mercoledì 30 ottobre 2013

Intellettuali: Contraddizione Vivente. Ma a cosa servono?


Far bene il proprio lavoro’. È questa, secondo un certo refrain oggi piuttosto in voga, la più proficua e doverosa forma di impegno per un intellettuale.
 In realtà, dietro tale formula non si cela altro che una razionalizzazione del disimpegno. 
Oggi più che mai, va invece ribadito che l’‘essere impegnato’, per un intellettuale, equivale a mettere il proprio prestigio e la propria visibilità al servizio della causa della democrazia radicale.



1. L’intellettuale pubblico esiste, questo è un fatto. L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta: un altro fatto, sembrerebbe. Esaminiamoli entrambi.

Che l’intellettuale pubblico esista ancora non c’è dubbio. 
Scrittori, filosofi, registi, le cui prese di posizione «fanno rumore», creano dibattito, influiscono sull’opinione pubblica, talvolta costringono partiti e governi a modificare la famosa «agenda», in qualche caso danno addirittura vita a movimenti di massa (Nanni Moretti con i girotondi), non sono affatto scomparsi.
 I ricorrenti «necrologi» in morte dell’intellettuale – genere letterario squisitamente da intellettuali – dimostrano solo il narcisistico attaccamento di qualche intellettuale a un personale wishful thinking, da idiosincrasia di outsider frustrato e/o volontà di scalare posizioni. Più frequentemente l’alibi, da parte di chi è un intellettuale arrivato, per razionalizzare la propria pulsione all’indifferenza quale scelta obbligata, e fare di vizio necessità. 

Insomma, quello dell’intellettuale non costituirà forse un gruppo sociologicamente omogeneo e chiaramente identificabile come un tempo, ma le figure della cultura con prestigio e carisma e conseguente privilegio di essere ascoltate esistono eccome. 
Ciò che latita, semmai, è la disponibilità di queste personalità a mettersi in gioco, a risultare scomode, a farsi dei nemici, a spendersi per gli altri cittadini, anziché curare la propria carriera.

L’intellettuale pubblico non è più quello di una volta, si dice.
 L’intreccio tra statura professionale e ruolo di riferimento etico-civile, che lo caratterizza, era legato al carattere alto dell’attività culturale, riconosciuta aristocrazia dello spirito, creativa o scientifica che fosse. 
Il prestigio non era legato al successo mediatico, spesso poteva costituirne l’antitesi e la silenziosa denuncia
Esisteva una gerarchia dei generi e della qualità. Nell’universo dell’esistenzialismo si muovevano chansonnier e attrici (di straordinario valore, oltretutto), ma Simone de Beauvoir veniva prima di Juliette Greco, che sarebbe stata la prima a riconoscerlo, benché assai più popolare presso grande pubblico e rotocalchi.
 Le parole, anche le più straordinarie, della più bella canzone, restavano «parole», non versi (un poeta poteva regalare i suoi a un cantante, naturalmente). 
La cultura aveva i suoi ranghi, perfino un film per essere arte doveva chiamarsi Ejzensˇtein o Bergman, altrimenti restava solo spettacolo, per quanto grande.

Figura dialettica, dunque, l’intellettuale, perché reale contraddizione vivente: solo se riconosciuto dai suoi pari e da altre élite, dunque da un establishment, poteva esercitare il suo ruolo di coscienza critica e fustigatore delle ipocrisie e ingiustizie di ogni establishment
Solo come membro di un’aristocrazia, sebbene dello spirito, poteva predicare efficacemente l’eguaglianza. Solo avendo una privilegiata voce in capitolo, poteva indignarsi per le masse condannate al silenzio e chiedere la stessa voce per tutti.

Il luogo comune assicura che la figura dell’intellettuale negli ultimi decenni è profondamente cambiata. Con l’esaurirsi/esaudirsi del Sessantotto e il trionfo dell’università di massa, magari, o per lo spostarsi del baricentro della composizione sociale dell’intellettuale dalle professioni umanistiche a quelle tecnico-scientifiche o senz’altro tecnocratiche. Sarà.

2. Innegabile è solo il mutamento sismico che travolge il criterio aristocratico di cultura nel calderone antropologico che non può conoscere gerarchie
Tutto è cultura, mai più alta o popolare, sempre e solo orizzontale, dove filosofia e cibo, opera lirica e canzonette, scienza e superstizione, appartengono allo stesso universo, articolazioni di un unico valore.
Quello del successo/spettacolo. Che in parallelo alla cultura, del resto, si annette la politica. E tutto quanto.

