ai deputati europei più che ai governi, Parlamento con partiti europei, vera Costituzione) né gli strumenti finanziari (eurobond, project bond) che permettano all'Unione di far politica e unire quel che è sfaldato. È così che la Grecia è divenuta capro espiatorio, che il male interno s'è fatto esterno, che sono state innalzate fallaci linee Maginot (il cosiddetto firewall) per impedire contaminazioni già in atto.


Naturalmente è molto rischioso prendersela solo con l'Europa, non fosse altro perché sono ancora gli Stati o i direttorii di Stati a determinarla. Anche l'Unione, come Atene, rischia di divenire capro espiatorio, nemico esterno. La crescita invocata da Hollande e dai socialdemocratici tedeschi, dai Democratici italiani e dal Syriza di Tsipras a Atene, dovrà scaturire da iniziative europee ma anche da mutazioni nazionali, necessarie in un'economia-mondo dove l'Occidente non è più centro.
Fatto sta che le due cose - l'ordine in casa e l'iniziativa europea - dovranno andare insieme: non domani, ma subito. Che le riforme strutturali fatte in Germania nel 2002, presentate come esemplari, sono impraticabili in tempi di recessione (da ben 5 anni la Grecia è in recessione). Non c'è tempo. Dietro l'angolo c'è la bancarotta non solo ellenica ma europea, e cittadini impauriti già fuggono dalle banche greche e spagnole.

Quello di cui c'è bisogno sono istituzioni europee che rilancino in proprio l'economia: con eurobond, con comuni tasse sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di biossido di carbonio. O in assenza di eurobond, con un patto significativamente detto «di redenzione», suggerito dal Consiglio tedesco degli esperti economici: la parte dei debiti eccedente il 60 per cento del prodotto interno diverrebbe debito dell'Unione, gestito da un Fondo comune di 2.300 miliardi di euro, per la durata di almeno 25 anni. Comunitarizzazione di una parte del debito, rilancio dell'Unione: lo propongono oggi Hollande, Monti, i socialdemocratici e Verdi tedeschi. Lo chiede anche Obama, che da anni propugna un New Deal alla Roosevelt: per non naufragare nella crisi e perdere le elezioni, implora una rapida ripresa europea. La Merkel è isolata, in casa e fuori. Oggi al vertice informale di Bruxelles vedremo se qualcosa si muove.

Una nuova politica della memoria urge in Germania. Non per ultima, la memoria dei debiti bellici tedeschi, estinti a Londra nell'accordo del 1953, anche grazie alla Grecia che rinunciò alle riparazioni. Non per ultimo, il ricordo del monito di Keynes contro gli assolutisti del contratto, portati a trasformare i patti (il fiscal compact, oggi) in «usura ininterrotta».





                                                                    Barbara Spinelli




Fonte: da Repubblica




lunedì 14 maggio 2012

Spunti per una Riflessione Filosofica - Intervista al Filosofo Francesco Berto.



                                                                         



Giulia Ribaudo, studentessa di Filosofia a Venezia, ha concepito e ideato questa sua intervista a Francesco Berto, giovane docente Universitario che ha pubblicato vari libri di successo sulla Filosofia e la Logica 
L’intervista è pubblicata nella Rivista che si intitola “Rivista Inutile” consultabile in www.rivistainutile.it 
 Lettura interessante che prendiamo a spunto di riflessione sugli ampi dibattiti filosofici, che pubblichiamo con compiaciuta gratitudine del contributo

***

Intervista a Francesco Berto


     
Perché intervistare Francesco Berto? Per darci una botta di speranza. Un filosofo giovane che spiega robe molto complicate senza farti sentire una scimmia.Un’eccellenza italiana costretta a prendere tanti aerei. 

