mercoledì 4 luglio 2012

Vittorini: La Letteratura, la vita


 
È salito sul podio per dire BASTA alla dittatura fascista, alle devastazioni della guerra, alle sterili proteste, all’aristocratica separatezza degli intellettuali, alle distaccate contemplazioni dalla “turris eburnea”.
 Attraverso gli interrogativi nascosti tra le righe di pagine fortemente sintetiche e dense di informazioni, ha annotato le aspettative di profonda rigenerazione nate dalla Resistenza e riconosciuto la grande valenza formativa della storia letteraria che, attraverso collegamenti sincronici e diacronici, è un veicolo delle tante visioni del mondo succedutesi nel tempo, vettore incisivo in una società dominata dalle apparenze e dalla visibilità.
Vittorini, figura centrale della cultura italiana, protagonista attivo, fra gli anni Trenta e Sessanta, di tutti i suoi momenti più vivi come scrittore e, soprattutto, co me instancabile organizzatore di cultura, in questo grandissimo classico di ieri, di oggi e di domani, ha denunziato le tante lacerazioni che non avevano saputo con trastare le barbarie né evitare l’apocalisse bellica … “I morti più di bambini che di soldati; le macerie di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo” (Polemica Vittorini- Togliatti, 1945) …  Non si poteva più delegare l’azione po litica e sociale “a Cesare”, bisognava agire ed essere “organici” al le forze politiche che si adoperavano per questa trasformazione.
CONVERSAZIONE IN SICILIA, uno dei più incisivi mausolei della letteratura italiana, a scuola è una presenza imprescindibile, un’eco viva che, in 49 capitoli, spinge a ritrovare la luce di quei valori, quali la libertà di coscienza e la capacità di autodeterminarsi, per i quali ancora oggi si combatte … 
Chi o cosa rappresenta il centro focale del romanzo pubblicato nel 1941?
Un intellettuale che, pur essendo in preda ad “astratti furori, astratti, non eroici, non vivi”, è immerso nella “quiete” della “non speranza”?
L’attentato all’essenza stessa dell’uomo provocato dal clima plumbeo degli ultimi anni del Fascismo?
Un’allegoria con cui l’autore, per non incorrere nella censura del regime mussoliniano, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste?
Una metafora con tante chiavi di lettura affidate a personaggi e dialoghi che hanno un ruolo di sempiterna attualità?
La ricerca implicita di soluzioni atte a salvare il “mondo bello, ma molto offeso”?
La percezione di “un genere umano perduto che non ha febbre di fare qualcosa in contrario” (Vittorini)?
La molteplicità di temi e di significati fanno sì che il romanzo si codifichi come documento di alto sapore gnomico, pregno di significati politici su cui soffermarsi, su cui riflettere e far riflettere i giovani studenti, i quali, adeguatamente guidati, potranno introiettare le allusioni criptiche che l’au todidatta dalla raffinata cultura trasmette.
 Il nucleo fondante di questo specchio rinfrangente del 1939, con parenesi di grande respiro che fanno luce sui nodi problematici dell’epoca di riferimento e sulle incognite a essi correlate, risponde all’esigenza di ridar linfa vitale a un’umanità fiera “pronta per altri doveri”, nella coscienza che l’uomo perda la propria dignità quando è schiacciato e perseguitato.
L’opera, raccontando la condizione spirituale di un trentenne trapiantato a Milano, rimanda a quella di tutti gli intellettuali che, come lo scrittore, maturavano la consapevolezza della difficoltà dell’azione negli anni della Guerra Civile spagnola, mentre il regime cambiava volto; appariva chiaro, infatti, che stavano per essere deluse le aspettative di chi aveva aderito al cosiddetto “Fascismo di sinistra”, credendo nella possibilità di una rivolta a sfondo popolare contro il conformismo borghese.
La crisi determinata dal conflitto, che aveva fatto cogliere la vera natura della dittatura, scatena nell’autore una maturazione ideologica e lo spinge a generose pro teste in attività clandestine di dissenso alla dittatura. 
Tali reazioni filtrano continuamente dalle parole che aiutano a ritrovare in esse l’uomo-Vittorini, anche se l’identità del viaggiatore è incerta e non si è di fronte a un’autobiografia; l’autore auto-omodiegetico fa continuamente capolino tra le righe e, servendosi delle voci dei personaggi, introduce situazioni e idee proprie. 
Viaggiare non è, per lui, solo un’occasione per registrare nuove sensazioni, ma il ponte per recuperare una dimensione umana e, di conseguenza, la propria identità.