La stessa idea di cultura alta viene culturalmente ridicolizzata. Se il dialetto ha lo stesso rango della lingua nazionale, parlare (e meno che mai scrivere) in buon italiano non può essere più un valore da perseguire (e democrazia garantire la possibilità del buon italiano a tutti). 
Questa rivista non vive affatto di nostalgia, ha dedicato due volumi al cibo (e intende tornare monograficamente sul tema), ma Ferran Adrià e William Shakespeare non appartengono allo stesso universo (e neppure i Beatles e Brecht/Kurt Weill, benché entrambe le compagini siano produttori di «canzoni»): cultura in senso proprio, cultura in senso forte, dunque cultura senza aggettivi, è solo il secondo. 

La cultura senza gerarchie non diventa solo in-differenziata ma inevitabilmente in-differente, e come tale finirà trattata. 
La personalità viene spodestata e surrogata dal personaggio, mentre la distinzione tra diva/o e cultura andava da sé. Il passo ulteriore di imbarbarimento dell’industria culturale, rispetto all’universaleVerblendungszusammenhang («contesto di accecamento») di cui parlava Adorno, è costituito infatti dall’attuale «contesto di blobbizzazione», cioè dalla riduzione di ogni genere e prodotto culturale, e relative differenze qualitative (spesso abissali), a indistinguibile materia di un’unica poltiglia di «intrattenimento dello spirito», magma informe dove tutto è peggio che omologato, magmatizzato nell’in-differente, appunto. 
La cultura deve fare spettacolo, fare evento, svagare, l’indice di qualità si decompone nell’indice di ascolto, il giudizio critico si ingaglioffisce nello share, strumenti confezionati a immagine e interesse delle aziende pubblicitarie, dunque a decretare il successo non è neppure più «il pubblico» ma gli uffici marketing.

Il prestigio si estingue come indicatore indipendente. Diventa una funzione del nuovo indicatore unificato, Uno e Trino come è giusto che sia la divinità: il Dio-Mammona del danaro/potere/successo, misura di tutte le cose. Paradiso liberista che garantisce le basi strutturali della prostituzione intellettuale nella più generale vocazione alla prostituzione di ogni attività. 
Si dirà: è il mercato, bellezza! (Col corollario: vuoi abrogare il mercato? Vuoi tornare al baratto? O al sogno comunista che si è dimostrato incubo? Non ti è bastato l’Urss?). Niente affatto. Si rilegga Adam Smith, Padre fondatore: nel mercato solo le cose hanno un prezzo (lo avevano imparato a loro spese i papi, che perderanno metà del gregge per l’ingordigia di fare mercato dello spirito, dell’aldilà e delle sue indulgenze), proprio perché non hanno prezzo i valori della convivenza (il prestigio intellettuale è uno di questi). 
La società di mercato è tale perché non tutto è merce. Nel mercato (e nella sua giustificazione) hanno un prezzo solo le merci, dunque anche la forza-lavoro ridotta a merce, standardizzata, priva di individualità, fungibile.

3. Padre Adam Smith si è rivelato un sognatore, il virus della merce si è trasmesso dalle cose alle persone, ha colonizzato l’intero mondo di Homo sapiens, ha tutto mercificato sussumendo infine cose, pensieri, azioni nella produzione uniforme di «spettacolo».
 Il mondo borghese nasce invece dichiarando la cultura senza prezzo, inestimabile, e di conseguenza liberali le professioni che la esercitano (professioni borghesi per eccellenza!). 
Paradosso del mondo borghese i cui valori, stili di vita, professioni, vivono una logica antagonistica a quella del mercato, fino a che col trionfo devastante di quest’ultimo, che tutto satura e non lascia crescer fili d’erba di valori autonomi, il borghese viene cancellato dal non olet di ondate ricorrenti del parvenu (come le invasioni barbariche, esattamente).

Nella società del «tutto mercato» dove tutto ha un prezzo perché tutto è spettacolo (anche l’auto di lusso vale per ciò che evoca, più che per la velocità che può raggiungere, vietata in tutte le autostrade, dunque inutilizzabile) non contano i meccanismi legali, le istituzioni e le regole che hanno affermato il mercato stesso, ma sempre più le risorse e i vincoli personali premoderni, da clientes patronus romani più ancora che da stratificazioni di vassallaggio medioevali.
 Il mondo del mercato senza residui è il regime della prostituzione universale.

L’intellettuale è colui che non si prostituisce. Che si oppone alla deriva dell’esistente e al suo Dio/Mammona Uno e Trino che tutto inghiotte e restituisce come blob di danaro/potere/successo, unico prestigio riconosciuto. Di conseguenza: non impegnarsi rischia già il prostituirsi, in proporzione. Il prestigio è ciò che consente la libertà di non assoggettarsi al potere e/o denaro e/o successo. Ma se l’autonomo privilegio del prestigio e del merito si estingue? 

