lunedì 30 gennaio 2012

È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe



di Guido Rossi

Gira su internet la seguente frase, datata nel 55 A.C., attribuita a Marco Tullio Cicerone: «Il bilancio nazionale deve essere portato in pareggio. Il debito pubblico deve essere ridotto; l'arroganza delle autorità deve essere moderata e controllata. (...) Gli uomini devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere di pubblica assistenza».

La frase, che sembra dettata dalla signora Angela Merkel e dai Governi europei, in verità non è affatto di Cicerone. La citazione, tratta da una biografia romanzata, scritta nel 1965 da Taylor Caldwell, A Pillar of Iron, è un falso, come aveva già dimostrato il professor Collins fin dal 1971; ciò nonostante, essa è stata abbondantemente abusata persino dall'Ocse e dal Fondo monetario internazionale, alla ricerca di autorevoli precedenti a giustificazione della loro politica monetaria.
Le politiche europee che si sono ispirate ai principi del falso Cicerone hanno poi provocato una serie di proteste che caratterizzano un po' ovunque la vita sociale dei Paesi globalizzati. Così è anche per le ultime "liberalizzazioni" del Governo italiano. Eppure queste dovrebbero favorire la concorrenza e dunque alla fine giovare all'interesse degli autotrasportatori, dei tassisti, dei farmacisti, dei pescatori, degli agricoltori e degli avvocati, dirette a eliminare strutture arcaiche alle quali nessuno aveva mai posto mano.

Queste strutture avevano trovato un loro scadente equilibrio, certo non giusto né trasparente, ma appena è stato rotto, ha provocato la rivolta.
S'è è fatto così l'esempio dell'autotrasporto, che vede a capo del circuito economico nel quale è inserito società di spedizione multinazionali, per lo più straniere, che controllano reti commerciali e software e collegano la produzione e la destinazione finale delle merci, mentre gli autotrasportatori non sono che l'ultimo sfortunato anello della catena. E già liberalizzato quanto basta. Diverso discorso si potrebbe affrontare per le altre liberalizzazioni, ma lo schema più o meno si ripete.
Le rivolte che ne sono state la conseguenza si accomunano alle molte altre in giro per un mondo nel quale la disoccupazione aumenta e le prospettive di lavoro sembrano azzerarsi, sicché esse paiono una scomposta e flebile reviviscenza della tradizionale "lotta di classe".

Ma così non è. La lotta, a tutti i livelli, fra ricchi e poveri, fra capitalisti e proletari, non è più quella. E soprattutto la grande ricchezza non è più il surplus prodotto dallo sfruttamento di lavoro nella produzione di merci, anche se esso tuttora esiste. Né diverso sarebbe il discorso sui beni naturali come il petrolio, il cui prezzo altalenante fra gli interessi dei paesi produttori e le corporations occidentali sarebbe ridicolo vederlo riferito ai costi di produzione. Una prima conclusione che si può trarre è che il grande cambiamento che ha reso possibile la globalizzazione e questi fenomeni che ne fanno parte integrante è l'importanza che ha assunto quello che già Karl Marx, pur senza averne previsto la straordinaria capacità di trasformazione del capitalismo, aveva chiamato «l'interesse generale», inteso come la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza alle applicazioni pratiche delle tecnologie.

In verità, già ben prima, uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, il nostro Giambattista Vico, aveva scoperto l'esistenza di un senso comune in tutto il genere umano collegato alla sapienza insita nell'ingenium. Ed è così che oggi la vera fonte di ricchezza sta nella privatizzazione di una parte rilevante dell'"interesse generale" o dell'"ingenium" vichiano. È così infatti che l'aumento della produttività e dell'efficienza attraverso il determinante ruolo che nella trasformazione dell'economia mondiale ha avuto la conoscenza collettiva costituisce il grande successo del capitalismo globale. Ma questo successo ha altresì prodotto una disoccupazione di carattere strutturale, che ha reso dovunque una moltitudine di lavoratori inutili e superflui.

Il risultato di questo successo è che ai capitalisti di antica tradizione si sono sostituiti i manager i quali, in base a meriti e competenze sempre più incerte e discutibili, si appropriano del surplus della produzione, vengono pagati con lauti bonus, stock options e liquidazioni forsennate; al contrario degli antichi capitalisti non rischiano, ma addirittura si arricchiscono anche quando le imprese sono in perdita.

È così che la classe media, la borghesia, che era il collante d'equilibrio delle società del capitalismo industriale, va via via sparendo e il suo lavoro, come hanno dimostrato anche da noi le recenti indagini dell'Istat, ha un reddito reale che viene eroso dall'inflazione.

Ma le rivolte e lo sconfortante pessimismo non servono. Ciò che pare essenziale per la borghesia proletarizzata è il recupero della conoscenza collettiva da parte di tutti e soprattutto da parte dei giovani. Pare che questa nuova dimensione, al di fuori dei falsi Ciceroni, sia stata finalmente capita anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama con l'imponente programma di aiuti per accedere all'istruzione dei giovani e all'educazione degli adulti. Sarà forse così anche possibile ridurre, e quando necessario, eliminare, la deriva finanziaria che si è inserita nel gioco perverso della privatizzazione della conoscenza collettiva. Ancora una volta la vera e non la falsa cultura costituiscono la via d'uscita dalla crisi.
dal Sole 24 Ore 

Cinema d'Autore: Maestro Ozpetek Pensieri Emozioni e Poesia.