 In qualsiasi opera d’arte, appunto, chi scrive, intaglia, dipinge, lascia una qualche inconfondibile traccia del suo privato, immettendovi il suo stato d’animo, le sue aspirazioni, le sue angosce, le sue ansie, i suoi problemi, provenienti non solo dalla sua sfera cosciente, ma, soprattutto, dal suo inconscio, con quelle note affettive che giacciono dentro di sé, ma di cui non ha un’immediata percezione.
Il romanzo, che prende avvio dalla Stazione di Bologna, è ambientato in Sicilia, una terra misera e arcaica “è solo per caso Sicilia; perché il nome Sicilia gli suonava meglio del nome Persia o Venezuela” (Vittorini).
 L’autore non si sofferma su descrizioni naturali e preferisce puntellare l’ambiente con dei simboli che conferiscono al libro un tono oracolare e sapienziale, di rivelazione di verità essenziali e assolute, anche se egli stesso, come ulteriore prova del proprio coinvolgimento emotivo, nell’edizione del 1953, ha lasciato un nostos fotografico dei luoghi stessi del suo romanzo, di cui l’Università di Catania ha curato la ristampa anastatica per Rizzoli. 
Vi si ritrovano quasi 200 fotografie che, arricchite da mappe geografiche, cartoline postali, illustrazioni di quadri antichi e di pupi siciliani o altri pezzi recuperati, testimoniano il lungo tragitto spirituale di Silvestro; un’immagine, infatti, sebbene opponga resistenza alle ferree regole della grammatica verbale e sia incapace di rappresentare gli sviluppi tematici o le dinamiche narrative di qualsiasi storia, risulta molto efficace “per la rappresentazione grafica delle idee e la sua suggestione è tanto più efficace quanto più riesce a essere documento che visibilmente sottolinea l’informazione; le figurazioni accortamente collocate, nell’ingenua convinzione che venga evitato ogni processo di manipolazione, influenzano il lettore più di un lungo articolo perché viene attribuito a esse un carattere di obiettività pressoché assoluta e danno concretezza storica al fatto narrato.
“Scrittura e fotografia, così, anche se viaggiano su due piste distinte, mantengono un dialogo aperto e continuativo, in vista di un fine comune; la pagina scritta non ne risente, anzi, vede accrescere la sua potenza espressiva, come le ombre si congiungono ai corpi di cui sono le prosecuzioni.” (Pierfrancesco Frillici, La “Conversazione” fotografica di Elio Vittorini, www.artribune.com).
Silvestro Ferrauto, quando riceve la lettera con cui il padre gli annunzia di aver lasciato la moglie per andare a Venezia con un’altra donna, si decide a tornare al suo paese in coincidenza dell’onomastico della madre. 
L’io narrante, così, si trova, su un treno che lo riporta nella natia Sicilia, da cui era partito quindici anni prima e, nei tre giorni di permanenza, è accarezzato dai ricordi che affiorano in lui, odori, colori, sapori prendono corpo in montagne brulle, zolfo, fichidindia, aringhe, bracieri di rame. 
Il passato felice vivo nella sua memoria naufraga, però, nelle discussioni lente e ripetitive dal tono semplice e quasi “distaccato” di Concezione che gli ricorda la miseria in cui erano vissuti.
Nell’isola, in cui “nessuno ha più coltelli da affilare”, il giovane accompagna la madre che, da infermiera, non si lascia abbattere dall’abbandono del coniuge e si adopera per curare i malati del paese, avvelenati da malaria, tisi ed endemica povertà, nella segreta speranza di superare il suo stato di malessere.
 Nel suo giro quotidiano, visita delle case che sembrano delle grotte, in cui viene sempre circondato di attenzioni, anche se non può vedere gli infermi a causa del buio in cui essi vivono; davanti alle natiche dei pazienti, ripercorre la propria infanzia in un viaggio iniziatico intessuto da conversazioni sulla miseria e sul significato della malattia che lasciano emergere la realtà dell’indigenza, dell’angoscia e della morte, nella demistificante certezza che esse non porteranno ad alcuna svolta, né al bisogno di rivolgimento interiore, ma solo al proprio girovagare solitario.
Il Primo capitolo dell’opera miliare ricalca movenze montaliane, con l’espresso riferimento all’inutilità di “chiedere la parola” rivelatrice (Montale, Non chiederci la parola, 1923); il “capo chino”, l’impotente e silenziosa protesta di fronte a “giornali squillanti”, l’inerzia di fronte ai “massacri sui manifesti”, il silenzio assoluto persino con gli “amici” o, addirittura, con “una ragazza o moglie” e, ancora, “le scarpe rotte” ribadiscono con forza il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Montale, Non chiederci la parola,1923) da opporre a un regime che, servendosi dei tanti “servi volontari” (Sciascia, Porte aperte, 1987), ha tentato di annientare l’uomo, spegnendone le scintille vitali.
