Il dibattito sulle sorti della sinistra o
autodefinendosi tale era finora insabbiato sotto
le speculazioni attorno alle quotidiane
interviste di Matteo Renzi o le proposte, più
facete che serie, avanzate da alcuni esponenti di
Sel, di congressi paralleli e convergenti fra
grandi e piccole forze di una coalizione, Italia
Bene Comune, che dopo avere perso di fatto le
elezioni si è trovata, senza ancora avere ben
compreso il perché, divisa fra governo e
opposizione.
Essendo il primo pessimo oltre
l’immaginabile, mentre del tutto inadeguata la
seconda, se non altro per mancanza di referenti
e di insediamento sociali.
D’altro canto, dopo un primo sbandamento, la
visibilità dell’opposizione nelle istituzioni spetta
indubbiamente al Movimento 5 stelle che
giustamente ha imparato presto ad usare tutte
le armi di quello che una volta si chiamava il
filibustering parlamentare lungamente
praticato durante la cosiddetta prima
repubblica dalle forze di opposizione di sinistra
e di destra.
Siamo cioè di fronte ad un paradosso: il
Movimento 5 stelle, dato precipitosamente per
morto nelle recentissime elezioni
amministrative, riprende fiato proprio in e
grazie a quel parlamento che a parole Grillo
dichiara di disprezzare tanto. Anche se questo
non basta certo a frenare l’astensionismo, che
dilaga anche tra i ceti “forti” orfani anch’essi di
una qualche rappresentanza politica solida e
affidabile, costretti quindi a oscillare di elezione
in elezione tra il voto occasionale e il non voto.
Malgrado che questo quadro deprimente sia
quello assolutamente prevalente, si possono
manifestare fatti e parole in controtendenza.
Quando succede non bisogna perdere
l’occasione per tentare, attraverso questi, di
rivivificare una sinistra d’alternativa che pare
anch’essa “in sonno”.
Mi riferisco ad esempio all’esito di un’elezione
paradigmatica, quella di Messina, su cui così
poco si è ragionato. Ed è un peccato perché non
si tratta di una tarda propaggine dei successi
elettorali atipici - alcuni già un po’ ingialliti –
come quelli di Milano, di Genova, di Cagliari o
di Napoli, ma di un risultato nuovo e originale,
accaduto in una città di non trascurabili
dimensioni e con una tradizione difficile alle
spalle, costruito completamente al di fuori del
quadro politico dato e fondato sulla capacità di
aggregazione dei movimenti, delle loro nuove
pratiche di democrazia diretta, o, meglio,
deliberativa e delle intelligenze politiche
presenti al loro interno.
Naturalmente una vittoria elettorale al
ballottaggio non permette
di vivere di rendita neanche per un minuto.
Sarà quindi interessante seguire l’esperienza
del sindaco Accorinti e della sua Giunta e
costruire attorno ad essa una rete di solidarietà,
di simpatia e di partecipazione come conviene
fare nei confronti di un’esperienza pilota
particolarmente significativa.
Sull’altro lato, quello del dibattito vero è
proprio, vorrei qui ricordare – non per dovere
di ospitalità, ma per l’effettiva importanza che
ha avuto - in primo luogo la discussione
promossa da un supplemento all’ultimo numero di Micromega. Si è trattato come è
noto di una discussione a cinque, fra Maurizio
Landini, Marco Revelli, Stefano Rodotà,
Gustavo Zagrebelsky e Paolo Flores d’Arcais cui
si deve il merito principale dell’iniziativa. Come
quest’ultimo riconosce nelle pagine conclusive
del libretto (Il futuro dell’altrapolitica), l’esito
della discussione non è stato positivo: “Sembra
proprio che dovremo aspettare una futura e
imprevedibile congiunzione astrale – scrive
Paolo Flores d’Arcais – per dare vita ad un
nuovo soggetto”. Per quanto quest’ultimo sia
messo tra molte virgolette, di questo si tratta.
