venerdì 26 luglio 2013

Il futuro del possibile... della sinistra


Il dibattito sulle sorti della sinistra o 

autodefinendosi tale era finora insabbiato sotto 

le speculazioni attorno alle quotidiane 

interviste di Matteo Renzi o le proposte, più 

facete che serie, avanzate da alcuni esponenti di 

Sel, di congressi paralleli e convergenti fra 

grandi e piccole forze di una coalizione, Italia 

Bene Comune, che dopo avere perso di fatto le 

elezioni si è trovata, senza ancora avere ben 

compreso il perché, divisa fra governo e 

opposizione.

 Essendo il primo pessimo oltre 

l’immaginabile, mentre del tutto inadeguata la 

seconda, se non altro per mancanza di referenti 

e di insediamento sociali.

D’altro canto, dopo un primo sbandamento, la 

visibilità dell’opposizione nelle istituzioni spetta 

indubbiamente al Movimento 5 stelle che 

giustamente ha imparato presto ad usare tutte 

le armi di quello che una volta si chiamava il 

filibustering parlamentare lungamente 

praticato durante la cosiddetta prima 

repubblica dalle forze di opposizione di sinistra 

e di destra.


Siamo cioè di fronte ad un paradosso: il 

Movimento 5 stelle, dato precipitosamente per 

morto nelle recentissime elezioni 

amministrative, riprende fiato proprio in e 

grazie a quel parlamento che a parole Grillo 

dichiara di disprezzare tanto. Anche se questo 

non basta certo a frenare l’astensionismo, che 

dilaga anche tra i ceti “forti” orfani anch’essi di 

una qualche rappresentanza politica solida e 

affidabile, costretti quindi a oscillare di elezione 

in elezione tra il voto occasionale e il non voto.

Malgrado che questo quadro deprimente sia 

quello assolutamente prevalente, si possono 

manifestare fatti e parole in controtendenza. 


Quando succede non bisogna perdere 

l’occasione per tentare, attraverso questi, di 

rivivificare una sinistra d’alternativa che pare 

anch’essa “in sonno”.


Mi riferisco ad esempio all’esito di un’elezione 

paradigmatica, quella di Messina, su cui così 

poco si è ragionato. Ed è un peccato perché non 

si tratta di una tarda propaggine dei successi 

elettorali atipici - alcuni già un po’ ingialliti – 

come quelli di Milano, di Genova, di Cagliari o 

di Napoli, ma di un risultato nuovo e originale, 

accaduto in una città di non trascurabili 

dimensioni e con una tradizione difficile alle 

spalle, costruito completamente al di fuori del 

quadro politico dato e fondato sulla capacità di 

aggregazione dei movimenti, delle loro nuove 

pratiche di democrazia diretta, o, meglio, 

deliberativa e delle intelligenze politiche 

presenti al loro interno. 

Naturalmente una vittoria elettorale al 

ballottaggio non permette 

di vivere di rendita neanche per un minuto. 


Sarà quindi interessante seguire l’esperienza 

del sindaco Accorinti e della sua Giunta e 

costruire attorno ad essa una rete di solidarietà, 

di simpatia e di partecipazione come conviene 

fare nei confronti di un’esperienza pilota 

particolarmente significativa.


Sull’altro lato, quello del dibattito vero è 

proprio, vorrei qui ricordare – non per dovere 

di ospitalità, ma per l’effettiva importanza che 

ha avuto - in primo luogo la discussione 

promossa da un supplemento all’ultimo numero di Micromega. Si è trattato come è 

noto di una discussione a cinque, fra Maurizio 

Landini, Marco Revelli, Stefano Rodotà, 

Gustavo Zagrebelsky e Paolo Flores d’Arcais cui 

si deve il merito principale dell’iniziativa. Come 

quest’ultimo riconosce nelle pagine conclusive 

del libretto (Il futuro dell’altrapolitica), l’esito 

della discussione non è stato positivo: “Sembra 

proprio che dovremo aspettare una futura e 

imprevedibile congiunzione astrale – scrive 

Paolo Flores d’Arcais – per dare vita ad un 

nuovo soggetto”. Per quanto quest’ultimo sia 

messo tra molte virgolette, di questo si tratta. 


Della costruzione di una nuova soggettività 

politica della sinistra in connessione con lo 

sviluppo della sinistra diffusa nella società. 

Obiettivo in quel caso fallito, forse anche perché 

si chiedeva troppo ad alcuni interlocutori, già 

sovraccarichi di altre responsabilità che sarebbe 

un delitto abbandonare.

Tuttavia non è stato un tentativo inutile. Mi 

sentirei di correggere un poco il pessimismo di 

Flores d’Arcais. Infatti nei giorni successivi il 

dibattito ha ripreso forza e nuovi protagonismi.