Per rompere il ghiaccio, quello che ti chiedo è una breve ma intensa autobiografia. Può essere agiografica, ufficiale, come vuoi, lo scopo è sapere qualcosa di te.
Ok, immagino che vi interessi la mia vita filosofica più di quella privata. Mi sono laureato a Venezia con Vero Tarca, con una tesi su Emanuele Severino, che al tempo insegnava ancora a Venezia. Vorrei dire che Severino è il più grande filosofo italiano del nostro tempo; di sicuro, fra quelli il cui lavoro conosco, è il mio preferito. La tesi è poi diventata un libro, intitolato La dialettica della struttura originaria, che a qualche fan di Severino è piaciuto.


Ho scoperto la filosofia analitica un po’ tardi, grazie ai corsi di logica e filosofia del linguaggio di Tarca e Luigi Perissinotto, e quando sono stato ammesso al programma di dottorato a Venezia ho cominciato a lavorare a un ambizioso progetto: interpretare la dialettica hegeliana alla luce della filosofia analitica. Ho finito nel 2004, e anche la tesi di dottorato è diventata un libro: un grosso volume di 450 pagine chiamato Che cos’è la dialettica hegeliana? (il punto di domanda è stato aggiunto su suggerimento di un amico hegeliano – ma io volevo proprio rispondere alla domanda). È la cosa da me scritta che più mi piace, ma il suo impatto è stato un po’  deludente: in Italia i filosofi analitici perlopiù continuano a disprezzare Hegel; gli hegeliani tradizionali perlopiù continuano a disprezzare le interpretazioni analitiche.

Dal 2004 al 2006 ho lavorato a Padova, un po’ con gli analitici locali come Max Carrara, un po’ con gli hegeliani della scuola padovana, Franco Chiereghin e Luca Illetterati, e ho insegnato piuttosto regolarmente logica di base a Venezia. 
Una delle cose che sostenevo nel mio lavoro sulla dialettica hegeliana è che Hegel, contrariamente alla vulgata, non ha mai negato la legge di non-contraddizione. Il che mi ha portato ad approfondire il tema di come uno possa negare la legge di non-contraddizione e farla franca. 


Ho scritto un libro per Carocci, ‘Teorie dell’assurdo’, su certe logiche devianti che promettono una cosa del genere, dette logiche ‘paraconsistenti’. Questo ha avuto una certa fortuna (di sicuro ha aiutato il titolo), ha vinto un premio ed è uscito in edizione ampliata in inglese, per il King’s College di Londra.


Nel 2006 mi sono trovato semi-disoccupato e bisognoso di soldi. Allora ho scritto due libri di logica per Laterza, per guadagnare un po’ con i diritti d’ autore: un manuale chiamato Logica da zero a Gödel e un’introduzione ai teoremi di incompletezza, Tutti pazzi per Gödel. Anche in questo caso i titoli hanno aiutato, e le vendite sono arrivate.
Non trovando nessuna posizione in Italia, nel 2007 sono emigrato a Parigi, a lavorare al CNRS e alla Sorbona.


 Mi sono occupato soprattutto di ontologia, l’ho insegnata per due anni all’École Normale, e ne è uscito un altro libro per Laterza, L’esistenza non è logica. Vi difendevo una concezione non-standard della nozione di esistenza, opposta a quella condivisa da una grande tradizione filosofica, che va da Hume e Kant a Frege, Russell e Quine.
Nel 2009 mi hanno offerto una lectureship in Scozia, all’Università di Aberdeen, e ho accettato perché sapevo che Crispin Wright vi stava aprendo il suo nuovo istituto di ricerca, il Northern Institute of Philosophy. Da allora sto in Scozia, tranne per un anno in research leave in USA, nel 2010-11, all’ Institute for Advanced Study di Notre Dame University, a lavorare ancora su legge di non-contraddizione, mondi impossibili, e logiche devianti (mi piacciono le filosofie devianti e non-standard in generale, come avrete capito). Nel complesso, mi piacerebbe prendere meno aerei. Uno che mi piacerebbe prendere sarebbe quello che mi riporta una volta per tutte in Italia, per lavorarci stabilmente.