Della costruzione di una nuova soggettività
politica della sinistra in connessione con lo
sviluppo della sinistra diffusa nella società.
Obiettivo in quel caso fallito, forse anche perché
si chiedeva troppo ad alcuni interlocutori, già
sovraccarichi di altre responsabilità che sarebbe
un delitto abbandonare.
Tuttavia non è stato un tentativo inutile. Mi
sentirei di correggere un poco il pessimismo di
Flores d’Arcais. Infatti nei giorni successivi il
dibattito ha ripreso forza e nuovi protagonismi.
Innanzitutto vi è stato un articolo di Marco
Revelli sul Manifesto che, in coerenza con
quanto affermato nella discussione di
Micromega, ribadisce l’insufficienza di una
azione dal “basso” e della necessità di un ente
“catalizzatore”, ovvero “di qualcuno – un
gruppo di donne e di uomini – che dall’’alto’ dia
un segnale con pochi semplici denominatori
comuni”, dalla difesa intransigente della
Costituzione, al primato del lavoro, passando
per la difesa dei beni comuni, per imporre
all’Europa un cambio radicale della sua politica
economica e al nostro paese una bonifica
politica e morale.
Un compito tanto più urgente se si registra che
anche Casaleggio, il guru di Grillo, seguito
dall’insospettabile ministro Del Rio – quali
novelli J.G. Ballard ( il famoso scrittore inglese
scomparso pochi anni fa, autore di Crash) –
prevedono rivolte sociali per il prossimo
autunno. Per la verità c’è solo da stupirsi che
non ci siano state finora.
Ma, se così accadrà,
queste rischiano di consumarsi in esplosioni
isolate se non incrociano almeno un abbozzo di
forza alternativa dotata di un programma, di
una ferma determinazione per un radicale
cambiamento e di coraggio politico, dote
completamente passata nel dimenticatoio.
Poco dopo anche da Sel si è alzata qualche voce.
Per la precisazione da due indipendenti del
gruppo parlamentare, Giorgio Airaudo e Giulio
Marcon che in un articolo hanno posto la
questione della totale inadeguatezza dello stato
della sinistra a fronte del deperimento della
situazione del nostro paese e della necessità di
dare vita a un “campo del cambiamento” capace
di impegnare le forze della sinistra attorno a un
numero limitato ma enormemente significativo
di questioni, quali l’uscita dalla crisi su
posizioni antiliberiste; la costruzione di un
blocco sociale postliberista sulla base di nuovi
tipi di relazioni; la promozione su questi temi di
“cento” iniziative pubbliche; una campagna per
le elezioni europee per un’altra Europa.
Ce ne è a sufficienza, peraltro mi sono fermato
solo ad alcuni esempi, per non dare per defunto
il dibattito aperto da Micromega.
Una discussione di questo genere non può
venire isolata in un resort, ma tanto meno
lasciata all’equivoco delle primarie o delle tante
promesse di cantieri della sinistra che mai si
aprono e, nei pochi casi in cui lo fanno,
tantomeno si chiudono con un qualcosa di fatto.
C’è bisogno di un’assunzione precisa di
responsabilità di quel quadro pensante, diffuso
e privo di contorni partitici, ma pure esistente e
resistente, che è variamente intrecciato con
esperienze di movimento, di ricerca
intellettuale, di militanza sindacale, di
costruzione di un nuovo senso di sinistra nella
società.
Non saprei dire quale è il numero delle
questioni da porre per dare concretezza ad una
simile discussione. Probabilmente qualcuna di
più di quelle cui fanno riferimento Revelli,
Airaudo e Marcon, anche se già costituirebbero
un ottimo punto di avvio. Ciò che conta infatti è
il punto di partenza e la linea di direzione verso
un possibile approdo, pur da verificare e
rettificare quanto si vuole e quando si rende
necessario strada facendo.
E’ quindi inevitabile introdurre da subito alcuni
elementi per incanalare e guidare questa
discussione. La premessa non può non essere
altro che la constatazione della morte
dell’attuale centrosinistra.