Oggi la sopravvivenza del prestigio è più che a repentaglio. L’arte nasce già come fenomeno di mercato, certamente da Warhol in poi e sempre più come mercato finanziario di titoli tossici, ideuzze autoreferenziali e del tutto avulse da e incompatibili con ogni «fare» artistico (qualche rara eccezione, ovviamente, da Basquiat alla Dumas, come per i concorsi universitari in Italia, però: qualcuno va in cattedra malgrado sia bravo).
 La sequenza prevedeva un tempo prestigio-successo-denaro, ora il kombinat di potere mercante/critico/curatore (anche di museo pubblico!) decide l’investimento che dovrà impinguarsi come ogni investimento, dunque conoscere successo nelle aste e ipso facto prestigio. Qualsiasi «artista» va bene, la scelta è puramente casuale, ogni nullità di «installazione» e ogni cascame di «iperrealismo» oleografico si prestano in-differentemente a diventare valore bancario da proteggere e incrementare.

Visibilità, mercato, prestigio, fanno tutt’uno. Ieri si diventava prima Pasolini e poi si andava in televisione, oggi diventare personaggio televisivo è professione in sé, la luminosa fama per una parolaccia gettata sull’altro ospite (meglio se una donna) consentirà di passare presto per illustre critico d’arte e poi candidato sindaco. 
Con Giulio Carlo Argan, or non è guari, andava alquanto diversamente. La notorietà di Sartre nasce dal suo prestigio, e questo dalle sue opere, Bernard-Henri Lévy nasce da operazione di marketing e già come fenomeno mediatico, il suo contributo alla filosofia vale quello di Damien Hirst all’arte, del resto viene citato sempre come BHL, un brand, come l’intimo DG.

4. Sia chiaro, nessuna geremiade e nostalgia per les neiges d’antan
Che conoscevano fior di meccanismi di conformismo e successi immeritati, o talenti emarginati. E nessuna concessione all’aristocraticismo, parodia della cultura come élite dello spirito; disconoscere la grandezza di Simenon scrittore tout court, per via del successo di Maigret, era pura miopia (e del resto non ci sono sussiegosi «critici» che rinnovano la cecità con Camilleri, il cui Re di Girgenti, sia detto en passant, non vale meno dei Viceré di De Roberto?).
 Ma è indubbio che ogni autorevolezza da prestigio viene ingoiata dall’autorità unica trifauce del mercato-potere-successo, garanzia oltretutto, e mediamente parlando, di trionfo della mediocrità. 
La Corazzata Potëmkin resta un capolavoro che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di ogni diplomato, ma viene ricordata ormai, anche presso chi crede di «amare il cinema», solo per una banale battuta fregnona dell’ingegner Fantozzi. Che ha culturalmente vinto. Il merito, mai così citato, è solo merito di mercato e di potere.

Tutto vero, e malinconicamente vero. Ma cambia assai poco rispetto al tema «tradimento dei chierici», di cui si macchiano le personalità pubbliche di riferimento, non già le figure diffuse, di massa, del lavoro intellettuale (che spesso silenziosamente praticano virtù critiche e virtù civiche, anzi, nella scuola dell’obbligo ad esempio). 

L’engagement, come è noto, nasce con Zola e il suo J’accuse sull’affare Dreyfus. Occupiamoci però solo della versione recente, del dopoguerra. L’impegno dell’intellettuale oscilla immediatamente tra fiancheggiamento del partito e rischio personale, Sartre o Camus. La «materia» dell’impegno, è presupposta, radicare e radicalizzare giustizia e libertà per tutti, emancipare l’intero genere umano da ogni forma di oppressione. In concreto questa «vocazione» rivela un potenziale antinomico: la testimonianza individuale è condannata all’impotenza, al «salvarsi l’anima» tanto illusorio quanto più individualistico, da «anima bella», appunto, perché l’emancipazione è un processo storico-sociale, bisogna individuarne lo strumento collettivo, altrimenti si finisce nell’irrilevanza, o addirittura nell’essere utilizzati dal potere.

Ora, lo strumento degli oppressi è il Partito rivoluzionario, «intelligenza collettiva» in possesso delle chiavi della dialettica storica, capace dunque sia di decifrare l’enigma della Storia che di intervenire in essa con il massimo di efficacia liberatoria. 
Impegnarsi per l’emancipazione dell’umanità equivale perciò a iscrivere la propria testimonianza morale nell’orizzonte di azione politica del partito.
In questo ineccepibile realismo c’è una falla, però: la dialettica storica è una pura invenzione, il partito non è il diamante che ha cristallizzato gli interessi storici dei «proletari di tutto il mondo, unitevi», ma una realtà sociologica e ideologica che, laddove al potere, ha prodotto una nuova classe di oppressori: in nome del proletariato, sui lavoratori in carne e ossa. 
Le documentate notizie sull’esistenza di lager nell’Urss di Stalin mandano definitivamente in pezzi la menzogna della catena di equivalenze: rifiuto dell’oppressione-senso della storia-ruolo del proletariato-primato del partito. La rottura tra Sartre e Camus è tutta qui.