                       

                                                                   
                                   
Cineasta turco naturalizzato italiano, Ferzan Ozpetek, classe 1959, straordinario esponente di quell cinema d'autore che rende questa forma artistica poetica.

Il regista di “Le fate ignoranti” “Saturno contro” “Un giorno perfetto” “Mine vaganti”, drammi o commedie corali, decisamente vive talvolta allegre, ma mai leziosamente leggere, che spezzano in un singulto atmosfere lievi e raffinate, in complesse storie di Uomini e Donne, famiglie che compaiono sul teatro della loro storia prendendo le mosse dalla reale attitudine umana di sfuggire o nascondersi tra le maglie della vita.

Quelle stesse vite si articolano e convivono negli spazi affollati di un quotidiano asfissiato e dolente che non è in grado di assicurare autenticità e trasparenza senza dover per questo non pagare i propri conti alla sofferenza esistenziale più profonda e dura, che affronta il rapporto e la meditazione sulla morte senza averne paura, senza sfuggirle  e nemmeno sfidandola. Lei, destinazione incontrovertibile, mostra il peso della propria evidenza con colorata vivacità, nei volti anonimi degli affetti più cari, dei ricordi più commoventi e belli che eternizzano ogni istante dell'essere in vita, per ritardarne o magari causarne perdita di consistenza della sua presenza,  dilapidando energie e sforzi del tutto umani, che si divinizzano in sé  proprio negli istanti più memorabili delle rappresentazioni dell'esistenza.   

 C'è vita, poesia e sofferenza nelle rappresentazioni di Ozpetek, i suoi tempi registici sono densi di un lavoro accurato profondo stilisticamente perfetto che rifonda il tempo dei più grandi registi del firmamento d'autore: patrimonio universale.


C'è la scelta della cura che è rappresentazione del particolare ottimamente realizzato, con la resa visiva ad effetto di una coralità che è magia stilistica, emozione dell'estetica profusa in rivoli di bellezza incontrastata che è perfezione dell'unicità della irripetibilità di ciascun uomo al di là del suo proprio valore espresso o celato è presente a prescindere dal contesto nel quale è inserita. C'è la cura del dettaglio tematico che è ossessionato dall'emozione di graffiare l'anima per allegerirle
ogni peso della cupezza, magari la stessa causata da una condizione non scelta ma subita, come quella che condanna ad inchiodare il destino alla scelta di un diversamente possibile e contrario. La relazione è poi il frutto di quella cura con la quale si dovrebbe sempre guardare gli altri nel rispetto del riferimento valoriale che ciascuno esprime. E' relazione anche l'occasione di convivialità e armonia che sullo schermo si stringe tra commensali, quella che trova significato e significante nelle tavole imbandite, nei pranzi conviviali a base di piatti gustosi, sughi densi e peperoncino a gogo, nei quali non possono mancare i pasticciotti adorati dal regista.

In tutto ciò quello che avvicina e stabilisce una relazione tra sé e l'altro quello che accomuna e coccola,  é il senso stesso del prendersi cura di sé e degli altri, con semplicità ma dovizia di particolari, nutrendo più che il corpo l'anima stessa di ciascun spettatore.

In fondo  la cucina, nei suoi film, è quasi un luogo dell'anima, una fucina di alchimie suggestive.
Una cuccia calda nella quale ritrovarsi tutti insieme per festeggiare un lieto evento o ricordare un amico scomparso per alleggerire assenze incolmabili, sicuramente inconsolabili.
 Motivo ricorrente, quasi una fissazione, anche estetica oltre che culinaria.

Predilge paesaggi mozzafiato di bellezza incontaminata, rarefatti dalla polvere delle spezie e dalle essenze dei profumi di sandalo, zenzero e peperoncino, anche nei territori italiani e in particolare in quelli del sud, sa trovare l’ambientazione adeguata ai suoi soggetti filmici, città barocche che possiedono una  sfolgorante bellezza, come quella di Lecce, Roma o Istanbul, sfondo ideale per vicende corali, dinamiche familiari, rivelazioni brucianti e sottolineature sociali, con sottofondo omosessuale, nel quale confluiscono emozioni, deliri e strazianti passioni di soffocante spiritualità. 


La famiglia è tra le tante, la sua rappresentazione più ricca ed apprezzata,Tema che è trattazione non retorica, talvolta misteriosa e stimolante, nonostante tutte le trasformazioni sociali, che la coinvolgono e che il regista sa bene rappresentare. 
La famiglia, magari benestante, riverita, numerosa, tipica e al tempo stesso eccentrica, la quale parafrasando un suo ben noto titolo diventa un concentrato di <<mine vaganti>>, pronte a deflagrare con potenza straordinaria.