Il suo rapido
deperimento è cominciato con il governo Monti,
contando già su solide premesse; è stata
ispirato, sostanziato e guidato dalle scelte della
nuova governance europea, il cosiddetto “pilota
automatico”, secondo le famose parole di
Draghi, che rendeva del tutto indifferenti i
colori dei singoli governi; è approdato a
quell’’odore marcio del compromesso” di cui ha
scritto Barbara Spinelli, che è tale proprio
perché a lungo covato. Solo il “non esito”,
questo non del tutto prevedibile, delle ultime
elezioni politiche ha fatto sì che Sel,
contrariamente alla retorica governista
sviluppatasi al suo interno particolarmente
negli ultimi tempi, si trovasse all’opposizione e
invece il Pdl per intero al governo. Il tutto è
avvenuto senza che nella prima venisse
avvertita la necessità di un riposizionamento
strategico, (per questo non tanto la data, quanto
il senso e l’asse del prossimo congresso sono
così incerti) mentre per il secondo si è trattato
di ribadire una pratica di continuità seppure in
tono minore di occupazione del potere.
Ma la Grosse Koalition non è un’invenzione
dell’ultima ora. Parafrasando Giulio Bollati –
che in quel caso parlava del fascismo, che è cosa
diversissima da ciò cui abbiamo a che fare, per
dire che questo non era improvviso né
imprevedibile - si potrebbe oggi affermare che
“il fenomeno può essere condensato in una
formula: nulla è (nelle larghe intese) quod prius
non fuerit nella società, nella cultura, nella
politica italiana, tranne che (le larghe intese)
stesse” da almeno 25 anni a questa parte. Infatti
questa forma di governo a-democratica, prima
ancora che tecnocratica, è la più congrua al
capitalismo finanziario nel quadro europeo, con
particolare evidenza dall’inizio della grande
crisi, cioè dal 2007 in poi.
Il Pd è diventato il pivot di questa politica. Sta
assumendo le caratteristiche che i sociologi che
studiavamo un tempo avrebbero definito di
partito “pigliatutti” o catch all, se più piace la
formula inglese. Un partito cioè che si pone al
centro del quadro politico per cercare di
afferrare l’inafferrabile centro della società che
nel frattempo si è frantumata e polarizzata, al
fine di rendersi garante di una presunta
“pacificazione” e di una assai più concreta
politica di austerità.
Non vedo successi nel proporsi di modificare il
Pd dall’interno. Oltretutto tutti – dai giovani
turchi ai redivivi Bettini – lavorano per Renzi e
solo la bulimia dichiaratoria e l’impazienza
della vittoria di quest’ultimo lo può far perdere.
Né ha senso, se mai ne ha avuto, attenderne la
possibile implosione. Tante sono ormai le
occasioni nelle quali sarebbe potuta accadere e
non è avvenuta. Segno che vi è all’interno di
quel partito un collante, dato da un complesso e
non banale sistema di potere, che lo rende
abbastanza elastico agli urti interni ed esterni.
Il “campo del cambiamento” va organizzato
fuori, in alternativa e a volte contro il Pd, o
quantomeno alle scelte dei suoi gruppi
dirigenti. La caduta del governo Letta – che
comporta la sconfitta del Pd – è il primo
compito di un’opposizione di sinistra che si
rispetti e non può essere messo in ombra da
calcoli congressuali. Se entro l’anno si giungesse
a una grande manifestazione nazionale contro il
governo, capace di raccogliere tutte le forze che
ad esso si oppongono, quale esito di un vasto
lavoro nei territori, questo sarebbe l’unico
modo per cambiare tutte le agende politiche e
forse riaprirebbe, pur tra terribili incertezze e
contrasti, un nuovo percorso democratico.
Coerentemente lo sbocco europeo deve essere
ricercato nel campo della sinistra di alternativa
su scala continentale.