5. Ma rivela molto altro. Che la storia non è prevedibile. Dunque, che non è possibile stabilire la connessione tra fini e mezzi, con i primi che riscatterebbero i secondi («Chi giustificherà il fine? La rivolta risponde: i mezzi», Albert Camus, Essais, Gallimard Pléiade, Paris 1977, p. 696). 
Che dunque l’impegno, dell’intellettuale e di ogni cittadino in rivolta, è sempre esposto allo scacco, nel duplice senso della sconfitta e del deragliamento della vittoria in conseguenze non previste, eterogenesi dei fini sempre in agguato (e anzi la normalità della storia).

Poiché la rivolta resta in-certezza, molti intellettuali, malgrado l’inoppugnabile lezione del gulag, continueranno a cercare la rivoluzione e le sue consolatorie certezze (in regime democratico anche senza rischi, fino all’eroismo invece in Spagna o in Vietnam), pegno del conformismo del potere di domani, pur di deresponsabilizzare le proprie scelte (ed errori) all’ammasso delle res gestae dello Spirito del mondo di turno.
 E così finiranno con Mao e il suo finto «ribellarsi è giusto» (solo contro i suoi nemici!) come se fosse un’epopea libertaria, e magari a intonare i domani che cantano insieme al salmodiare teocratico dei muezzin di Khomeini. 

La decisione-per-l’impegno fa tutt’uno perciò, e immediatamente, con la decisione per-quale-impegno. Dalla parte di chi/cosa e in nome di chi/cosa? 

Dalla parte di astrazioni e ipostasi, del proletariato e della rivoluzione, in nome della storia e della sua dialettica in atto, il cui esito pre-scritto di abolizione del presente stato di cose, cioè della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, è il comunismo? O dalla parte degli operai in carne e ossa che a Berlino nel ’53 e a Poznan´ e Budapest nel ’56 (ma già a Kronstadt nel ’21!) entrano in sciopero e in rivolta contro un potere che ha espropriato bensì i capitalisti ma non ha con ciò reso i lavoratori padroni della produzione e dello Stato? 
In nome della concreta giustizia e libertà, qui e ora, che quei lavoratori rivendicano istituendo i loro consigli operai, e che nel Sessantotto gli studenti di Varsavia rivendicheranno gridando «non c’è pane senza libertà», o con l’idea platonica di comunismo, il cui compimento è dialetticamente certo ma sempre rimandato perché non ancora storicamente maturo, il cui strumento e assaggio è intanto l’oppressione burocratica della nuova classe? 
Parlare a nome proprio e in coerenza concreta con i valori proclamati viene tacciato di luciferino orgoglio, quell’«individualismo piccolo borghese» che nella chiesa del comunismo realmente esistente è sempre stato, molto cattolicamente, il peccato inespiabile. In realtà l’apparente modestia dell’intellettuale che si riconosce «uno della massa», eguale ad ogni lavoratore, e perciò si allinea al Partito, unica autorizzata voce collettiva, occulta un bisogno di pre-kantiana e infantile nostalgia per le «dande» morali.

Questa vocazione al conformismo mascherata da realismo storico-dialettico evidenzia però un dilemma autentico. A quali condizioni la testimonianza eticamente coerente sarà anche politicamente efficace? E quale prezzo di «tradimento» di quei valori sarà etico pagare perché riesca la transustanziazione dall’utopia delle anime belle all’effettualità delle conquiste sociali e istituzionali?

6. Etica della responsabilità o etica dell’intenzione? L’aut aut proposto da Max Weber è in realtà profondamente irrealistico. Calcolare le conseguenze del proprio agire politico è infatti impossibile, se si prende atto realisticamente della pervasività dell’eterogenesi dei fini in ogni vicenda di Homo sapiens. L’etica della responsabilità deve assumere – per realismo! – che le conseguenze del nostro impegno scarrocceranno sempre e comunque dalla rotta dell’intenzione, spesso invertendola. Che la rivoluzione contro uno zar potrà approdare all’arcipelago Gulag di un Egocrate, che la rivolta contro uno scià sanguinario o una bolsa dittatura militare può aprire la strada a una più soffocante tirannia teocratica. Motivi ragionevoli e realistici per tenersi lo zar e lo scià?
Ogni rovesciamento apre al meglio come al peggio, sull’esito dei processi storici non esistono garanzie, i verdetti sono sempre revocabili perché il processo storico è permanente. 
Ciascuno può conoscere solo la propria intenzione, che verrà immediatamente sviata dalle intenzioni degli altri che con noi (o contro di noi) sono coinvolti nell’azione. Ciascuno, nel momento in cui agisce, inevitabilmente aliena a tutti gli altri il frutto della propria intenzione. Calcolare il risultato è utopia, risalire dal frutto all’albero è esercizio spesso insensato. Il nostro agire è sempre e strutturalmente anche un agire al buio, agire alla cieca.

