mercoledì 7 marzo 2012

Cesare deve Morire. E i Taviani ne liberano lo spirito

di Giona A. Nazzaro 

Cesare deve morire è il film che proprio non ti aspetti dai Taviani. Certo non a questo punto della loro carriera che da anni ha imboccato una strada tutta in pianura fatta di un cinema prevedibile e ingessato.

Cesare deve morire, al di là dei soliti evitabilissimi sciovinismi della stampa italiana, la quale se il film non avesse vinto il primo premio a Berlino non lo avrebbe degnato nemmeno di un decimo dell’attenzione sin qui tributatagli, è davvero un ottimo lavoro, probabilmente il migliore dei Taviani dai tempi di Kaos. Un’autentica scossa di vita che immette energia in un cinema che pareva aver segnato il passo, immergendolo nuovamente nell’agone delle cose e del mondo.

Ciò che sorprende positivamente è il rischio linguistico che il film accoglie senza colpo ferire. Cesare deve morire non è affatto la documentazione filmata di uno spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti di Rebibbia sotto la guida partecipe e attenta di Fabio Cavalli. Il Giulio Cesare di Shakespeare rielaborato da Cavalli con i Taviani è una complessa operazione linguistica e politica che intrecciando i numerosi piani narrativi sui quali si muove crea un’originale e rigorosa messa in scena drammatica.

Il film si muove, infatti, su almeno tre livelli: quello dell’apparente proposta documentaria (l’ingresso nel complesso carcerario, le riprese a colori delle fasi finali dello spettacolo), la presentazione e la descrizione della provinatura dei detenuti (in bianco e nero nella quale il registro narrativo scivola impercettibilmente verso un regime che oscilla fra cosiddetta finzione e realtà) e il racconto vero e proprio delle prove messo in scena attraverso le dinamiche che il Giulio Cesare attiva nella comunità degli attori e detenuti impegnati nelle prove man mano che lo spazio concentrazionario di Rebibbia diventa il teatro del progredire del lavoro della troupe. Questi livelli del film sono poi unificati nella costruzione filmica dei Taviani che si muove con estrema libertà e coraggio confondendo i piani del racconto e oscillando senza tregua fra cosiddetto documentario, ricostruzione, messa in scena e osservazione pura.

Ciò che impressiona del film dei Taviani è l’attenzione attraverso la quale lo spazio del carcere è rielaborato attraverso il testo scespiriano. Cesare deve morire è prima di tutto un film sul lavoro: il lavoro del teatro, il lavoro di un testo rielaborato per raccontare una situazione, il lavoro del linguaggio che si reinventa in un contesto ostile. Poi, inevitabilmente, pone un problema politico già insito nel dramma di Shakespeare ma rielaborato in forme originali attraverso le relazioni che il regime teatrale crea nei rapporti fra i detenuti: la difesa della democrazia e la gestione del potere attraverso le relazioni che il lavoro della politica offre a coloro che l’agiscono o ne sono agiti. Sfruttando al massimo le limitazioni ambientali del carcere, il film attinge a una potente vertigine d’astrazione che restituisce i Taviani al grande movimento di rinnovamento del cinema italiano e non solo del quale sono stati protagonisti con i loro capolavori degli anni Settanta.

Ogni inquadratura del film, soprattutto le parti girate in bianco e nero, si presenta con un’urgenza rara nel cinema italiano d’oggi; un urgenza alla quale ultimamente solo Bellocchio e Martone hanno dato forma e vita in misura convincente e politica al tempo stesso. Senza contare che in un cinema nazionale nel quale i dialetti e i regionalismi sono utilizzati solo in chiave comica, livellando sempre verso il basso, voci, accenti e differenze, Cesare deve morire, con il suo coro di voci napoletane, romane e siciliane ci restituisce il suono di un paese di fatto rimosso dai racconti dei media ufficiali.

Infine, l’attenzione con la quale il montaggio di Roberto Perpignani segue lo svolgersi del racconto, creando una dimensione autenticamente epica, nel senso proprio di Brecht, delle immagini, è il corollario ideale alla tensione impressa dai Taviani alle inquadrature del film.

Tutti questi elementi producono una tensione fortissima del racconto nel quale i volti dei protagonisti sono scolpiti dal taglio della luce e delle ombre. I corpi, infatti, entrano in un fecondo drammatico non solo con gli spazi del carcere, ma anche con le strutture formali del racconto, creando così un effetto di rispecchiamento inquietante e ricco di implicazioni formali e politiche.

Cesare deve morire è uno dei pochi film italiani degli ultimi anni dove il valore dell’inquadratura torna a essere un fatto linguistico centrale e portante. Per questo motivo sorprende la frattura emotiva provocata dal controcampo sui secondini che osservano le prove dei detenuti. Un errore politico, dove si abbandona momentaneamente il campo dei detenuti per spostarsi in quello delle “guardie” grazie al privilegio conferito ai registi dal loro status di uomini liberi, laddove sarebbe stato meglio, se non altro per la durata del film, di stare sempre nel campo dei detenuti e partecipare della loro immobilità (considerato che c’è anche la magnifica evasione immobile data dal poster che ricopre una delle pareti delle celle). Peccato dunque che questa frattura non sia stata nemmeno segnalata con un cambio di regime cromatico, cosa che se non altro avrebbe segnalato il cambiamento di stato. In questo modo diventa difficile stare nella scena dei detenuti e allo stesso tempo osservarla da “fuori”, dal punto di vista privilegiato dei secondini. Un vero e proprio punto morto etico di un film che invece rilancia in maniera inequivocabile la centralità di una posizione etica e morale nel fare cinema.

Cesare deve morire restituisce dunque il cinema dei fratelli Taviani a una libertà che questo sembrava avere perso da molto tempo. Che questa ritrovata vitalità e libertà i Taviani l’abbiano rinnovata a Rebibbia è solo uno dei numerosi meriti di un film coraggioso e necessario.

(7 aprile 2011)