lunedì 1 luglio 2013

Dell'Immobilismo e delle mancate Riforme, la chiave



Giorgio De Chirico, Enigma di una giornata (1914, particolare)

Quando il fascismo andò al potere, nessuno dei suoi oppositori seppe spiegarsi davvero il perché. Ci fu chi, come i socialisti e i comunisti diede la colpa agli agrari e ai capitalisti. E chi, come i vecchi liberali, li vedeva come un male minore con cui fermare la pestilenza rossa. Un male di stagione, che sarebbe passato in fretta. Quasi nessuno vide la saldatura di interessi tra ceti popolari e borghesia, ovvero una ricerca costante di sussidi e di sostegno da parte dello Stato.
Il fascismo per Gobetti è l’autobiografia di una nazione. E nella nazione italiana mancano quelli che nei paesi anglosassoni costituiscono il nerbo di una cultura liberale: degli imprenditori avvezzi al rischio, che ragionano in una prospettiva europea o addirittura mondiale e un ceto popolare informato, responsabile e cosciente dei propri mezzi e delle proprie capacità. 
In un capitolo della sua opera più matura, “La rivoluzione liberale”, omonima della sua rivista settimanale, intitolato La lotta politica in Italia, tutti quelli che si stupiscono dell’immobilismo del governo Letta, possono provare a capire le ragioni del perché in Italia non si facciano riforme di nessun tipo:
«Mentre falliva prima di nascere il liberalismo dei conservatori che poteva avere la sua sede storica nell’economia del Mezzogiorno, le avanguardie del Nord erano tratte dall’immaturità della lotta politica e dei costumi nazionali a rinnegare il loro programma naturale di individualismo e di liberismo. Tra industria e liberalismo veniva a scavarsi un abisso che pretesero di trasportare addirittura nel campo della teoria e della sociologia. Invece il liberalismo non si esaurisce evidentemente nel liberismo, ma tuttavia lo comprende e lo presuppone.
Senza cedere al vezzo di semplicistiche e chiuse definizioni si può ritenere che la passione e la coscienza di libertà e di iniziativa (che sono i concetti centrali di una teoria e di una pratica liberale) trovino naturale alimento in una vita economica spregiudicata senza essere avventurosa, capace di fortificarsi di fronte agli imprevisti della realtà senza rigidi attaccamenti a sistemi di sorta, agile e nemica della quiete provinciale e nazionalista, capace di tenere il suo posto per fecondità di produzione e di intrapresa nell’equilibrio della vita mondiale. Questa è poi, se ben si cerca, la morale dell’individualismo economico che ha avuto i suoi testi e le sue esperienze nei paesi anglo-sassoni i quali ci diedero gli albori della modernità. Nel nostro secolo il primo insegnamento dell’industria dovrebbe consistere nella dimostrazione di uno spirito e di una necessità non grettamente nazionali, ma europei e mondiali; da questi orizzonti ormai l’attività inventrice e produttrice degli uomini non può più prescindere.
Invece la nuova economia italiana nel Nord sorgeva come industria protetta rinnegando ogni senso di dignità. In trent’anni di polemica i nostri liberisti hanno avuto tempo e possibilità di dimostrare con calcoli e cifre tutti i danni economici del protezionismo doganale. Ridiscutere la questione in sede di economia parrebbe un anacronismo. Gli studi e gli ultimi dati non hanno concluso in nessun punto di vista nuovo, ma si sono limitati a confermare che la vita nazionale contrae, aderendo al protezionismo, un pessimo affare. Ma è ora di affrontare gli argomenti protezionisti nel loro stesso campo prediletto, dimostrando i danni politici del loro sistema, che ha inaugurato in Italia un’epoca di corruzione e di decadenza nei costumi del proletariato e della borghesia.
L’elevazione morale degli operai era negata inizialmente dall’umiliazione di dover limitare propositi e ideali intorno a un problema di disoccupazione; la borghesia per salvarsi dall’errore delle premesse doveva cercare dei complici e pagare con una politica di concessioni la sua tattica di sfruttamento dell’erario. Così venivano a mancare i due nuclei essenziali di reclutamento per un partito liberale d’avanguardia che tendesse a rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie disciplinate intorno a una morale di autonomia. La parola d’ordine delle classi inferiori era la ricerca di un sussidio. Il krumiraggio non era che un simbolo dell’immaturità desolante dello spirito proletario e della psicologia primitiva, da corsari e da speculatori schiavisti, delle classi industriali. Per l’inconsistenza dei fini non si poteva costruire la fibra dei combattenti. All’individualismo si sostituiva la morale della solidarietà, una specie di calcolata complicità nel parassitismo».
                                                                                Matteo Muzio


Fonte: http://www.linkiesta.it/gobetti-fisco#ixzz2XmNTUNLa