venerdì 15 marzo 2013

"Europa en el espejo italiano"


I risultati delle elezioni svoltesi in Italia il 23 e 24 febbraio scorso hanno provocato una serie di reazioni  stranamente sonore. Molti commentatori, alcuni anche con responsabilità di governo, hanno parlato della minaccia che l’ “ingovernabilità italiana” rappresenta pergli altri europei. Altri, cercando di addolcire i toni, hanno ricordato che sebbene l’Italia sia sempre stato un paese difficile da governare, i politici italiani hanno sempre saputo andare avanti.
E’ innegabile che l’Italia abbia vissuto situazioni molto complesse. Se escludiamo il ventennio fascista, un periodo che per ovvie ragioni non si presta a questo tipo di paragone, l’Italia è il paese che durante il 20° secolo ha visto fallire il maggior numero di legislature e di Governi rispetto a tutti gli altri Stati europei.
La matrice della sua instabilità si è configurata nei primi decenni del secolo scorso, un periodo che di solito viene identificato con il nome di Giovanni Giolitti. L’identificazione stessa ne è sintomatica;  sebbene sia stata la figura politica dominante del suo tempo, Giolitti non riuscì a terminare quasi nessuna delle legislature in cui fu eletto dal Parlamento come primo ministro. Fu un maestro nell’arte della dimissioni per andare avanti al potere.
La sua capacità di cavalcare le numerose tempeste politiche che la storia gli ha riservato lo hanno reso una leggenda. Tuttavia, cio’ non bastò per evitare le due grandi sconfitte che afflissero il tratto discendente della sua carriera politica. La prima fu l’entrata dell’Italia nella I Guerra Mondiale, una decisione a cui si era opposto con tutte le sue forze e che non poté evitare. La seconda fu il trionfo del regime fascista, una catastrofe che segnò definitivamente la fine della sua epoca.
L’Italia moderna, quella che conosciamo oggi, fu costruita allora. L’unità nazionale, raggiunta con determinazione e astuzia da Cavour sul filo del 1860, si limitò a porre le basi politiche di un cambiamento storico la cui penetrazione nella realtà sociale fu lenta. A fine secolo l’Italia era ancora un mosaico eterogeneo di  regioni economicamente divergenti, abitate da popolazioni con costumi e persino lingue differenti.
Quando fu proclamato il Regno d’Italia, nel 1860, il 70% della popolazione era analfabeta. Venti anni dopo l’indice di analfabetismo si attestava ancora al 67%. Formalmente il nuovo Stato era una Monarchia parlamentare, ma alla fine degli anni novanta, su una popolazione che si avvicinava ai 30 milioni, gli elettori non arrivavano a 3 milioni. I grandi passi in avanti che trasformano l’Italia in uno Stato nazionale moderno avvengono all’epoca di Giolitti.
Si basano su una crescita economica sostenuta, orientata verso il commercio con l’estero e centrata in una industrializzazione di taglio classico, con il predominio dell’industria tessile, metallurgica e meccanica presenti in Lombardia ed in Piemonte (sede della dinastia regnante). Includono tra le altre cose una scolarizzazione obbligatoria. O una nuova legge elettorale che instaura il suffragio universale quadruplicando quasi il numero dei votanti. O la costruzione di una rete ferroviaria unificata. Nel 1865, cinque anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Roma è collegata via treno con Napoli ma non con Milano; nel 1905 si può andare in treno non solo da Palermo fino a Roma o Milano, ma fino a Parigi o Vienna.  A questo si aggiunge la creazione della Biennale di Venezia, un’istituzione che stimolerà per tutto il secolo la modernizzazione della vita artistica
Si tratta di cambiamenti che, insieme con lo sviluppo intensivo della stampa e l’ascesa dei grandi sindacati, trasformano profondamente la natura della vita pubblica e permettono all’Italia di svolgere un ruolo di primo piano in Europa.
Queste luci sono accompagnate tuttavia da ombre profonde.  Ho già menzionato l’instabilità politica.  Questa è accompagnata da altre tre ferite persistenti: la corruzione, il clientelismo politico e il consolidamento del crimine organizzato. Le conseguenze saranno nefaste. Il successore storico di Giolitti sarà un leader populista, forgiato nelle gazzarre sindacali dell’industrializzazione del nord, chiamato Benito Mussolini. Nell’epoca confusa del dopoguerra e con l’appoggio di una parte importante dell’opinione pubblica, Mussolini sotterrerà il liberalismo per piantare la prima dittatura europea del Novecento.
Come è stato possibile questo? I grandi cambiamenti storici hanno sempre molteplici cause, ma la principale in questo caso fu una persistente rottura della coesione sociale, una tempesta che non smise di farsi sentire, come rumore di fondo, durante tutto il processo di modernizzazione. Mentre i vincoli della società tradizionale andavano dissolvendosi, lo sviluppo economico alimentava da parte sua una crescita febbrile delle disuguaglianze sociali. E’ vero che il resto d’Europa soffrì in maniera maggiore o minore gli stessi mali; furono loro a creare lo stato d’animo che provocò lo scoppio della guerra.
La specificità del caso italiano fu che, nel contesto di un’unità nazionale ancora recente e fragile, la coscienza delle disuguaglianze sociali si incrociò con quella delle disuguaglianze regionali. Mentre il nord si arricchiva, il sud si impoveriva e la percezione di questa rottura, vissuta come un conflitto di identità collettive, fu propizia alla proliferazione di discorsi populisti di segno differente,  che finirono per avvelenare ed uccidere il progetto liberale.
I commentatori delle ultime elezioni mostrano preoccupazione per la governabilità dell’Italia. Possono stare tranquilli. Dopo tre quarti di secolo di scolarizzazione obbligatoria, e uno stato sociale più o meno operativo ma sempre visibile, la coesione nazionale italiana è oggi incomparabilmente superiore a quella di 100 anni fa. Non sarà l’Italia ad esportare ingovernabilità in Europa. Il pericolo è piuttosto il contrario.
Almeno fino a che il progetto politico europeo continuerà ad essere prigioniero di un modello economico orientato in maniera accanita verso la dissoluzione dello stato sociale e la crescita delle disuguaglianze. E intanto continua a farsi sentire come nell’Italia prefascista, ma nella cassa di risonanza ampliata e molto più cacofonica dell’Unione Europea, un inquietante rumore di fondo che tende ad esprimersi come conflitto di identità collettive tra il nord e il sud.
                                                                       Tomàs Llorens