Ci sono poi le storie,Tutte con a cuore vicende esistenziali che straziano l’anima ai protagonisti e lacerano le certezze degli attoniti spettatori, che entrano nei personaggi rappresentati con coraggio dal regista; ma che difficilmente sanno uscire da essi come dalle calosce della propria infanzia.

E' un invito ad ascoltare il graffiante rumore del cuore, andando ad aprire i meandri nascosti dell’anima, quelli che procurano sofferenza e dolore muto, un dolore senza lamento.
Nato ad Istanbul nel 1959 da una famiglia Borghese, ha scelto la naturalizzazione italiana, dove dal 1976, prima per studiare Storia del cinema alla Sapienza, poi Storia dell’Arte e del Costume nell’Accademia d’Arte Drammatica “S.D’Amico”, non ha più lasciato.
Un apprezzabile debutto con la cooproduzione italo-spagnola e turca de Il Bagno Turco del 1997 che presentato alla 50° edizione del Festival di Cannes riceve un successo di critica e pubblico. 
Successo che rinnova nel 1999 quando realizza Harem Suare, con un’ambientazione nella sua terra d’origine: tormentata storia d’amore tra Safiye e l’enunco Nadir sviluppata sullo scenario della caduta dell’Impero turco. 


Saranno “Le Fate ignoranti” con le interpretazioni di Margherita Buy e Stefano Accorsi, a ricamare con tutta la dovizia del prezioso regista, i temi dell’amicizia e dell’omosessualità


La finestra difronte” con uno straordinario Masimo Girotti nella sua ultima magistrale interpretazione, graffiante e dolcissimo nell'intensità raffigurativa, annoverano meritatamente come pluripremiato, fu un godibile e sofisticato intreccio di sensualità e voluttuosa bellezza espressiva.


 Del 2005 è “Cuore Sacro” che riceve 12 candidature al Premio David di Donatello.


 Con “Saturno Contro” con il cast di bravi attori, fa incetta di riconoscimenti, non ultimo nello stesso anno il Premio De Sica che riceve dalle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.


 Il “Giorno Perfetto” anche questo, con un nutrito cast di attori, ha riconoscimenti di incassi e di pubblico. 


Il MOMA di New York con una retrospettiva, riservata ad un numero ristretto di cineasti italiani, proietta tutti e sette I suoi film.
Il 2009 con un cortometraggio dedicato ad Alessandra Cora deceduta sotto le macerie della sua casa, aderisce al progetto <<Nonostante tutto è Pasqua>> - Cinque registi tra le macerie, pro iniziative del terremoto dell’Aquila,
Nel 2011 ha svolto la sua prima regia teatrale con l’opera Aida del Maggio Forentino diretta da Zubin Metha.

Filmografia
             Il bagno turco (1997)
                Harem Suare (1999)
                Le fate ignoranti (2001)
                La finestra di fronte (2003)
                Cuore sacro (2005)
                Saturno contro (2007)
                Un giorno perfetto (2008)
                Mine vaganti (2010)



Bibliografia
Laura Delli Colli, Ferzan Ozpetek - Ad occhi aperti , Electa Mondadori, 2008. ISBN 88-370-6830-1
Gabriele Marcello, Ferzan Ozpetek , Le Mani, 2009. ISBN 88-8012-463-3

venerdì 27 gennaio 2012

Anche se andassi per le valli più buie di nulla avrei paura....



tratto dal Salmo 23 di Davide, 

testo e traduzione dall' originale

"Gam Gam Gam Ki Elekh
Be
Be Ge Tzalmavet

Lo Lo Lo Ira Ra'
Ki Atta' Imadi' (2 volte)

Shivtekha Umishantecha

Hema Hema Inaktamuni'
"

Traduzione:



Anche se andassi

 Per le valli più buie

Di nulla avrei paura

Perché tu sei al mio fianco.

Se tu sei al mio fianco

Il tuo bastone 
Il tuo bastone mi dà sicurezza.





Studenti ’sfigati’ o futuri disoccupati?



di Guglielmo Forges Davanzati

Il Governo Monti si è presentato con il volto austero della “buona borghesia” italiana: nessuna caduta di stile, sobrietà, dedizione al lavoro, competenza. E si è presentato come il Governo che avrebbe salvato l’Italia. Ma, a distanza di tre mesi dal suo insediamento, si può affermare che né si è salvata l’Italia, né i Ministri che lo compongono hanno sempre dato segni di discontinuità rispetto alle dichiarazioni ‘fuori le righe’ dei Ministri del precedente Governo. Battezzare la prima manovra finanziaria del nuovo Esecutivo “decreto salva Italia” non è stata probabilmente un’idea felice: gran parte dei problemi del Paese dipende dalla crisi dell’eurozona, rispetto alla quale contano in massima misura le decisioni prese a Bruxelles. Il differenziale di rendimento fra titoli del debito pubblico italiano e bund tedeschi – considerato il termometro della tenuta dei conti pubblici italiani – ha subìto, nei mesi scorsi, oscillazioni di entità pari a quelle registratesi a partire dall’agosto scorso, nell’ultima fase del Governo Berlusconi.