Innanzitutto vi è stato un articolo di Marco 

Revelli sul Manifesto che, in coerenza con 

quanto affermato nella discussione di 

Micromega, ribadisce l’insufficienza di una 

azione dal “basso” e della necessità di un ente 

“catalizzatore”, ovvero “di qualcuno – un 

gruppo di donne e di uomini – che dall’’alto’ dia 

un segnale con pochi semplici denominatori 

comuni”, dalla difesa intransigente della 

Costituzione, al primato del lavoro, passando 

per la difesa dei beni comuni, per imporre 

all’Europa un cambio radicale della sua politica 

economica e al nostro paese una bonifica 

politica e morale.


Un compito tanto più urgente se si registra che 

anche Casaleggio, il guru di Grillo, seguito 

dall’insospettabile ministro Del Rio – quali 

novelli J.G. Ballard ( il famoso scrittore inglese 

scomparso pochi anni fa, autore di Crash) – 

prevedono rivolte sociali per il prossimo 

autunno. Per la verità c’è solo da stupirsi che 

non ci siano state finora.

 Ma, se così accadrà, 

queste rischiano di consumarsi in esplosioni 

isolate se non incrociano almeno un abbozzo di 

forza alternativa dotata di un programma, di 

una ferma determinazione per un radicale 

cambiamento e di coraggio politico, dote 

completamente passata nel dimenticatoio.


Poco dopo anche da Sel si è alzata qualche voce. 

Per la precisazione da due indipendenti del 

gruppo parlamentare, Giorgio Airaudo e Giulio 

Marcon che in un articolo hanno posto la 

questione della totale inadeguatezza dello stato 

della sinistra a fronte del deperimento della 

situazione del nostro paese e della necessità di 

dare vita a un “campo del cambiamento” capace 

di impegnare le forze della sinistra attorno a un 

numero limitato ma enormemente significativo 

di questioni, quali l’uscita dalla crisi su 

posizioni antiliberiste; la costruzione di un 

blocco sociale postliberista sulla base di nuovi 

tipi di relazioni; la promozione su questi temi di 

“cento” iniziative pubbliche; una campagna per 

le elezioni europee per un’altra Europa.


Ce ne è a sufficienza, peraltro mi sono fermato 

solo ad alcuni esempi, per non dare per defunto 

il dibattito aperto da Micromega.

Una discussione di questo genere non può 

venire isolata in un resort, ma tanto meno 

lasciata all’equivoco delle primarie o delle tante 

promesse di cantieri della sinistra che mai si 

aprono e, nei pochi casi in cui lo fanno, 

tantomeno si chiudono con un qualcosa di fatto. 

C’è bisogno di un’assunzione precisa di 

responsabilità di quel quadro pensante, diffuso 

e privo di contorni partitici, ma pure esistente e 

resistente, che è variamente intrecciato con 

esperienze di movimento, di ricerca 

intellettuale, di militanza sindacale, di 

costruzione di un nuovo senso di sinistra nella 

società.

Non saprei dire quale è il numero delle 

questioni da porre per dare concretezza ad una 

simile discussione. Probabilmente qualcuna di 

più di quelle cui fanno riferimento Revelli, 

Airaudo e Marcon, anche se già costituirebbero 

un ottimo punto di avvio. Ciò che conta infatti è 

il punto di partenza e la linea di direzione verso 

un possibile approdo, pur da verificare e 

rettificare quanto si vuole e quando si rende 

necessario strada facendo.



E’ quindi inevitabile introdurre da subito alcuni 

elementi per incanalare e guidare questa 

discussione. La premessa non può non essere 

altro che la constatazione della morte 

dell’attuale centrosinistra.


 Il suo rapido 

deperimento è cominciato con il governo Monti, 

contando già su solide premesse; è stata 

ispirato, sostanziato e guidato dalle scelte della 

nuova governance europea, il cosiddetto “pilota 

automatico”, secondo le famose parole di 

Draghi, che rendeva del tutto indifferenti i 

colori dei singoli governi; è approdato a 

quell’’odore marcio del compromesso” di cui ha 

scritto Barbara Spinelli, che è tale proprio 

perché a lungo covato. Solo il “non esito”, 

questo non del tutto prevedibile, delle ultime 

elezioni politiche ha fatto sì che Sel, 

contrariamente alla retorica governista 

sviluppatasi al suo interno particolarmente 

negli ultimi tempi, si trovasse all’opposizione e 

invece il Pdl per intero al governo. Il tutto è 

avvenuto senza che nella prima venisse 

avvertita la necessità di un riposizionamento 

strategico, (per questo non tanto la data, quanto 

il senso e l’asse del prossimo congresso sono 

così incerti) mentre per il secondo si è trattato 

di ribadire una pratica di continuità seppure in 

tono minore di occupazione del potere.

