giovedì 29 agosto 2013

Martin Luther King e l'attualità del insegnamento:“I have a dream”




Esattamente 50 anni fa Martin Luther King 
teneva il suo celebre discorso sull’uguaglianza 
davanti al Lincoln Memorial (“I have a dream”). 
Il ricordo del premio Nobel Stiglitz: "Fu lui che 
mi spinse a studiare economia: nello strano 
mondo dell'economia allora dominante la 
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei 
lavoratori".



Ho avuto la fortuna di trovarmi tra la folla a 
Washington il giorno in cui il Reverendo 
Dottore Martin Luther King Jr. tenne il suo 
entusiasmante discorso “I Have a Dream”, il 28 
agosto 1963. Avevo vent’anni, appena 
diplomato al college e qualche settimana dopo 
avrei iniziato gli studi per la laurea in economia 
al Massachusetts Institute of Technology.


La sera prima della Marcia su Washington per il 
Lavoro e la Libertà ero stato ospite a casa di un 
compagno di college, figlio di Arthur J. 
Goldberg, giudice associato della Corte 
Suprema, che era impegnato a realizzare la 
giustizia economica. Chi avrebbe mai 
immaginato che, 50 anni dopo, quello stesso 
organo, allora apparentemente deciso a dar vita 
a un’America più giusta e aperta, sarebbe 
diventato lo strumento per mantenere le 
diseguaglianze: consentendo alle imprese di 
destinare somme pressoché illimitate al fine di 
influenzare le campagne politiche, dando a 
intendere che il retaggio della discriminazione 
elettorale non esiste più e limitando il diritto 
dei lavoratori e di altri ricorrenti a denunciare 
gli imprenditori e le società per cattiva 
condotta?

Il discorso di King evocò in me molte emozioni. 
Per quanto fossi giovane e con le spalle coperte, 
facevo parte di una generazione che si rendeva 
conto delle ingiustizie ereditate dal passato e si 
impegnava a correggere quei torti. Nato 
durante la seconda guerra mondiale, sono 
diventato adulto mentre la società americana 
era pervasa da cambiamenti poco appariscenti 
ma inequivocabili.

In qualità di presidente del consiglio degli 
studenti dell’Amherst College, avevo condotto 
un gruppo di alunni a sud per partecipare alle 
manifestazioni di pressione a favore 
dell’integrazione razziale. Non riuscivamo a 
capire la violenza di chi voleva mantenere il 
vecchio sistema di segregazione. La visita ad un 
college riservato ai neri ci aprì gli occhi sulla 
disparità di opportunità educative degli 
studenti di laggiù rispetto a quelle di cui 
godevamo noi, nel nostro college privilegiato. 
Era come giocare su un campo mal livellato, ed 
era fondamentalmente ingiusto. Si trattava di 
un camuffamento dell’idea di sogno americano 
con cui eravamo cresciuti e in cui credevamo.

Fu perché speravo che si potesse fare qualcosa 
per risolvere questi ed altri problemi, così 
familiari a uno come me cresciuto a Gary, 
nell’Indiana (povertà, disoccupazione 
temporanea e permanente, discriminazioni 
senza fine ai danni degli afroamericani) che 
decisi di diventare un economista.

Ben presto scoprii di essere entrato in una 
strana tribù. Erano pochi gli accademici (inclusi 
parecchi dei miei insegnanti) che avevano 
profondamente a cuore le tematiche che mi 
avevano condotto a questa scelta, la maggior 
parte non si preoccupava delle diseguaglianze; 
la scuola dominante idolatrava (senza averlo 
compreso ) Adam Smith, inchinandosi al 
miracolo dell’efficienza dell’economia di 
mercato. Io pensavo che se quello era il 
migliore dei mondi possibili volevo costruire un 
mondo diverso in cui vivere.

Nello strano mondo dell’economia la 
disoccupazione (se esisteva) era colpa dei 
lavoratori. Un economista della scuola di 

Chicago , il premio Nobel Robert E. Lucas Jr., 
avrebbe scritto in seguito: «Tra le tendenze che 
nuocciono ad un’economia sana la più seduttiva 
e, a mio avviso, la più velenosa, è concentrarsi 
sul problema della distribuzione». Un altro 
premio Nobel della scuola di Chicago, Gary S. 
Becker, tentava di dimostrare che sui mercati 
del lavoro realmente competitivi la 
discriminazione non poteva esistere. Mentre io 
ed altri scrivevamo pubblicazioni per spiegare i 
sofismi di queste argomentazioni la sua tesi 
trovava orecchie attente.

Come tanti altri, guardando ai 50 anni passati, 
non posso che essere colpito dal divario tra le 
nostre aspirazioni di allora e i risultati ottenuti.
È vero, un “soffitto di vetro” è stato infranto: 
abbiamo un presidente afroamericano.
Ma King capì che la lotta per la giustizia sociale 
doveva essere concepita in termini ampi. Non 
era solo una battaglia contro la segregazione 
razziale, ma per una maggiore eguaglianza e 
giustizia per tutti gli americani. Non per nulla 
gli organizzatori, Bayard Rustin e A. Philip 
Randolph, avevano dato alla manifestazione il 
nome di “Marcia su Washington per il Lavoro e 
la Libertà”.