Pochi giorni fa, il Financial Times ha fatto notare ciò che per molti economisti è diventato palese da almeno un triennio, ovvero che la crisi europea non si risolve con politiche di austerità. Il recente declassamento da parte di Standard and Poors dei titoli del debito pubblico di nove Paesi europei ha la medesima motivazione ufficiale: aumentare l’imposizione fiscale e ridurre la spesa pubblica genera una spirale deflazionistica che accresce il rapporto debito pubblico/PIL, anziché ridurlo. Esattamente il contrario di quanto i nostri tecnici (italiani ed europei) si aspettano. Non si è salvata l’Italia anche perché le politiche di austerità – che hanno visto la loro massima accelerazione nel “decreto salva Italia” – hanno semmai prodotto la paralisi dell’economia italiana, con un’ondata di scioperi che non ha precedenti nella storia recente del Paese.

E’ evidente che il problema dell’economia italiana consiste nel fatto che il suo tasso di crescita si approssima allo zero e che, anche per effetto di queste misure, è destinato ulteriormente a ridursi, come previsto dall’OCSE. E non vi è dubbio che l’elevata disoccupazione giovanile è parte integrante del problema. Violando lo stile comunicativo che questo Governo ha inteso darsi, è intervenuta la sintetica e chiara dichiarazione del vice ministro al Welfare, prof. Michael Martone, che legge la questione nei seguenti termini: “se a 28 anni non sei laureato, sei uno sfigato”.

Le numerosissime critiche rivolte al professore hanno fatto riferimento al suo (a quanto pare discutibile) percorso professionale e al fatto che, presa alla lettera, questa dichiarazione non tiene conto del fatto che si arriva tardi alla laurea per la riduzione dei fondi per il diritto allo studio, perché molti studenti, privi di sostegno delle famiglie, sono costretti a finanziarsi gli studi con impieghi occasionali, precari e spesso in nero, e perché le Università sono frequentate anche da studenti-lavoratori. Osservazioni, queste, condivisibili che andrebbero più propriamente inquadrate in uno scenario più ampio che attiene ai rapporti fra Università e mercato del lavoro. L’Università italiana ha anche svolto il ruolo (improprio) di “parcheggio”, e continua a svolgerlo. Il che, a differenza di ciò che il prof. Martone pensa, è difficilmente riconducibile al fatto che, in media, i giovani italiani sono poco inclini a sacrifici, e poco motivati allo studio.

La causa è semmai da ricercarsi nell’elevata disoccupazione e, conseguentemente, nella bassa probabilità di trovare impiego, che genera una condizione per la quale al crescere del tasso di disoccupazione cresce il tasso di scolarizzazione. Questa correlazione regge su un fondamento di ‘razionalità’ delle scelte. Si consideri il caso di un singolo individuo posto di fronte alla decisione se iscriversi o meno all’Università, in un contesto nel quale la probabilità di trovare impiego (e un impiego coerente con le qualifiche acquisite) è prossima allo zero. Dato il reddito a sua disposizione, può essere conveniente iscriversi all’Università, dal momento che un titolo di studio aggiuntivo può conferirgli un “vantaggio posizionale” rispetto ai suoi potenziali concorrenti. Nel momento in cui questa scelta è fatta da un numero elevato di individui, la probabilità di trovare impiego resta, per tutti, quella precedente all’acquisizione del titolo di studio. In più, la rapidità del percorso di studi diventa sempre meno rilevante quanto più gli studenti cominciano a maturare aspettative pessimistiche in merito alla loro collocazione nel mercato del lavoro, ovvero quando verificano che i posti disponibili sono molto limitati e i potenziali candidati sono molto numerosi. La certezza di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un contratto precario – spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale - costituisce un ulteriore fattore che motiva il ritardo dell’acquisizione del titolo di studio. In fondo, se non altro per ragioni di “status”, può essere preferibile essere studente (anche se fuori corso) piuttosto che disoccupato.

Sul piano empirico, si rileva – su fonte Almalaurea – che il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Ovviamente nel computo dei “residenti al Nord” si includono anche i giovani meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Viene anche certificato che al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro, che due laureati su tre, nel Mezzogiorno, non hanno trovato occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo di studio e che la probabilità di trovare impiego è molto più bassa per le donne.

A ciò si aggiunge che, poiché gli studi universitari sono in larga misura finanziati dalle famiglie, le lauree tardive erodono in misura significativa i risparmi e, a seguire, ciò genera una condizione per la quale si rendono disponibili meno fondi per gli investimenti privati. Il che dà luogo a una spirale viziosa: l’aumento della disoccupazione accresce la popolazione studentesca; il che riduce i risparmi e gli investimenti, dunque il tasso di crescita accrescendo, in ultima analisi, ulteriormente la disoccupazione.