L’opera d’arte, in tal senso, pare associarsi al “Languore” (Poesie, 1884) di Verlaine, ricordando lo smarrimento del poeta francese, che, di fronte al dominante “male di vivere”, leit -motiv del secolo, assume su di sé tutte le caratteristiche negative del periodo storico vissuto dalla sua generazione, caratterizzato da debolezza, corruzione, incapacità di fronteggiare i pericoli della realtà, passività nei confronti dei drammatici eventi della storia.
Dallo scorrere delle pagine, poi, si colgono principi che, se ribaditi in tutto il romanzo, trovano la loro più incisiva rappresentazione nelle riflessioni di estrema concentrazione lirica del trentacinquesimo capitolo. In queste pagine si assiste all’incontro particolarmente costruttivo tra Silvestro, da un lato, e i personaggi cardine dell’ultima parte, soffocati “dallo stesso dolore per l’umanità” e portatori di un messaggio di ribellione; la connotazione paradigmatica di questi ultimi è molto chiara.
L’arrotino CALOGERO, che vorrebbe agitare il popolo con “lame e coltelli”, resta deluso perché tutti “fanno finta di niente di fronte alle violenze”, divenendo metafora dell’ideologia marxista e, con la sua istanza rivoluzionaria, prefigura la condizione di quanti, pur in situazioni difficili e insopportabili, scelgono di opporsi a ogni forma di prepotenza; il mercante di panni PORFIRIO, che disegna la cultura idealistica sempre pronta a schiacciare l’uomo con la promessa di un aldilà consolatore, predica la necessità dell’ “acqua viva”; L’UOMO EZECHIELE, “i cui occhi madidi sembrano implorare pietà per il mondo offeso”, veicola la filosofia consolatoria e, pur con la demistificante “quiete nella non speranza”, fa percepire agli studenti il palpito di loro cuori in tempesta e la forza di andare avanti. Il sellaio, in particolare, dà lezioni di vita perchè “soffre, ma ha il coraggio di denunziare tutte le offese e tutte le facce provocatorie che ridono per gli oltraggi compiuti e da compiere”.
340 pagine (Bur, 1986) coinvolgenti e appassionanti, fino alla conclusione che lascia il lettore pensoso di fronte ai tanti interrogativi … Silvestro annunzia alla madre che ripartirà in giornata, esce e piange davanti al monumento ai caduti per ricordare il fratello Liborio … Poi … Cosa rappresenta il suo incontro surreale e inverosimile con tutti i personaggi che hanno puntellato il romanzo? Chi è l’uomo dai capelli bianchi che piange nascondendosi il volto tra le mani mentre Concezione gli sta lavando i piedi? E’ il padre? … Improvvisamente invecchiato? … Sì, il figlio deve tornare a Milano, avvolto da e nel silenzio, la sua mente ha bisogno di riposare e di cercare il filo che accomuni le varie esperienze in questo percorso senza coordinate temporali ben precise, in un tempo della storia che è spesso minore del tempo del discorso, … solo tre giorni dall’arrivo alla partenza? … e tale struttura narrativa è innanzitutto evidente nei lunghissimi dialoghi, estenuanti e ripetitivi, tra i personaggi che perseverano nel ripetere poche frasi intramezzate da brevi esclamazioni sulla tecnica dell’anafora martellante.
 Nel sottofondo rimangono le parole dell’uomo Ezechiele che, “come un eremita antico, trascorre i suoi giorni nel cuore della terra per scrivere non solo la storia del mondo offeso, ma anche di tutte le facce canzonatorie che ridono per le offese compiute e da compiere” nel tentativo di far sentire l’esigenza di un confronto costruttivo.
CONVERSAZIONE IN SICILIA, in sostanza, dimostra che IL MESSAGGIO LETTERARIO è reale strumento di crescita, a patto che INSEGNI agli studenti “a rifiutare una cultura pronta a consolare nelle sofferenze o rinchiusa nella torre d’avorio e, piuttosto, li FACCIA PROPENDERE per una formazione che le combatta e le elimini, che LI SPINGA a orientarsi verso opere che potenzino i princìpi operativi dell’azione politica”, a contestare chi pretende di coartare le coscienze o si riduca a “suonare il piffero per la rivoluzione” (Vittorini, Polemica Vittorini-Togliatti, 1945), LI EDUCHI a esprimersi liberamente in forma critica verso una pubblicazione e LI CONVINCA a tener stretto “il punteruolo” per trovare strade sempre nuove verso la vita. Stigmatizzare i vari “Coi Baffi e Senza Baffi”, che offendono la dignità di tutti i prevaricati di ogni tempo e ogni luogo, è dovere morale di ogni cittadino per uscire dalla “selva oscura”, per non demordere, per non rimanere inermi nei confronti della storia e impotenti di fronte ai suoi massacri.


                                                                         Matilde Perriera