Proprio il realismo impone allora l’etica della convinzione, agisci in coerenza con i valori che proclami, e accada quel che accada, perché il risultato della «tua» azione non è mai nelle tue mani ma in quelle di milioni (siamo sette miliardi!) di altre «intenzioni» con cui sei «imbarcato». 
Ci illudiamo che vi sia differenza tra il gesto e l’azione, quest’ultima in vista di un fine e razionalmente orientata ad esso nella scelta dei mezzi, il primo espressione immediata e non calcolata di indignazione, ma in realtà l’uno rimanda all’altra inestricabilmente, dove a fare la differenza è la coerenza rispetto ai valori, non la razionalità del calcolo delle conseguenze, quasi sempre vaneggiante, al dunque.

L’impegno dell’intellettuale suscita ostilità perché è sempre «a sinistra», e non può essere che «a sinistra». Se per sinistra, sia chiaro, si intende il vessillo di valori con cui nasce (liberté, égalité, fraternité), non le organizzazioni che oggi (con sempre più pudibonda ritrosia, del resto) si spacciano per sinistra. 
L’impegno è sempre di lotta, infatti, per ri-formare l’esistente e stravolgerne i connotati di illibertà e diseguaglianza. Chi mette il suo sapere, le sue competenze, la sua cultura al servizio dell’esistente e dei suoi poteri di establishment non è un intellettuale, è un funzionario del conformismo.

L’intellettuale pubblico è l’opposto del cane da guardia culturalmente addestrato, del responsabile marketing che inzucchera di «pensiero» e «razionalità» il presente stato di cose, del sepolcro imbiancato tecnicamente avvertito.
 L’intellettuale è per sua funzione, innanzitutto e necessariamente, portatore di critica, che significa richiamo alla coerenza tra i valori ricamati nelle costituzioni e la quotidiana pratica di governo che li calpesta e schernisce, tra il proclamare a lettere d’oro sopra ogni edificio la triade di valori della «République» salvo corromperli e stracciarli ogni giorno nei peana della Realpolitik. In altri termini: l’intellettuale di destra è una contraddizione in termini.

7. I due grandi partiti che si fronteggiano nelle democrazie sono quelli dell’ipocrisia e della coerenza, ecco perché la politica in democrazia è sempre e innanzitutto,strutturalmente, una questione morale
La democrazia, a guardar bene, nascendo francese col presupposto di «liberté, égalité, fraternité» e ancor prima americana con «the right to pursuit happiness», di-tutti-e-di-ciascuno, è essenzialmente di sinistra e la dialettica democratica dovrebbe tutta risolversi nella competizione tra le cinquanta sfumature della sinistra, a tasso differenziato di coerenza o «tradimento» dei sopracitati valori. Il resto (ogni destra o «centro») è anti-democrazia dentro la democrazia. 

Un presunto «impegno» degli intellettuali conservatori o reazionari è dunque ossimoro (senza poesia), è anti-impegno. L’«intellettuale» di destra o di centro, quando esiste, è personale di servizio, personificazione ennesima del tradimento del chierico. C’è un solo impegno, quello democratico, cioè di sinistra. Il resto è disimpegno o anti-impegno. Quest’ultimo rappresentato da Gentile che lancia il manifesto per l’«impegno» politico degli «intellettuali» a sostegno del regime fascista, il disimpegno esemplificato da Croce, che a Gentile risponde con l’ineffabile rivendicazione che letterati e scienziati non si contaminino con la politica: intellettuale impegnato è invece Piero Gobetti. Chi sta dalla parte della reazione, del privilegio, cioè dalla parte sbagliata, non è un intellettuale ma un officiante della servitù volontaria.

Il «realismo» è il belletto dell’opportunismo, la cui confezione standard è quella del funzionario dell’esistente, ingranaggio dell’establishment. Anche chi si «impegna» solo in presenza della rete di sicurezza delle «sinistre» di partito, però, rischia costantemente l’opportunismo. 
Opportunismo che ha comunque buon gioco nel denunciare le «anime belle» alla Gobetti, perché l’accusa capziosa di moralismo, di mancanza di realismo, e gli altri cascami della nota bisaccia di vituperi con cui scrittore e pensatore e luminare reazionario cercano di (far) dimenticare la propria assiduità al banchetto di ogni casta, evidenzia un problema reale.