Serve una campagna di
massa, capace – e non sarebbe difficile – di
unire i temi della concreta sofferenza sociale
con le cause che la provocano e che stanno nelle
politiche di austerità di Bruxelles. E’ possibile
condurla senza che si precipiti immediatamente
nella divisione fra chi vuole stare nell’euro e chi
no. Anche nel primo caso bisognerebbe – ed è
esattamente la cosa più urgente da fare – unire
i paesi in difficoltà e le sinistre di alternativa
per imporre alla Germania – pena la fine
dell’Eurozona che altrimenti imploderebbe in
ogni caso – un cambiamento radicale di
politiche e la revisione dei trattati europei da
Maastricht all’insostenibile fiscal compact.
Lo stesso Wolfgang Munchau sul Financial
Times ha sostenuto che per salvare l’euro
bisogna che i
paesi come l’Italia minaccino concretamente di
uscirne. A una battaglia come questa non si
potrebbe però poi dare una rappresentanza
politica scelta nell’ambito di quel socialismo
europeo che, a partire dal paese tedesco, si
attrezza a essere garante e continuatore di
quelle politiche di austerità comunque
mascherate..
Insomma l’invito alla discussione progettuale,
alla costruzione contemporanea di pensiero
alternativo e di elementi di nuovo blocco
sociale, all’esaltazione del ruolo della sinistra
diffusa e dei movimenti con la contemporanea
valorizzazione della altrettanto diffusa
intellettualità pensante, vanno raccolti da subito
senza timidezza o pretese di primogenitura, ma
avendo subito il coraggio di produrre scelte
politiche di campo nette e riconoscibili. Senza
di ciò non è possibile rispondere positivamente,
o quantomeno cercare di farlo, a quella
“dirimente assenza” che, nelle parole di Flores
d’Arcais, è “la condizione soggettiva, la
mancanza della volontà delle forze esistenti
(movimenti, associazioni, personalità) di unirsi
in una massa critica sufficiente”.
Alfonso Gianni
Fonte: Micromega
autodefinendosi tale era finora insabbiato sotto
le speculazioni attorno alle quotidiane
interviste di Matteo Renzi o le proposte, più
facete che serie, avanzate da alcuni esponenti di
Sel, di congressi paralleli e convergenti fra
grandi e piccole forze di una coalizione, Italia
Bene Comune, che dopo avere perso di fatto le
elezioni si è trovata, senza ancora avere ben
compreso il perché, divisa fra governo e
opposizione.
Essendo il primo pessimo oltre
l’immaginabile, mentre del tutto inadeguata la
seconda, se non altro per mancanza di referenti
e di insediamento sociali.
D’altro canto, dopo un primo sbandamento, la
visibilità dell’opposizione nelle istituzioni spetta
indubbiamente al Movimento 5 stelle che
giustamente ha imparato presto ad usare tutte
le armi di quello che una volta si chiamava il
filibustering parlamentare lungamente
praticato durante la cosiddetta prima
repubblica dalle forze di opposizione di sinistra
e di destra.
Siamo cioè di fronte ad un paradosso: il
Movimento 5 stelle, dato precipitosamente per
morto nelle recentissime elezioni
amministrative, riprende fiato proprio in e
grazie a quel parlamento che a parole Grillo
dichiara di disprezzare tanto. Anche se questo
non basta certo a frenare l’astensionismo, che
dilaga anche tra i ceti “forti” orfani anch’essi di
una qualche rappresentanza politica solida e
affidabile, costretti quindi a oscillare di elezione
in elezione tra il voto occasionale e il non voto.
Malgrado che questo quadro deprimente sia
quello assolutamente prevalente, si possono
manifestare fatti e parole in controtendenza.
Quando succede non bisogna perdere
l’occasione per tentare, attraverso questi, di
rivivificare una sinistra d’alternativa che pare
anch’essa “in sonno”.