Ma la Grosse Koalition non è un’invenzione 

dell’ultima ora. Parafrasando Giulio Bollati – 

che in quel caso parlava del fascismo, che è cosa 

diversissima da ciò cui abbiamo a che fare, per 

dire che questo non era improvviso né 

imprevedibile - si potrebbe oggi affermare che 

“il fenomeno può essere condensato in una 

formula: nulla è (nelle larghe intese) quod prius 

non fuerit nella società, nella cultura, nella 

politica italiana, tranne che (le larghe intese) 

stesse” da almeno 25 anni a questa parte. Infatti 

questa forma di governo a-democratica, prima 

ancora che tecnocratica, è la più congrua al 

capitalismo finanziario nel quadro europeo, con 

particolare evidenza dall’inizio della grande 

crisi, cioè dal 2007 in poi.


Il Pd è diventato il pivot di questa politica. Sta 

assumendo le caratteristiche che i sociologi che 

studiavamo un tempo avrebbero definito di 

partito “pigliatutti” o catch all, se più piace la 

formula inglese. Un partito cioè che si pone al 

centro del quadro politico per cercare di 

afferrare l’inafferrabile centro della società che 

nel frattempo si è frantumata e polarizzata, al 

fine di rendersi garante di una presunta 

“pacificazione” e di una assai più concreta 

politica di austerità.


Non vedo successi nel proporsi di modificare il 

Pd dall’interno. Oltretutto tutti – dai giovani 

turchi ai redivivi Bettini – lavorano per Renzi e 

solo la bulimia dichiaratoria e l’impazienza 

della vittoria di quest’ultimo lo può far perdere. 

Né ha senso, se mai ne ha avuto, attenderne la 

possibile implosione. Tante sono ormai le 

occasioni nelle quali sarebbe potuta accadere e 

non è avvenuta. Segno che vi è all’interno di 

quel partito un collante, dato da un complesso e 

non banale sistema di potere, che lo rende 

abbastanza elastico agli urti interni ed esterni.


Il “campo del cambiamento” va organizzato 

fuori, in alternativa e a volte contro il Pd, o 

quantomeno alle scelte dei suoi gruppi 

dirigenti. La caduta del governo Letta – che 

comporta la sconfitta del Pd – è il primo 

compito di un’opposizione di sinistra che si 

rispetti e non può essere messo in ombra da 

calcoli congressuali. Se entro l’anno si giungesse 

a una grande manifestazione nazionale contro il 

governo, capace di raccogliere tutte le forze che 

ad esso si oppongono, quale esito di un vasto 

lavoro nei territori, questo sarebbe l’unico 

modo per cambiare tutte le agende politiche e 

forse riaprirebbe, pur tra terribili incertezze e 

contrasti, un nuovo percorso democratico.


Coerentemente lo sbocco europeo deve essere 

ricercato nel campo della sinistra di alternativa 

su scala continentale.


 Serve una campagna di 

massa, capace – e non sarebbe difficile – di 

unire i temi della concreta sofferenza sociale 

con le cause che la provocano e che stanno nelle 

politiche di austerità di Bruxelles. E’ possibile 

condurla senza che si precipiti immediatamente 

nella divisione fra chi vuole stare nell’euro e chi 

no. Anche nel primo caso bisognerebbe – ed è 

esattamente la cosa più urgente da fare – unire 

i paesi in difficoltà e le sinistre di alternativa 

per imporre alla Germania – pena la fine 

dell’Eurozona che altrimenti imploderebbe in 

ogni caso – un cambiamento radicale di 

politiche e la revisione dei trattati europei da 

Maastricht all’insostenibile fiscal compact.



 Lo stesso Wolfgang Munchau sul Financial 

Times ha sostenuto che per salvare l’euro 

bisogna che i 

paesi come l’Italia minaccino concretamente di 

uscirne. A una battaglia come questa non si 

potrebbe però poi dare una rappresentanza 

politica scelta nell’ambito di quel socialismo 

europeo che, a partire dal paese tedesco, si 

attrezza a essere garante e continuatore di 

quelle politiche di austerità comunque 

mascherate..



Insomma l’invito alla discussione progettuale, 

alla costruzione contemporanea di pensiero 

alternativo e di elementi di nuovo blocco 

sociale, all’esaltazione del ruolo della sinistra 

diffusa e dei movimenti con la contemporanea 

valorizzazione della altrettanto diffusa 

intellettualità pensante, vanno raccolti da subito 

senza timidezza o pretese di primogenitura, ma 

avendo subito il coraggio di produrre scelte 

politiche di campo nette e riconoscibili. Senza 

di ciò non è possibile rispondere positivamente, 

o quantomeno cercare di farlo, a quella 

“dirimente assenza” che, nelle parole di Flores 

d’Arcais, è “la condizione soggettiva, la 

mancanza della volontà delle forze esistenti 

(movimenti, associazioni, personalità) di unirsi 

in una massa critica sufficiente”.




                                          Alfonso Gianni










Fonte: Micromega