Abbiamo visto, e ripetiamo, che l’etica dell’intenzione è la sola realistica perché comunque inevitabile, visto che è illusorio prevedere il «sequel» della propria azione, ma l’autogiustificazione è sempre in agguato e accompagna ogni «migliore intenzione» come la propria ombra. Il rigore morale, stigmatizzato dai «realisti» come «rifiuto a sporcarsi le mani», può effettivamente diventare alibi che paralizza l’azione, la colloca nel cielo del nulla o nella concretezza dell’insignificante, e in entrambi i casi si metamorfizza in etica futile.

Si può eludere l’impegno col minimalismo – mi occupo solo della fontanella, e anzi del mio «particulare», perché la corruzione dei politici e l’onnipotenza della finanza sono inespugnabili – o col massimalismo palingenetico, che sdegna come effimera e inane ogni conquista di giustizia e libertà che non sia vestibolo del sovvertimento dell’impero e riscatto finale della moltitudine. 
Infine, si può eludere l’impegno con la retorica dei valori astratti, tanto sonora e commovente nel declamare da palchi e tv show contro la mafia, quanto di braccino corto nell’offrire solidarietà ai magistrati, nomi e cognomi, che combattendola davvero diventano invisi a palazzi di governo e di «opposizione», senza dimenticare colli più alti.

Il «giusto mezzo» purtroppo non esiste, visto che dipende da dove ciascuno, arbitrariamente, colloca gli estremi da evitare. Quanto più grande è l’ascolto di cui si gode, tanto maggiore il dovere di spendersi e il raggio su cui intervenire, però. 
Il premio Nobel che tace di fronte all’aggressione americana in Vietnam, acconsente. Il premio Strega che in Italia tace di fronte alle infamie berlusconiane e alle vergogne d’inciucio, acconsente. È alibi d’accatto che si tratti di scegliere se aver torto con Sartre o ragione con Aron (quale, poi?), visto che si può avere ragione con Sartre e Russell sul Vietnam e ancor prima con Camus su Ungheria e Spagna.

8. L’impegno, che è sempre riformatore, qui e ora, è anche sempre possibile. Che il contesto socio-mediatico ormai lo vanifichi, perché assorbirebbe in un orizzonte di insignificanza ogni critica, anche la più radicale, rendendola in anticipo funzionale al potere, è la favola francofortese che proprio il prestigio e l’aura degli Adorno smentiva, e ancor più la loro fuga dall’impegno (dalla coerenza logica e tra il dire e il fare) quando nel Sessantotto il verbo della critica si è fatto carne. 
Che il mezzo sia il messaggio, e dunque la presenza in tv ipso facto omologhi, possiede solo una quota di verità, che in verità non bilancia l’alibi: se ti danno la prima serata e milioni di spettatori potenziali, e lavori secondo parresia, e non temi di criticare presidenti e cardinali anziché malvagità astratte, non c’è mezzo che annulli il messaggio, che «bucherà» talmente che non ti inviteranno più, semmai.

Impegnarsi si può
Oltretutto, la caratura del rischio e lo spessore del sacrificio potenziale cui va incontro l’intellettuale, nelle democrazie realmente esistenti (benché mediamente assai poco democratiche) sono francamente minimi: perdere qualche contratto, qualche trasmissione in tv o rubrica sul quotidiano importante, qualche invito nei salotti. Perché si abbia timore anche di questo, e si preferisca rifugiarsi nella miseria civile del disimpegno o nel pusillanime lusso dell’impegno «in carrozza», resta uno dei misteri gaudiosi della cultura italiana. 

Il sapere deve tendere alla neutralità. Quello della scienza è neutrale per definizione, il bosone di Higgs, se verificato, vale come verità della natura tanto nell’Ungheria nostalgica di fascismo che sotto il potere di Fidel o il giogo delle palandrane islamiche.
 Quello delle «scienze umane» è invece ineludibilmente saturo di scelte di valore, che devono essere rese esplicite perché si possa praticare il massimo del rigore nelle zone dove – all’interno di ogni disciplina – è invece attingibile l’accertamento intersoggettivamente cogente. 

L’intellettuale è il portatore di questo atteggiamento critico, la volontà di verità, laddove accertabile, ibridata con le scelta di valore della coerenza per la democrazia radicale.
 Se è funzionario di qualcosa, infatti, l’intellettuale è un funzionario della verità. Che ha bisogno della libertà come suo brodo di coltura. E di cui è parte integrante la capacità di smascherare la pretesa «oggettività» delle ideologie dominanti (a partire dalla «scienza» economica) e la volontà di demistificare il carattere «naturale» dei valori correnti (la morale «oggettiva» o «razionale» dei diversi cognitivismi etici). 
L’intellettuale è la cartina di tornasole che rivela gli interessi di establishment spacciati come fatti/valori ed eterne perle di saggezza, tra cui primeggia la menzogna di tutti i Menenio Agrippa fin dagli albori delle asimmetrie di potere: siamo tutti nella stessa barca. Una divorante passione illuminista costituisce il liquido amniotico dell’impegno critico e civile.