Considerando che ben difficilmente le esortazioni del prof. Martone possono avere effetto (dal momento che, al di là di quanto egli esterna, la politica economica fatta con le parole non è molto efficace, o non lo è per nulla), il problema lo si può risolvere in due modi: ponendo le condizioni per un aumento della domanda di lavoro – il che presuppone l’attivazione di politiche per la crescita – o abolendo il valore legale del titolo di studio – se e in quanto si assume che, così facendo, si disincentivino le iscrizioni. Il Governo si sta movendo lungo quest’ultima linea, di fatto accentuando il fenomeno della riduzione delle immatricolazioni già in atto da almeno un triennio. Se anche l’abolizione del valore legale del titolo di studio (o l’”attenuazione” della sua rilevanza, come il Governo si appresta a fare) ha effetti significativi di disincentivo alle immatricolazioni, ci si trova di fronte a una politica miope. A fronte dell’invecchiamento della popolazione (il numero di 19enni si è ridotto del 38% negli ultimi 25 anni), è arduo sperare che la crescita economica – nel lungo periodo – si attivi con una forza-lavoro in età avanzata e poco scolarizzata.





fonte MicroMega

mercoledì 25 gennaio 2012

Shoah: contro l’Oblio una Rete



                                  


Tenutasi  il 24 gennaio scorso a Roma, nel palazzo di Montecitorio  l'importante iniziativa di Quaranta docenti universitari coordinati da David Meghnagi in Ricordo della Shoah che hanno dato vita alla costituzione di una “Rete per la memoria della Shoah, contro le discriminazioni, per una cittadinanza condivisa”.


L’obiettivo precipuo è quello di Incrementare e Diffondere attraverso il Giorno della Memoria e altre iniziative legate alla conoscenza della Shoah, negli atenei italiani e nei licei,  le buone pratiche nella lotta contro ogni forma di razzismo e antisemitismo. Di cui vi è - indubitabile - grande bisogno.

Circa tremila siti Negazionisti che è possibile rintracciare in rete rafforzano l’idea che le intezioni di questa iniziativa sono giuste e probabilmente ancor più indispensabili per contrastare l’ignoranza dei fatti storici o i pregiudizi subdoli e latenti che più spesso di quanto non si dica s'insinuano pericolosamente nella vita di ciascun individuo di qualunque tempo storico a qualunque longitudine geografica.


 I docenti di venti diversi atenei italiani, hanno perciò inteso mettere in comune conoscenze e voglia di lavorare alla formazione per offrire alta specializzazione della materia al servizio della civiltà etica e civile di questo paese avvilito e prostrato da intolleranze e nuovi/vecchi razzismi.

 Il presidente della camera Gianfranco Fini, che ha prestato la sede istituzionale alla iniziativa della Rete, ha fissato un incontrovertibile punto fermo è a partire dalla memoria della Shoah che si dà «un contributo decisivo al contrasto di ogni nuova o vecchia forma di antisemitismo e di razzismo; e si impedisce che qualsiasi ideologia o potere possano abbattersi sugli inermi, sugli innocenti, su interi popoli contro i quali decretare le discriminazioni più odiose per motivi di razza, di religione, di genere, di condizione sociale».
 E c’è il «preciso dovere delle istituzioni di tenere desta la coscienza degli uomini».

Seguendo ancora le parole del Presidente della camera si vede che puntualizzando gli eventi tragici del passato si parla in realtà del presente: «Ridefinire il concetto di cittadinanza – spiega Fini – è una delle grandi sfide della democrazia contemporanea, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
È una sfida certo imposta dalle grandi migrazioni e dai processi globali del nostro tempo, ma a ben vedere è anche una sfida connaturata alla stessa democrazia, il cui processo di affermazione e consolidamento tende e deve comunque inevitabilmente tendere all’inclusione e all’allargamento a nuove fasce di popolazione dei diritti sociali e dei diritti politici».

Così stanno le cose anche per il ministro Andrea Riccardi: «La memoria della Shoah è un fatto decisivo della comune identità europea».


 Si parli dunque della Shoah! 

Ma con quali Argomentazioni?


 Secondo Luciano Violante bisogna «evitare tre errori pedagogici: quello che punta solo sull’anniversario, che poi passa; la pedagogia dell’orrore, che ha senso ma separa i fatti dai processi storici che li hanno prodotti; quello della compassione, che fa dire “poveretti” e poi si va avanti».

Allora qual è il modo giusto per parlarne?


 Secondo l’ex presidente della camera bisogna usare «la Pedagogia della Verità, Aumentare la Conoscenza, Conservare la Memoria, andare ai Processi Storici ».


 Un primo risultato, i docenti che lavorano sull’argomento l’hanno già ottenuto: come ha raccontato ieri il professor Paolo Cohen dell’Università della Calabria, che per sua stessa ammissione non reputa questo un risultato, bensì un punto di partenza sul quale lavorare. 
E che per l’Università di Teramo, «conosciuta finora come Negazionista, ha determinato una inversione di rotta:anche questa Università riconoscerà il suo Giorno della Memoria».






                                     


IL NEGAZIONISMO della Shoah è spesso salito in cattedra,

scrivendo pagine cupe e sinistre della storia dell'Uomo.


La storia riscritta e riletta seguendo le orme di chi nega 


l'esistenza delle camere a gas o chi contesta i dati dello


sterminio messo in atto dai nazisti, è stata e continua ad 


essere qualcosa di agghiacciante.