Mi riferisco ad esempio all’esito di un’elezione
paradigmatica, quella di Messina, su cui così
poco si è ragionato. Ed è un peccato perché non
si tratta di una tarda propaggine dei successi
elettorali atipici - alcuni già un po’ ingialliti –
come quelli di Milano, di Genova, di Cagliari o
di Napoli, ma di un risultato nuovo e originale,
accaduto in una città di non trascurabili
dimensioni e con una tradizione difficile alle
spalle, costruito completamente al di fuori del
quadro politico dato e fondato sulla capacità di
aggregazione dei movimenti, delle loro nuove
pratiche di democrazia diretta, o, meglio,
deliberativa e delle intelligenze politiche
presenti al loro interno.
Naturalmente una vittoria elettorale al
ballottaggio non permette
di vivere di rendita neanche per un minuto.
Sarà quindi interessante seguire l’esperienza
del sindaco Accorinti e della sua Giunta e
costruire attorno ad essa una rete di solidarietà,
di simpatia e di partecipazione come conviene
fare nei confronti di un’esperienza pilota
particolarmente significativa.
Sull’altro lato, quello del dibattito vero è
proprio, vorrei qui ricordare – non per dovere
di ospitalità, ma per l’effettiva importanza che
ha avuto - in primo luogo la discussione
promossa da un supplemento all’ultimo numero di Micromega. Si è trattato come è
noto di una discussione a cinque, fra Maurizio
Landini, Marco Revelli, Stefano Rodotà,
Gustavo Zagrebelsky e Paolo Flores d’Arcais cui
si deve il merito principale dell’iniziativa. Come
quest’ultimo riconosce nelle pagine conclusive
del libretto (Il futuro dell’altrapolitica), l’esito
della discussione non è stato positivo: “Sembra
proprio che dovremo aspettare una futura e
imprevedibile congiunzione astrale – scrive
Paolo Flores d’Arcais – per dare vita ad un
nuovo soggetto”. Per quanto quest’ultimo sia
messo tra molte virgolette, di questo si tratta.
Della costruzione di una nuova soggettività
politica della sinistra in connessione con lo
sviluppo della sinistra diffusa nella società.
Obiettivo in quel caso fallito, forse anche perché
si chiedeva troppo ad alcuni interlocutori, già
sovraccarichi di altre responsabilità che sarebbe
un delitto abbandonare.
Tuttavia non è stato un tentativo inutile. Mi
sentirei di correggere un poco il pessimismo di
Flores d’Arcais. Infatti nei giorni successivi il
dibattito ha ripreso forza e nuovi protagonismi.
Innanzitutto vi è stato un articolo di Marco
Revelli sul Manifesto che, in coerenza con
quanto affermato nella discussione di
Micromega, ribadisce l’insufficienza di una
azione dal “basso” e della necessità di un ente
“catalizzatore”, ovvero “di qualcuno – un
gruppo di donne e di uomini – che dall’’alto’ dia
un segnale con pochi semplici denominatori
comuni”, dalla difesa intransigente della
Costituzione, al primato del lavoro, passando
per la difesa dei beni comuni, per imporre
all’Europa un cambio radicale della sua politica
economica e al nostro paese una bonifica
politica e morale.
Un compito tanto più urgente se si registra che
anche Casaleggio, il guru di Grillo, seguito
dall’insospettabile ministro Del Rio – quali
novelli J.G. Ballard ( il famoso scrittore inglese
scomparso pochi anni fa, autore di Crash) –
prevedono rivolte sociali per il prossimo
autunno. Per la verità c’è solo da stupirsi che
non ci siano state finora.
Ma, se così accadrà,
queste rischiano di consumarsi in esplosioni
isolate se non incrociano almeno un abbozzo di
forza alternativa dotata di un programma, di
una ferma determinazione per un radicale
cambiamento e di coraggio politico, dote
completamente passata nel dimenticatoio.
Poco dopo anche da Sel si è alzata qualche voce.