9. L’intellettuale è un privilegiato. Tre volte privilegiato, anzi. Ha potuto scegliere il mestiere secondo vocazione o voglia, ne ricava emolumenti assai superiori alla miniera, al call center o alle scartoffie di travet, vive la prerogativa impagabile di essere ascoltato. Il privilegio rende l’intellettuale libero. 
Il prezzo che paga per la coerenza dell’impegno è sempre infimo. La doverosa neutralità del sapere non può propiziare l’indifferenza dell’intellettuale come cittadino, abbiamo visto, poiché l’essenza critica dell’intellettuale è inestricabilmente intrecciata alla vocazione contro l’assoggettamento. 
La critica è già pregna di universalismo concreto, anzi: svolta fino in fondo non può che partorire libertà per l’eguaglianza, la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno. Di ogni individuo, del ciascuno che tutti noi possiamo essere. Quella di Marx era in fondo l’eguaglianza più individualista (o l’individualismo più egualitario): da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. La democrazia radicale è in primo luogo una questione di logica, massacratori di logica, nei versi di Dèmocratie, sono per Rimbaud i plotoni militari della Francia imperialista che hanno appena schiacciato la Comune di Parigi. 

Una razionalizzazione del disimpegno consiste nel ridurre l’impegno innanzitutto e per lo più al «lavoro ben fatto». Il mio impegno è girare un buon film, scrivere un buon romanzo, dirigere in modo geniale un’orchestra, costruire un grattacielo kalo;~ kajgatov~… Intenti encomiabili, che non esauriscono però l’impegno civile dell’intellettuale e spesso neppure lo sfiorano. Sembra che Céline abbia scritto romanzi ammirevoli, è certo che nel frattempo abbia vergognosamente tradito il suo privilegio/dovere di «chierico». 
Senza arrivare all’anti-impegno che bordeggia fascismo e razzismo, le vie del tradimento dei chierici attraverso il disimpegno sono più numerose di quelle della provvidenza.
Ci si può impegnare onorando il proprio mestiere, naturalmente. Veicolando la critica dell’esistente in un romanzo o in un film. E ci sono mestieri nei quali il venir meno della professionalità e dell’impegno fanno tutt’uno (ma quanti sono i giornalisti degni del nome, poiché per definizione il giornalista è una vestale delle «modeste verità di fatto», come le aggettivava polemicamente Hannah Arendt? 
E quanti i giuristi che non hanno tradito logica e diritto, rifiutandosi di baciare la pantofola del colle più alto, che aveva la procura di Palermo in gran dispetto?). 
Tuttavia la forma «per eccellenza» dell’impegno resta quella di spendere come cittadino e nelle battaglie civili il proprio prestigio, la propria «aura» e visibilità scientifica e culturale, tanto più se anche massmediatica. Fenomeno che in Italia sopravvive nell’indigenza. Al punto che sono state considerate eccessive le sacrosante invettive di Tabucchi, o le doverose poesie incivili di Camilleri, o l’esemplare militanza atea e pro eutanasia di Margherita Hack, o l’ovvio sostegno alla Fiom contro le prevaricazioni di Marchionne, e infine ogni firma per ogni buona causa, irrisa (la firma e la causa) da prelati e cheerleaders dello statu quo. 
L’intellettuale sa di essere innanzitutto un cittadino, altrimenti il suo essere critico è già naufragato nel narcisismo e il carattere bifronte del suo privilegio si è risolto nell’univocità del servilismo. 
Sa che il suo dovere di cittadino viene prima, anche se questo priverà l’umanità di qualche capolavoro. Marc Bloch, illustre accademico della Sorbona, storico fra i più grandi, a cinquantasei anni si fa militante tra i militanti del «sortez de la paille les fusils, la mitraille, les grenades», e dopo due anni di Resistenza a Lione viene catturato dai nazisti, torturato e infine condannato a morte. 
Il grande poeta René Char correrà lo stesso rischio come «Capitaine Alexandre» nel maquis delle Basses-Alpes e George Orwell nella guerra di Spagna in difesa della repubblica contro i fascisti.
 Parlare, scrivere, creare è già una modalità dell’agire, nessuno lo sa meglio dell’intellettuale, che sa perfettamente, però, come questo «performativo» possa diventare un alibi per dimenticare il cittadino e con ciò tradire anche il chierico.