Tra questi Claudio Moffa, professore ordinario presso la


Facoltà di Scienze Politiche proprio dell'Università di Teramo, 


che non ha mai fatto mistero delle sue <<scettiche idee>>,


 condensato di tesi revisionistiche della Shoah, che si sono


materializzate in lezioni choc. Il docente, parlando agli studenti


 dell'università abruzzese non ha risparmiato fandonie 


storiche: << Non c'è alcun documento di 


Hitler che dicesse di 'sterminare tutti gli ebrei'>>.


Sin anche racconti come quello del sopravvissuto al

campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau 


Shlomo Venezia, ritenuto senza alcun fondamento  


mistificazione della memoria, sono stati rigettati 


dall'accademico impenitentemente razzista. 



Il giudizio del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche 


Italiane, in questa circostanza è servito per dimostrare che 


<<Mettere in dubbio o negare la Shoah significa


 offendere la Memoria delle vittime>> ma non a placare


 idee di insostenibile verità.







                                     





La Rete, dunque anche nella sua manifestazione del 24 Gennaio 2012, è solo uno dei tanti eventi organizzati per Ricordare non in modo banale o retorico il Giorno della Memoria.
E’ stato lo stesso ministro dell’integrazione Riccardi a parlare in una tavola rotonda promossa dal Comitato di coordinamento per il ricordo della Shoah e dall’Unione delle comunità ebraiche in Italia, a ricordarlo. A suo parere «ancora tanti settori dell’opinione pubblica europea non riconoscono il dramma della Shoah, non la conoscono, la relativizzano. Non si tratta – ha sostenuto – solo di negazionismo, ma di relativismo storico per cui la si affoga tra le grandi tragedie del Novecento.

Ma nessuna tragedia è uguale all’altra, come la morte di nessun uomo è uguale all’altra. E la Shoah spicca nel suo carattere differente, particolare, profondo».

Di questi stessi giorni è invece l’iniziativa del consiglio comunale di Roma, che dovrebbe dare il via libera al progetto definitivo per il Museo della Shoah di Roma previsto a Villa Torlonia sulla Nomentana.


 Il progetto del museo – un parallelepipedo nero, sospeso, che riporta i nomi dei deportati italiani – è firmato dagli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini.


E' da ritenersi che in ogni singolo comune, finanche quello più piccolo e sperduto dei meandri dell’intera Europa, possa creare lo spazio adeguato per agganciarsi anche solo idealmente  alla Rete, per favorire la cancellazione dei semi dell'Oblio, ricucire lo squarcio della vergogna nella dignità di ciascun uomo, che nonostante ogni irragionevole dubbio rendono ciò che è  stato mera  banalità del male
  
                              Angela Maria Spina







Quando la Decrescita rende Felici




Serge Latouche autore di una importante fatica letteraria e filosofica – “Breve trattato sulla decrescita serena – è balzato agli onori della cronaca per aver offerto una sintesi quanto mai esaustiva del Pensiero della Decrescita, collocandola in un’ottica di concretezza mai sperimentata prima dall’autore, su di un tema di greve attualità e opportunità anche politica.


 Sono in molti a credere che la decrescita sia – giusto - affrancarla dallo status di Filosofia Astratta e forse  per molti versi anche Eccentrica; per materializzarla nelle parole di Latouche in una “Utopia concreta che tenta di esplorare le possibilità oggettive della sua realizzazione”.


 Dal momento che siamo sensibili ed attenti a questi temi ci pare opportuno scorrere le pagine del filosofo francese sintetizzandone sforzi e intuizioni,  utili o forse necessari a trasformare la nostra società sviluppista; ormai in fase di disfacimento schiacciata con ogni evidenza dal peso del proprio fallimento; guardando con enorme simpatia ad una società considerata della “decrescita serena.

Ciò che entusiasma sono evidentemente le articolazioni “in otto cambiamenti interdipendenti, che rafforzano reciprocamente, la loro stessa ragion d’essere, costituita dalle ormai ben note otto R :
 1°Rivalutare, 2°Riconcettualizzare, 3°Ristrutturare, 4°Ridistribuire, 5°Rilocalizzare, 6°Ridurre, 7°Riutilizzare, 8°Riciclare


Otto R da amare - potremmo sintetizzare in uno slogan dalla dubbia efficacia.
Tutte dignitosamente con un status d’importanza incontrovertibile, specie in tempi tanto difficili come quelli che stiamo vivendo.

Rivalutare significa colmare il vuoto di valori oggi dominanti: “Amore della Verità, Senso della Giustizia, Responsabilità, Rispetto della Democrazia, Elogio della Differenza, Dovere di Solidarietà, Uso dell’Intelligenza” <<Paradigmi>> come li chiamerebbe Khun, che oggi forse più che ieri appaiono indispensabili nel creare ed incidere su un differente immaginario collettivo, all’interno del quale  è necessario soprattutto Riconcettualizzare e Ristrutturare non solo gli apparati produttivi che ci riguardano, quanto gli stessi rapporti sociali nell’ottica di una Ridistribuizione delle stesse ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale, tra aree a diversa tipologia di sviluppo come il Nord e il Sud del mondo, sia  all’interno stesso di ciascuna società di ogni parte del pianeta.