Per la precisazione da due indipendenti del
gruppo parlamentare, Giorgio Airaudo e Giulio
Marcon che in un articolo hanno posto la
questione della totale inadeguatezza dello stato
della sinistra a fronte del deperimento della
situazione del nostro paese e della necessità di
dare vita a un “campo del cambiamento” capace
di impegnare le forze della sinistra attorno a un
numero limitato ma enormemente significativo
di questioni, quali l’uscita dalla crisi su
posizioni antiliberiste; la costruzione di un
blocco sociale postliberista sulla base di nuovi
tipi di relazioni; la promozione su questi temi di
“cento” iniziative pubbliche; una campagna per
le elezioni europee per un’altra Europa.
Ce ne è a sufficienza, peraltro mi sono fermato
solo ad alcuni esempi, per non dare per defunto
il dibattito aperto da Micromega.
Una discussione di questo genere non può
venire isolata in un resort, ma tanto meno
lasciata all’equivoco delle primarie o delle tante
promesse di cantieri della sinistra che mai si
aprono e, nei pochi casi in cui lo fanno,
tantomeno si chiudono con un qualcosa di fatto.
C’è bisogno di un’assunzione precisa di
responsabilità di quel quadro pensante, diffuso
e privo di contorni partitici, ma pure esistente e
resistente, che è variamente intrecciato con
esperienze di movimento, di ricerca
intellettuale, di militanza sindacale, di
costruzione di un nuovo senso di sinistra nella
società.
Non saprei dire quale è il numero delle
questioni da porre per dare concretezza ad una
simile discussione. Probabilmente qualcuna di
più di quelle cui fanno riferimento Revelli,
Airaudo e Marcon, anche se già costituirebbero
un ottimo punto di avvio. Ciò che conta infatti è
il punto di partenza e la linea di direzione verso
un possibile approdo, pur da verificare e
rettificare quanto si vuole e quando si rende
necessario strada facendo.
E’ quindi inevitabile introdurre da subito alcuni
elementi per incanalare e guidare questa
discussione. La premessa non può non essere
altro che la constatazione della morte
dell’attuale centrosinistra.
Il suo rapido
deperimento è cominciato con il governo Monti,
contando già su solide premesse; è stata
ispirato, sostanziato e guidato dalle scelte della
nuova governance europea, il cosiddetto “pilota
automatico”, secondo le famose parole di
Draghi, che rendeva del tutto indifferenti i
colori dei singoli governi; è approdato a
quell’’odore marcio del compromesso” di cui ha
scritto Barbara Spinelli, che è tale proprio
perché a lungo covato. Solo il “non esito”,
questo non del tutto prevedibile, delle ultime
elezioni politiche ha fatto sì che Sel,
contrariamente alla retorica governista
sviluppatasi al suo interno particolarmente
negli ultimi tempi, si trovasse all’opposizione e
invece il Pdl per intero al governo. Il tutto è
avvenuto senza che nella prima venisse
avvertita la necessità di un riposizionamento
strategico, (per questo non tanto la data, quanto
il senso e l’asse del prossimo congresso sono
così incerti) mentre per il secondo si è trattato
di ribadire una pratica di continuità seppure in
tono minore di occupazione del potere.
Ma la Grosse Koalition non è un’invenzione
dell’ultima ora. Parafrasando Giulio Bollati –
che in quel caso parlava del fascismo, che è cosa
diversissima da ciò cui abbiamo a che fare, per
dire che questo non era improvviso né
imprevedibile - si potrebbe oggi affermare che
“il fenomeno può essere condensato in una
formula: nulla è (nelle larghe intese) quod prius
non fuerit nella società, nella cultura, nella
politica italiana, tranne che (le larghe intese)
stesse” da almeno 25 anni a questa parte. Infatti
questa forma di governo a-democratica, prima
ancora che tecnocratica, è la più congrua al
capitalismo finanziario nel quadro europeo, con
particolare evidenza dall’inizio della grande
crisi, cioè dal 2007 in poi.