Nella tua pagina personale sul sito di Ca’ Foscari si legge: «Il mio filosofo preferito è Wittgenstein, sul quale però non ho scritto quasi nulla». Nella risposta qui sopra, Wittgenstein (che piace molto anche a me) non viene nominato: hai cambiato idea?
No non ho cambiato idea, è sempre il mio filosofo preferito. È solo che continuo a non averci scritto su quasi nulla.

Viene spontaneo chiedersi perché, dato che di argomenti ostici ne hai affrontati molti. Si tratta, tra enormi virgolette, di timore reverenziale?

Uhm, mettila così: uno scrive su x quando pensa di avere qualcosa da dire intorno a x – qualcosa che non è già stato detto.
Forse perché mi è molto caro anche umanamente, non ho mai avuto gran che da dire sulla filosofia di Wittgenstein che non sia già stato detto (è stato detto moltissimo, d’altronde).
Comunque una cosina su W. la ho scritta.


 Wittgenstein ha parlato del famoso teorema di incompletezza dell’aritmetica di Gödel (un’altra cosa di cui mi sono occupato). Ne ha dato una strana lettura riduttiva e la maggior parte dei commentatori (incluso lo stesso Gödel) ha concluso che W. non aveva capito niente della prova del teorema, e avrebbe fatto meglio a star zitto. In quel papero ho abbozzato una difesa di W., cercando di mostrare che c’è una interpretazione plausibile per la 
sua lettura del teorema. Niente altro su W., comunque.

Viene in mente La scopa del sistema, il primo romanzo di David Foster Wallace, un libro scritto da uno che muove i primi passi nel mondo letterario, ancora totalmente inzuppato di filosofia del linguaggio e logica modale. La nonna della protagonista, era allieva di Wittgenstein. Ti è capitato di leggerlo?


Non l’ho letto ma da come me lo descrivi direi che lo farò – non prima della fine dell’intervista, though.


Se dovessi spiegare chi è un filosofo analitico (senza ricorrere alla cara vecchia nonna) a una persona interessata ma digiuna di filosofia, cosa le diresti?

Un filosofo analitico è uno che si colloca in una certa tradizione di pensiero originata fra la fine dell ’800 e l’inizio del ’900 con i filosofi Gottlob Frege, Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, e oggi dominante nel mondo anglosassone. 


Ai filosofi analitici non interessa gran che la storia della filosofia; fanno filosofia per problemi, sistematicamente, piuttosto che per autori (la domanda da fare a un analitico è: Di che ti occupi?, non: Di chi ti occupi? – dice un mio caro amico analitico); rispettano in generale le acquisizioni delle scienze, o almeno cercano di non contraddirle; hanno un certo metodo o stile filosofico basato sull’argomentazione, I controesempi, gli esperimenti mentali, e la valorizzazione della chiarezza.


Un filosofo analitico è anche uno che si caratterizza per contrapposizione alla filosofia che gli analitici chiamano continentale, perché va forte nel continente (europeo), in Italia, Francia e Germania. Sotto quest’altra etichetta ci sono certi storici della filosofia, in particolare quelli che si occupano di autori come gli idealisti tedeschi; certi filosofi della tradizione fenomenologico-ermeneutica che va da Brentano a Husserl a Heidegger all’esistenzialismo francese di Sartre; e certi pensatori deboli postmoderni, come Derrida in Francia e Vattimo in Italia.


L’opposizione fra analitici e continentali è in declino, in molti modi. Per fare un po’ di sociologia spicciola della filosofia: i filosofi continentali duri e puri sono in lento declino anche nelle roccaforti della tradizione, come la Francia. I filosofi analitici che tendono a rimpiazzarli, però, fanno filosofia in modo spesso diverso da padri fondatori come Wittgenstein. 


Intanto, si occupano di cose come la metafisica o l’etica, a cui certi analitici della prima generazione, come i positivisti logici del circolo di Vienna erano refrattari. Poi, spesso riscoprono la storia della filosofia per queste vie: si accorgono che il tal argomento metafisico che credevano di aver inventato si ritrova in Aristotele, o Hume, o Kant.

