Esattamente 50 anni fa Martin Luther King
teneva il suo celebre discorso sull’uguaglianza
davanti al Lincoln Memorial (“I have a dream”).
Il ricordo del premio Nobel Stiglitz: "Fu lui che
mi spinse a studiare economia: nello strano
mondo dell'economia allora dominante la
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei
lavoratori".
Ho avuto la fortuna di trovarmi tra la folla a
Ho avuto la fortuna di trovarmi tra la folla a
Washington il giorno in cui il Reverendo
Dottore Martin Luther King Jr. tenne il suo
entusiasmante discorso “I Have a Dream”, il 28
agosto 1963. Avevo vent’anni, appena
diplomato al college e qualche settimana dopo
avrei iniziato gli studi per la laurea in economia
al Massachusetts Institute of Technology.
La sera prima della Marcia su Washington per il
Lavoro e la Libertà ero stato ospite a casa di un
compagno di college, figlio di Arthur J.
Goldberg, giudice associato della Corte
Suprema, che era impegnato a realizzare la
giustizia economica. Chi avrebbe mai
immaginato che, 50 anni dopo, quello stesso
organo, allora apparentemente deciso a dar vita
a un’America più giusta e aperta, sarebbe
diventato lo strumento per mantenere le
diseguaglianze: consentendo alle imprese di
destinare somme pressoché illimitate al fine di
influenzare le campagne politiche, dando a
intendere che il retaggio della discriminazione
elettorale non esiste più e limitando il diritto
dei lavoratori e di altri ricorrenti a denunciare
gli imprenditori e le società per cattiva
condotta?
Il discorso di King evocò in me molte emozioni.
Il discorso di King evocò in me molte emozioni.
Per quanto fossi giovane e con le spalle coperte,
facevo parte di una generazione che si rendeva
conto delle ingiustizie ereditate dal passato e si
impegnava a correggere quei torti. Nato
durante la seconda guerra mondiale, sono
diventato adulto mentre la società americana
era pervasa da cambiamenti poco appariscenti
ma inequivocabili.
In qualità di presidente del consiglio degli
studenti dell’Amherst College, avevo condotto
un gruppo di alunni a sud per partecipare alle
manifestazioni di pressione a favore
dell’integrazione razziale. Non riuscivamo a
capire la violenza di chi voleva mantenere il
vecchio sistema di segregazione. La visita ad un
college riservato ai neri ci aprì gli occhi sulla
disparità di opportunità educative degli
studenti di laggiù rispetto a quelle di cui
godevamo noi, nel nostro college privilegiato.
Era come giocare su un campo mal livellato, ed
era fondamentalmente ingiusto. Si trattava di
un camuffamento dell’idea di sogno americano
con cui eravamo cresciuti e in cui credevamo.
Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa
Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa
per risolvere questi ed altri problemi, così
familiari a uno come me cresciuto a Gary,
nell’Indiana (povertà, disoccupazione
temporanea e permanente, discriminazioni
senza fine ai danni degli afroamericani) che
decisi di diventare un economista.
Ben presto scoprii di essere entrato in una
strana tribù. Erano pochi gli accademici (inclusi
parecchi dei miei insegnanti) che avevano
profondamente a cuore le tematiche che mi
avevano condotto a questa scelta, la maggior
parte non si preoccupava delle diseguaglianze;
la scuola dominante idolatrava (senza averlo
compreso ) Adam Smith, inchinandosi al
miracolo dell’efficienza dell’economia di
mercato. Io pensavo che se quello era il
migliore dei mondi possibili volevo costruire un
mondo diverso in cui vivere.
Nello strano mondo dell’economia la
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei
lavoratori. Un economista della scuola di
Chicago , il premio Nobel Robert E. Lucas Jr.,
avrebbe scritto in seguito: «Tra le tendenze che
nuocciono ad un’economia sana la più seduttiva
e, a mio avviso, la più velenosa, è concentrarsi
sul problema della distribuzione». Un altro
premio Nobel della scuola di Chicago, Gary S.
Becker, tentava di dimostrare che sui mercati
del lavoro realmente competitivi la
discriminazione non poteva esistere. Mentre io
ed altri scrivevamo pubblicazioni per spiegare i
sofismi di queste argomentazioni la sua tesi
trovava orecchie attente.
Come tanti altri, guardando ai 50 anni passati,
non posso che essere colpito dal divario tra le
nostre aspirazioni di allora e i risultati ottenuti.
È vero, un “soffitto di vetro” è stato infranto:
abbiamo un presidente afroamericano.
Ma King capì che la lotta per la giustizia sociale
doveva essere concepita in termini ampi. Non
era solo una battaglia contro la segregazione
razziale, ma per una maggiore eguaglianza e
giustizia per tutti gli americani. Non per nulla
gli organizzatori, Bayard Rustin e A. Philip
Randolph, avevano dato alla manifestazione il
nome di “Marcia su Washington per il Lavoro e
la Libertà”.
Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti
Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti
razziali era stato minato, persino rovesciato, dal
crescere della disparità economica nell’intero
Paese.