10. Al ruolo dell’intellettuale si aprono spazi sempre più grandi, e doveri corrispondenti, quanto più latitano le figure di leader politici e sociali, e quanto più le prospettive di nuovi mondi possibili sembrano chiudersi a quella che Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica.
 Ci si sta rassegnando all’idea che ormai l’indignazione non possa più farsi azione, sia destinata ad avvampare solo come periodico fuoco di paglia di moderne jacqueries, incapaci di sedimentare conquiste di giustizia e libertà perché prive di un’idea di avvenire, di un progetto. 
Esplosioni di massa, magari prolungate, che per la sovranità del privilegio (che ha nel gattopardo il suo emblema) resteranno innocue, o potranno selezionare prepotenze inedite e più agguerrite. Le primavere arabe rischiano di sperimentarlo.

Ma la chiusura dei possibili non è un destino inaggirabile dell’epoca, la pietra inconcussa di una gerarchizzazione sempre più indecente ma sempre più inafferrabile di ogni società nel mondo globalizzato. La lotta continua, è incredibile come fiumane di cittadini non si stanchino di lottare. Rifiutano però di darsi forme organizzate che non le garantiscano in una perdurante autonomia, preferiscono la quasi certezza dell’inanità della lotta anziché un futuro di vittoria tradita, di dialettica sartriana del gruppo in fusione.

La riapertura dei possibili dipende dunque (quasi) tuttao dal versante della soggettività in rivolta, a tutt’oggi incapace di architettare forme organizzative dell’indignazione che nel promuovere efficacia della lotta e dei suoi esiti politico-istituzionali, scongiurino al tempo stesso il rischio che la vittoria si converta in inedita delusione/oppressione.

Il post-post-moderno di una liquidità mannara (forse liquidità, certamente mannara) vede le classi di potere che non calpestano più nella pratica di governo i valori di giustizia e libertà cui pagavano un rituale omaggio alle feste comandate: puntano ormai esplicitamente a cancellare la «legge eguale per tutti», a rendere anche formale la diseguaglianza, a legalizzare l’illegalità, perché non è ragionevole che un Marchionne (un Riva, un Thyssen) che crea lavoro per centinaia di migliaia di persone sia tenuto agli stessi lacci e lacciuoli di un pensionato improduttivo che finisce in galera se ruba una merendina al supermercato. Non è realistico, non è decoroso, non è concepibile, non è sopportabile.
 Leggi e costituzioni devono modernizzarsi, adeguarsi alla necessità di una giustizia diseguale per il potente e il cittadino ordinario. Il reale è razionale, si sa. Ecco perché il capitalismo realmente esistente reclama oggi il diritto allo schiavismo per i suoi salariati, alla trasformazione del cittadino in cliente, alla prostituzione della mente per tutti, pratica l’intreccio corruttivo-governativo (ed eventualmente mafioso) come nuova frontiera del sempiterno non olet e riconosce nel biscazziere a incarnazione finanziaria e nel lenone in versione istituzionale l’aggiornamento «liquido» del capitano d’industria e del professionista politico di weberiana memoria.

11. L’ideologia inconsapevole (per chi la subisce) che satura ormai il nostro orizzonte diventa perciò l’etica della lotteria, che sul versante degli oligarchi significa l’hybris di libertà per i titoli tossici e su quello dei sudditi si declina come attesa di miracolismo e rinuncia alle lotte. 

L’impegno dell’intellettuale sarà perciò per un illuminismo di massa, improbo perché sembra non volerlo nessuno, perché anti-consolatorio: abbiamo bisogno di endorfine, però e certamente, non di immunosoppressori dello spirito critico. Improbo e manicheo. Non si combattono le illusioni del pensiero unico, altrimenti, perché mai come oggi l’intellettuale deve farsi custode della parresia contro ogni potere
E solo così della speranza, fuoco che senza lotte si spegne.
Tiriamo le fila e concludiamo. 
Ciò che definisce l’intellettuale – il predicato quintessenziale del suo essere – è l’esercizio del sapere critico
L’intellettuale senza ostinata prassi critica è come il kantiano cielo stellato orbo di luce (senza lumi!), o più prosaicamente la vodka senza alcol: ipotetica del terzo tipo.
Ma l’acido della critica, nel mero procedere della sua applicazione, dissolve nel concetto la legittimità di qualsiasi diseguaglianza materiale, di modo che la semplice fedeltà al compito intellettuale impone l’impegno civico per l’eguale (e reale!) autonomia di tutti e di ciascuno.
 Un intellettuale che non si impegni per la democrazia radicale, dalla parte della vita offesa (poiché ogni ingiustizia è irredimibile e per sempre, nella finitezza dell’esistenza), che non si impegni politicamente per l’approssimazione asintotica di giustizia e libertà, sta negando se stesso perché sta mutilando la coerenza logica-critica che fa tutt’uno col suo essere.

                                                      Paolo Flores d'Arcais












Fonte: MicroMega 5/2013