Ti sei occupato a fondo del lavoro di Severino e nel libro La dialettica della struttura originaria ti sei impegnato a mostrare come la dialettica non consista in una violazione dei principi della logica classica. Ma per le logiche paraconsistenti i primi principi possono essere violati: perciò, come puoi conciliare quel che insegna Severino (l’incontraddittorietà dell’essere) con i risultati di queste logiche?

Essere un logico paraconsistente e credere che ci siano contraddizioni vere sono due cose del tutto distinte. Le logiche paraconsistenti modellano data base inconsistenti o incompleti, corpus di informazioni incoerenti, o credenze contraddittorie: tutti sperimentiamo di contraddirci, o di avere convinzioni incoerenti; ma non inferiamo cose a caso dalle nostre credenze incoerenti, come la logica classica consentirebbe di fare. 
Questa è la motivazione di base per la paraconsistenza. 
Il che non implica che le nostre credenze contraddittorie siano vere: se credi sia P che non-P di sicuro almeno una delle tue credenze è falsa – ma non ne inferisci un Q qualsiasi.


Hai dedicato il libro Tutti pazzi per Gödel all’esposizione dei suoi teoremi di incompletezza, che sono stati un risultato fondamentale per la logica contemporanea. Da studioso di Severino, cosa pensi del suo tentativo di mostrare l’inconsistenza di quei teoremi (cfr. Oltrepassare, cap.2, par.8)? 


Uhm, non ho mai letto, confesso, Oltrepassare, ma ho leggiucchiato un paio di altre cose scritte da Severino sui teoremi di incompletezza. 
Credo che Severino abbia in mente una nozione molto propria di inconsistenza, che non ha niente a che fare con la nozione standard usata in matematica, logica, o filosofia.
I teoremi di Gödel sarebbero «inconsistenti», nello stesso senso in cui, per Severino, tutto (tranne la verità dell’essere) è inconsistente: lo sono in quanto forma di isolamento della terra dal destino della necessità.


 I teoremi di Gödel sono un fatto puramente matematico.
 E anche la matematica (ad es. la teoria degli insiemi, che è il fondamento di tutta la matematica moderna), per Severino, sarebbe inconsistente in questo senso: è una forma di isolamento della terra dal destino della necessità. 
Non ho niente da obiettare in proposito, visto che «inconsistenza», così inteso, non ha nulla a che fare con quel che un matematico o un logico o un filosofo (che non sia Severino) intende quando parla di inconsistenza.


Torniamo al 2006 e ai due libri di logica che hai scritto per Laterza. Perché proprio Laterza? Va bene che i titoli incuriosiscono, ma cosa ti faceva davvero pensare che avresti potuto guadagnarci qualcosa? Credevi in un pubblico non accademico stimolato da argomenti come il teorema dell’incompletezza?


Laterza perché ho spedito a loro il manoscritto (ricordo che lo spedii anche a UTET, ma furono più lenti a rifarsi vivi). Non avevo un’idea precisa di quanti soldi si potessero fare ma tutto poteva far brodo per arrotondare. Non avrei potuto scrivere un libro su cose su cui non ero competente. Fra quelle su cui lo ero, i teoremi di incompletezza e un manuale di logica sono il tipo di cose che possono interessare alla gente (pensa a Gödel, Escher, Bach di Hofstadter, o La mente nuova dell’imperatore di Penrose: libri che han venduto milioni di copie su temi di logica, menti e macchine, incompletezza gödeliana, etc.).


Perché tornare in Italia, dopo tutte le soddisfazioni raccolte all’estero? 


Perché Venezia è il posto che chiamo casa.


Ad Aberdeen hai mai indossato un kilt?


No ma intendo farlo prima poi – è una delle tre cose che occorrono per avere la cittadinanza…


Qual è la compagnia aerea a cui hai dato più soldi?
Uhm, forse l’Air France, ma la mia preferita è la Qantas, perché amo i filosofi australiani.


                                                 Giulia Ribaudo