Sotto molti aspetti il progresso nei rapporti 
razziali era stato minato, persino rovesciato, dal 
crescere della disparità economica nell’intero 
Paese.
La battaglia contro la discriminazione esplicita, 
purtroppo, è tutt’altro che terminata: a 50 anni 
di distanza dalla Marcia e 45 anni dopo 
l’approvazione del Fair Housing Act (che 
proibisce la discriminazione nella vendita, 
affitto e finanziamento di alloggi ndt) le grandi 
banche statunitensi, come la Wells Fargo, 
continuano ad attuare discriminazioni in base 
alla razza, prendendo di mira nelle loro 
predatorie attività di finanziamento i più 
vulnerabili dei nostri concittadini. La 
discriminazione sul mercato del lavoro è 
permeante e profonda.

Dagli studi emerge che i candidati con nomi che 
evocano origini afroamericane ricevono un 
numero minore di convocazioni a colloqui. La 
discriminazione assume nuove forme; in molte 
città americane le forze dell’ordine agiscono 
ancora in base a pregiudizi razziali, ad esempio 
con fermi e perquisizioni, che a New York sono 
diventati la regola. Il tasso di detenzione in 
America è il maggiore del mondo, anche se 
finalmente pare che gli Stati a corto di fondi 
inizino a capire quanto sia folle, se non 
inumano, sprecare tanto capitale umano 
attraverso la detenzione di massa. Quasi il 40 
per cento dei detenuti sono neri. Questa 
tragedia è stata validamente documentata da 
Michelle Alexander ed altri giuristi.

I numeri parlano da soli: non è stato colmato 
significativamente il divario tra il reddito degli 
afroamericani (o ispanici) e quello degli 
americani bianchi negli ultimi 30 anni. Nel 
2011, il reddito medio delle famiglie nere era di 
40,495 dollari, pari al solo 58 percento del 
reddito medio delle famiglie bianche.

Passando dal reddito al patrimonio si riscontra 
ancora una forte ineguaglianza. Arrivati al 2009 
la ricchezza media dei bianchi era venti volte 
superiore a quella dei neri. La Grande 
recessione del 2007-9 ha colpito 
particolarmente gli afroamericani (come 
avviene in genere per chi si trova al livello più 
basso della scala sociale). Tra il 2005 e il 2009 
la loro ricchezza media è diminuita del 53 per 
cento, più del triplo rispetto a quella dei 
bianchi: un divario record. Ma la cosiddetta 
ripresa è stata poco più di una chimera: più del 
100 per cento dei guadagni è andato all’un per 
cento al vertice della scala sociale, un gruppo in 
cui, inutile dirlo, non si annoverano molti 
afroamericani.

Chissà come si sarebbe svolta la vita di King se 
non fosse stata interrotta bruscamente dal 
proiettile di un assassino. Trentanovenne al 
momento della morte, oggi avrebbe 84 anni. 
Probabilmente avrebbe approvato i tentativi del 
presidente Obama di riformare la sanità 
americana e di tutelare la sicurezza sociale per 
gli anziani, i poveri e i disabili, ma è difficile 
immaginare che un uomo di tale statura morale 
avrebbe guardato all’America di oggi con un 
atteggiamento che non fosse di angoscia.

Al di là della retorica sul Paese delle 
opportunità, le prospettive di un giovane 
americano dipendono più dal reddito e dal 
livello di istruzione dei suoi genitori di quanto 
non avvenga in quasi tutti gli altri Paesi 
avanzati. Così il retaggio di discriminazione e 
mancanza di opportunità educative e lavorative 
si perpetua da una generazione all’altra.
Data questa carenza di mobilità, il fatto che 
ancora oggi il 65 per cento dei bambini 
afroamericani viva in famiglie a basso reddito 
non fa presagire bene per il loro futuro e quello 
della nazione.
Gli uomini con il solo diploma di scuola 
superiore hanno visto diminuire enormemente 
il loro reddito reale negli ultimi vent’anni, un 
declino che ha interessato a dismisura gli 
afroamericani.

La segregazione esplicita su base razziale nelle 
scuole è proibita dalla legge ma in realtà la 
segregazione nell’istruzione si è accentuata 
negli ultimi decenni, come hanno documentato 
Gary Orfield ed altri studiosi.
In parte il motivo è che il Paese registra una 
maggior segregazione economica. E più 
probabile che i bambini neri poveri vivano in 
comunità in cui la povertà è concentrata. 
Stando ai dati forniti dall’Economic Policy 
Institute sono circa il 45% , contro il 12% dei 
bambini poveri bianchi.

Quest’anno ho compiuto i settanta. Gran parte 
della mia attività accademica e pubblica negli 
ultimi decenni – incluso il servizio presso il 
Consiglio dei consulenti economici 
dell’amministrazione Clinton e, in seguito, 
presso la Banca Mondiale, è stata dedicata alla 
riduzione della povertà e dell’ineguaglianza. 
Spero di aver saputo rispondere all’appello 
lanciato da King mezzo secolo fa.
King aveva ragione quando diceva che il 
persistere di queste discrepanze è un cancro 
nella nostra società, mina la nostra democrazia 
e indebolisce la nostra economia. Il suo 
messaggio era che le ingiustizie del passato si 
potevano evitare. Ma sapeva anche che sognare 
non bastava.

                               Joseph Stiglitz



Fonte: da Repubblica




 © The New York Times 2013 (Traduzione di 
Emilia Benghi)