Rilocalizzare, nelle parole di Latouche, significa produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni di una popolazione, in imprese locali finanziate dal risparmio collettivo raccolto localmente
Va da sè come la sostituzione del globale con il locale rappresenti perciò il fulcro di qualsiasi progetto di decrescita, come Latouche ben sintetizza affermando che 
 Se le idee devono ignorare le frontiere, al contrario i movimenti di merci e capitali devono essere limitati all’indispensabile ed aggiungendo che la rilocalizzazione non deve essere soltanto economica ma anche la politica, la cultura, il senso della vita devono trovare un ancoraggio territoriale”.

Ridurre gli impatti sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare ovvero: Riutilizzare e Riciclare - ad esempio - i rifiuti del consumo, serve a combattere l’obsolescenza programmata dei prodotti, completando la serie dei cambiamenti proposti dal filosofo.

Latouche non si ferma solo a questo: arriva a tratteggiare un vero e proprio “programma politico”, pregno di fascino e di concretezza, comprendendo che qualunque proposito di “Decrescita Serena” potrà trovare attuazione solamente nell’ottica di una volontà politica che intenda procedere in questo senso.

All’interno di questo programma il punto in cui si propone di “trasformare gli aumenti di produttività in riduzione del tempo di lavoro e in creazione di posti di lavoro” e quello in cui, in contrapposizione alla produzione di merci, si stimola la produzione di beni relazionali come l’amicizia e la conoscenza, il cui consumo non diminuisce le scorte esistenti ma le aumenta.

A corollario di un testo molto ricco di spunti, Latouche propone alcune riflessioni aventi per oggetto le possibilità d’interazione fra il pensiero della decrescita e la società capitalista, risponde a chi si domanda se la decrescita sia di destra o di sinistra affermando cheil programma (…) è in primo luogo un programma di buon senso, altrettanto poco condiviso sia a destra che a sinistra e rifiuta l’idea della creazione di un vero e proprio partito politico della decrescita, che rischierebbe di cristallizzarne lo spirito.


IL LIBRO
Serge Latouche 
Breve Trattato sulla Decrescita Serena 
Bollati Boringhieri, 2008
Pagine 135 – euro 9,00

La Fabbrica Opinione Pubblica


 Un inedito di Pierre Bourdieu

Come si definisce lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione
di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? 


È ciò che il sociologo Pierre Bourdieu  in questo testo estratto da "da Sur l’Etat
Cours au Collège de France 1989-1992" (Raisons d’Agir-Seuil, Parigi, 2012) spiega con lucida immaginazione visionaria.


di Pierre Bourdieu, da Le Monde diplomatique - il manifesto, gennaio 2012


Un uomo ufficiale è un ventriloquo che parla in nome dello Stato: assume un portamento ufficiale – bisognerebbe descrivere la messinscena del personaggio ufficiale –, parla a favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla in quanto rappresentante dell’universale.


E a questo punto si arriva alla moderna nozione di opinione pubblica. Cos’è questa opinione pubblica invocata dai creatori di diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di quelli che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione esplicita in una società che si pretende democratica, e cioè che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, e cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. C’è una sorta di definizione censuaria dell’opinione pubblica come opinione illuminata, opinione degna di questo nome.


La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo in grado di dare tutti i segnali esterni, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle forme convenienti. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte di chi è incaricato della composizione della commissione, che la persona in questione conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in maniera appropriata, quella che va oltre le regole del gioco, che lo legittima; non si è mai così tanto nel gioco come quando si va oltre. In ogni gioco, ci sono regole e fair-play. A proposito dell’uomo cabilo, o del mondo intellettuale, avevo utilizzato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con la regola del gioco, facendo di questo gioco con la regola del gioco un omaggio supremo al gioco. Il trasgressore controllato è la vera antitesi dell’eretico.


Il gruppo dominante coopta i suoi membri su indizi minimi di comportamento, che sono l’arte di rispettare la regola del gioco fin nelle trasgressioni regolate della regola del gioco: la buona creanza, il contegno. È la celebre frase di Chamfort: «Il grande vicario può sorridere a una battuta contro la religione, il vescovo può riderne apertamente, il cardinale metterci del suo (1).» Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, a partire da una posizione che sia tale da eliminare ogni dubbio. L’humour anticlericale di un cardinale è squisitamente clericale. L’opinione pubblica è sempre una specie di realtà doppia. È quella cosa che non si può non invocare quando si vuole legiferare in campi non organizzati. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (espressione straordinaria), a proposito dell’eutanasia o dei bimbi-provetta, si convocano delle persone, che si metteranno a lavorare con tutta la loro autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con gente disparata – psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, scienziati, ecc. – che hanno il compito di trasformare una somma di idioletti (3) etici in un discorso universale che colmerà un vuoto giuridico, cioè darà una soluzione ufficiale a un problema difficile che turba la società – legalizzare le madri portatrici, ad esempio. Se si lavora in questo genere di situazione, si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto, si capisce molto bene la funzione affidata ai sondaggi. Dire «i sondaggi sono con noi», è come dire «Dio è con noi» in un altro contesto.