Il Pd è diventato il pivot di questa politica. Sta
assumendo le caratteristiche che i sociologi che
studiavamo un tempo avrebbero definito di
partito “pigliatutti” o catch all, se più piace la
formula inglese. Un partito cioè che si pone al
centro del quadro politico per cercare di
afferrare l’inafferrabile centro della società che
nel frattempo si è frantumata e polarizzata, al
fine di rendersi garante di una presunta
“pacificazione” e di una assai più concreta
politica di austerità.
Non vedo successi nel proporsi di modificare il
Pd dall’interno. Oltretutto tutti – dai giovani
turchi ai redivivi Bettini – lavorano per Renzi e
solo la bulimia dichiaratoria e l’impazienza
della vittoria di quest’ultimo lo può far perdere.
Né ha senso, se mai ne ha avuto, attenderne la
possibile implosione. Tante sono ormai le
occasioni nelle quali sarebbe potuta accadere e
non è avvenuta. Segno che vi è all’interno di
quel partito un collante, dato da un complesso e
non banale sistema di potere, che lo rende
abbastanza elastico agli urti interni ed esterni.
Il “campo del cambiamento” va organizzato
fuori, in alternativa e a volte contro il Pd, o
quantomeno alle scelte dei suoi gruppi
dirigenti. La caduta del governo Letta – che
comporta la sconfitta del Pd – è il primo
compito di un’opposizione di sinistra che si
rispetti e non può essere messo in ombra da
calcoli congressuali. Se entro l’anno si giungesse
a una grande manifestazione nazionale contro il
governo, capace di raccogliere tutte le forze che
ad esso si oppongono, quale esito di un vasto
lavoro nei territori, questo sarebbe l’unico
modo per cambiare tutte le agende politiche e
forse riaprirebbe, pur tra terribili incertezze e
contrasti, un nuovo percorso democratico.
Coerentemente lo sbocco europeo deve essere
ricercato nel campo della sinistra di alternativa
su scala continentale.
Serve una campagna di
massa, capace – e non sarebbe difficile – di
unire i temi della concreta sofferenza sociale
con le cause che la provocano e che stanno nelle
politiche di austerità di Bruxelles. E’ possibile
condurla senza che si precipiti immediatamente
nella divisione fra chi vuole stare nell’euro e chi
no. Anche nel primo caso bisognerebbe – ed è
esattamente la cosa più urgente da fare – unire
i paesi in difficoltà e le sinistre di alternativa
per imporre alla Germania – pena la fine
dell’Eurozona che altrimenti imploderebbe in
ogni caso – un cambiamento radicale di
politiche e la revisione dei trattati europei da
Maastricht all’insostenibile fiscal compact.
Lo stesso Wolfgang Munchau sul Financial
Times ha sostenuto che per salvare l’euro
bisogna che i
paesi come l’Italia minaccino concretamente di
uscirne. A una battaglia come questa non si
potrebbe però poi dare una rappresentanza
politica scelta nell’ambito di quel socialismo
europeo che, a partire dal paese tedesco, si
attrezza a essere garante e continuatore di
quelle politiche di austerità comunque
mascherate..
Insomma l’invito alla discussione progettuale,
alla costruzione contemporanea di pensiero
alternativo e di elementi di nuovo blocco
sociale, all’esaltazione del ruolo della sinistra
diffusa e dei movimenti con la contemporanea
valorizzazione della altrettanto diffusa
intellettualità pensante, vanno raccolti da subito
senza timidezza o pretese di primogenitura, ma
avendo subito il coraggio di produrre scelte
politiche di campo nette e riconoscibili. Senza
di ciò non è possibile rispondere positivamente,
o quantomeno cercare di farlo, a quella
“dirimente assenza” che, nelle parole di Flores
d’Arcais, è “la condizione soggettiva, la
mancanza della volontà delle forze esistenti
(movimenti, associazioni, personalità) di unirsi
in una massa critica sufficiente”.
Alfonso Gianni
Fonte: Micromega