La battaglia contro la discriminazione esplicita,
purtroppo, è tutt’altro che terminata: a 50 anni
di distanza dalla Marcia e 45 anni dopo
l’approvazione del Fair Housing Act (che
proibisce la discriminazione nella vendita,
affitto e finanziamento di alloggi ndt) le grandi
banche statunitensi, come la Wells Fargo,
continuano ad attuare discriminazioni in base
alla razza, prendendo di mira nelle loro
predatorie attività di finanziamento i più
vulnerabili dei nostri concittadini. La
discriminazione sul mercato del lavoro è
permeante e profonda.
Dagli studi emerge che i candidati con nomi che
Dagli studi emerge che i candidati con nomi che
evocano origini afroamericane ricevono un
numero minore di convocazioni a colloqui. La
discriminazione assume nuove forme; in molte
città americane le forze dell’ordine agiscono
ancora in base a pregiudizi razziali, ad esempio
con fermi e perquisizioni, che a New York sono
diventati la regola. Il tasso di detenzione in
America è il maggiore del mondo, anche se
finalmente pare che gli Stati a corto di fondi
inizino a capire quanto sia folle, se non
inumano, sprecare tanto capitale umano
attraverso la detenzione di massa. Quasi il 40
per cento dei detenuti sono neri. Questa
tragedia è stata validamente documentata da
Michelle Alexander ed altri giuristi.
I numeri parlano da soli: non è stato colmato
I numeri parlano da soli: non è stato colmato
significativamente il divario tra il reddito degli
afroamericani (o ispanici) e quello degli
americani bianchi negli ultimi 30 anni. Nel
2011, il reddito medio delle famiglie nere era di
40,495 dollari, pari al solo 58 percento del
reddito medio delle famiglie bianche.
Passando dal reddito al patrimonio si riscontra
Passando dal reddito al patrimonio si riscontra
ancora una forte ineguaglianza. Arrivati al 2009
la ricchezza media dei bianchi era venti volte
superiore a quella dei neri. La Grande
recessione del 2007-9 ha colpito
particolarmente gli afroamericani (come
avviene in genere per chi si trova al livello più
basso della scala sociale). Tra il 2005 e il 2009
la loro ricchezza media è diminuita del 53 per
cento, più del triplo rispetto a quella dei
bianchi: un divario record. Ma la cosiddetta
ripresa è stata poco più di una chimera: più del
100 per cento dei guadagni è andato all’un per
cento al vertice della scala sociale, un gruppo in
cui, inutile dirlo, non si annoverano molti
afroamericani.
Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se
Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se
non fosse stata interrotta bruscamente dal
proiettile di un assassino. Trentanovenne al
momento della morte, oggi avrebbe 84 anni.
Probabilmente avrebbe approvato i tentativi del
presidente Obama di riformare la sanità
americana e di tutelare la sicurezza sociale per
gli anziani, i poveri e i disabili, ma è difficile
immaginare che un uomo di tale statura morale
avrebbe guardato all’America di oggi con un
atteggiamento che non fosse di angoscia.
Al di là della retorica sul Paese delle
Al di là della retorica sul Paese delle
opportunità, le prospettive di un giovane
americano dipendono più dal reddito e dal
livello di istruzione dei suoi genitori di quanto
non avvenga in quasi tutti gli altri Paesi
avanzati. Così il retaggio di discriminazione e
mancanza di opportunità educative e lavorative
si perpetua da una generazione all’altra.
Data questa carenza di mobilità, il fatto che
ancora oggi il 65 per cento dei bambini
afroamericani viva in famiglie a basso reddito
non fa presagire bene per il loro futuro e quello
della nazione.
Gli uomini con il solo diploma di scuola
superiore hanno visto diminuire enormemente
il loro reddito reale negli ultimi vent’anni, un
declino che ha interessato a dismisura gli
afroamericani.
La segregazione esplicita su base razziale nelle
La segregazione esplicita su base razziale nelle
scuole è proibita dalla legge ma in realtà la
segregazione nell’istruzione si è accentuata
negli ultimi decenni, come hanno documentato
Gary Orfield ed altri studiosi.
In parte il motivo è che il Paese registra una
maggior segregazione economica. E più
probabile che i bambini neri poveri vivano in
comunità in cui la povertà è concentrata.
Stando ai dati forniti dall’Economic Policy
Institute sono circa il 45% , contro il 12% dei
bambini poveri bianchi.
Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte
Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte
della mia attività accademica e pubblica negli
ultimi decenni – incluso il servizio presso il
Consiglio dei consulenti economici
dell’amministrazione Clinton e, in seguito,
presso la Banca Mondiale, è stata dedicata alla
riduzione della povertà e dell’ineguaglianza.
Spero di aver saputo rispondere all’appello
lanciato da King mezzo secolo fa.
King aveva ragione quando diceva che il
persistere di queste discrepanze è un cancro
nella nostra società, mina la nostra democrazia
e indebolisce la nostra economia. Il suo
messaggio era che le ingiustizie del passato si
potevano evitare. Ma sapeva anche che sognare
non bastava.
Joseph Stiglitz
Fonte: da Repubblica
© The New York Times 2013 (Traduzione di
Emilia Benghi)