Ma la storia dei sondaggi è seccante, perché a volte l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto a favore. Che fare? Si fa una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che tradurrà l’opinione illuminata in opinione legittima in nome dell’opinione pubblica – che magari dice il contrario o non pensa proprio niente (come succede su molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alla gente problemi che non si pone, nel suggerire risposte a problemi che non si è posta, quindi nell’imporre risposte. Non è questione di cercare vie traverse nella costituzione dei campioni, è il fatto di imporre a tutti problemi che sono sentiti dall’opinione illuminata e, per questa via, di proporre risposte generali a problemi sentiti solo da alcuni, quindi di dare risposte illuminate in quanto le si è generate con la domanda: si è dato vita a problemi che per la gente non esistevano, mentre la domanda era quale fosse il loro problema.


Vi tradurrò un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica, ne dà la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla di opinione pubblica, si gioca sempre un doppio gioco tra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente che è ottenuta come sotto-insieme ristretto dell’opinione pubblica democraticamente definita:«È l’opinione, a proposito di un qualsivoglia argomento di cui si parli, espressa dalle persone più informate, più intelligenti e più morali della comunità. Essa viene gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone dotate di una certa istruzione e di un sentire adeguato a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diventa quella di tutti.


Mettere in scena l’autorità che autorizza a parlare


Negli anni 1880, si diceva apertamente all’Assemblea nazionale ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, e cioè che il sistema scolastico doveva espellere i figli delle classi più sfavorite. All’inizio si poneva la questione, che poi si è del tutto risolta in quanto il sistema scolastico si è messo a fare, senza esplicita richiesta, ciò che ci si aspettava da lui. Quindi, nessun bisogno di parlarne. L’interesse del ritorno sulla genesi è molto importante perché, nella fase iniziale, si rintracciano dibattiti in cui vengono espresse a chiare lettere cose che, in seguito, possono sembrare provocazioni dei sociologi.


Il riproduttore dell’autorità sa produrre – nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» –, teatralizzandolo, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile), e nel nome del quale parla. Deve produrre ciò in nome di cui ha il diritto di produrre. Non può non teatralizzare, non dare forma, non fare miracoli. Il miracolo più comune, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, il successo retorico; deve produrre la messinscena di ciò che autorizza il suo dire, in altre parole dell’autorità in nome della quale è autorizzato a parlare.


Ritrovo la definizione della prosopopea che cercavo prima: «Figura retorica attraverso la quale si fa parlare e agire una persona che viene evocata, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, che è sempre uno strumento formidabile, si trova questa frase di Baudelaire a proposito della poesia: «Maneggiare sapientemente una lingua, vuol dire praticare una specie di stregoneria evocatrice». I chierici, quelli che manipolano una lingua sapiente come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena il referente immaginario in nome del quale parlano e che parlando producono nelle forme; devono fare esistere quello che esprimono e ciò in nome di cui si esprimono. Devono insieme produrre un discorso e produrre la fiducia nell’universalità del loro discorso attraverso la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi – lo Stato è un fantasma…) di questa cosa che sarà garante di ciò che fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.


Percy Schramm ha mostrato come le cerimonie di consacrazione fossero il transfert, nell’ordine politico, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi così facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie della consacrazione, è perché si tratta, nei due casi, di far credere che c’è un fondamento al discorso, il quale appare autofondante, legittimo, universale solo in quanto c’è la teatralizzazione – nel senso di evocazione magica, di stregoneria – del gruppo unito e consenziente al discorso che lo unisce. Da cui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese – le parrucche, ecc. –, che non si può comprendere completamente se non si vede che non si tratta di un semplice apparato, nel senso di Pascal, che verrebbe ad aggiungersi: è parte costitutiva dell’atto giuridico (6). Parlare forense in giacca e cravatta è rischioso: si rischia di perdere lo sfarzo del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo indumento: i re nudi non sono più carismatici.


Ufficialità, o malafede collettiva


Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione della convinzione dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico – teatralizzazione della fede del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fiducia in ciò che fa. Se la teatraliz-zazione della convinzione fa parte delle condizioni tacite dell’esercizio della professione di chierico – se un professore di filosofia deve aver l’aria di credere alla filosofia –, è perché è l’omaggio fondamentale del personaggio ufficiale all’autorità; è ciò che bisogna concedere all’autorità per essere un’autorità: bisogna concedere il disinteresse, la fiducia nell’autorità, per essere un vero personaggio ufficiale. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle dei preti, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di fede politica nella quale tutti sono in malafede, la fede essendo una sorta di malafede collettiva, in senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a se stessi e agli altri sapendo che anche quelli mentono a se stessi. È questa l’autorità…


NOTE


(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Parigi, 1795.
(2) Dominique Memmi, «Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle», Actes de la recherche en sciences sociales, n° 76-77, Parigi, 1989, p. 82-103.
(3) Dal greco idios, «particolare»: discorso particolare.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londra, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) ebbe una lunga carriera come membro del Parlamento britannico.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9 zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates(due volumi), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n° 4, Berkeley (California),1974, p. 382-405.


(25 gennaio 2012)