martedì 29 ottobre 2013

La Gara al Ricordo della Grande Guerra


Iniziato come un sotterfugio per impartire corsi di recupero (di storia, letteratura, musica, arte...) a lettori, ascoltatori o telespettatori afflitti da analfabetismo di ritorno, il "centenario" si è trasformato in una notizia che ogni medium anticipa per primo per non essere “bruciato” dalla concorrenza, innescando così una corsa a precedere gli anniversari che spesso rasenta il ridicolo. 




Con una veloce ricerca su Amazon.de ho contato 61 volumi interamente dedicati alla Prima guerra mondiale usciti in tedesco dal primo gennaio di quest'anno o in prossima uscita. Tutti gli aspetti sono affrontati: la guerra in trincea, quella sottomarina, aerea, le infermiere, la propaganda, persino la nevrosi.

L'ondata editoriale si è scatenata in vista del centenario della Grande Guerra 1914-1918. Ma fino ad agosto in Germania erano usciti solo 22 libri, mentre a settembre c'è stato un'inondazione di titoli: 16 in un solo mese, seguiti dai 12 di ottobre, dai 6 annunciati a novembre e 3 a dicembre. L'aspetto più curioso è che tra questi 61 libri, solo due usciranno a gennaio 2014, cioè nell'anno esatto del centenario.

La febbre dei centenari nell'industria della comunicazione è assai bizzarra di per sé, visto che attiene al nostro sistema numerico. Se avessimo seguito gli antichi babilonesi che contavano in base 6 e 12 (l'anno è diviso in 12 (2x6) mesi di 30 (6x5) giorni, ognuno di 24 ore (2x12), ognuna di 60 minuti (5x12) e così via), staremmo a festeggiare non i decennali, ma i dodecennali e i sessantennali.

Iniziato come un sotterfugio per impartire corsi di recupero (di storia, letteratura, musica, arte...) a lettori, ascoltatori o telespettatori afflitti da analfabetismo di ritorno, il centenario si è trasformato in una notizia che ogni medium anticipa per primo per non essere “bruciato” dalla concorrenza, innescando così una corsa a precedere gli anniversari che spesso rasenta il ridicolo: il più diffuso quotidiano italiano, La Repubblica, dal 28 luglio 2013 scorso ha iniziato il racconto della Grande Guerra scoppiata nel 1914, celebrando così il centenario dell'evento nel suo 99-nario.

Certo, non tutti i centenari vengono celebrati dalla stessa profusione di titoli. Possiamo predire che l'anno prossimo, con la scusa dell'anniversario, in letteratura saranno ricordati il poeta irlandese Dylan Thomas (1914-1952), il messicano Octavio Paz (1914-1998), gli argentini Julio Cortazar (1914-1984) e Adolfo Bioy Casares (1914-1999), gli italiani Giuseppe Berto (1914-1978) e Anna Maria Ortese (1914-1998), il tedesco Arno Schmidt (1914-1979), i francesi Romain Gary (1914-1980) e Marguerite Duras (1914-1996).

Non azzarderemo molto neanche per la celebrazione dei 2000 anni dalla morte dell'imperatore Ottaviano Augusto (63 a. C. - 14 d. C.), i 400 anni del pittore El Greco (1541-1614), i 500 anni dell'architetto rinascimentale Bramante (1444-1514), i bicentenari del filosofo idealista tedesco Johan Gottlieb Fichte (1762-1814) e del libertino marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814).

Già è più problematico il ricordo di Josephine Beauharnais (1762-1814), prima e infedele moglie di Napoleone Bonaparte, mentre è controtendenza ricordare l'anarchico russo Michail Bakunin (1814-1876). E una vena di rimpianto dovrebbe tingere il centenario di Delmira Agustin (1886-1914), una delle più grandi voci della poesia uruguayana, uccisa a soli 28 anni da un ex marito geloso.
I cinefili potranno saziarsi con i film degli attori Alec Guinness (1914-2000), Tyrone Power (1914-1958) e Richard Widmark (1914-2008); mentre gli sportivi riascolteranno la canzone di Paolo Conte dedicata al ciclista italiano Gino Bartali (1914-2000) o sogneranno Marilyn Monroe pensando al campione di baseball Joe Di Maggio (1914-1999) che ne fu marito.

Solo gli specialisti spenderanno parole per Oscar Lewis (1914-1970) che elaborò il concetto di “cultura della povertà”, per Philippe Ariès (1914-1984) che per primo tracciò la “storia della morte in occidente”, o Jean-Pierre Vernant (1914-2007) che fu tra i primi a studiare gli antichi greci con lo stesso sguardo con cui i nostri antropologi guardano agli Yanomani. Ed è estremamente improbabile che qualcuno ricordi Pan Jin-Yu (1914-2010), l'ultima donna al mondo a parlare la lingua Pazeh degli aborigeni taiwanesi, una lingua che si è estinta con lei.

Personalmente preferirei che l'anno prossimo commemorassimo quella persona straordinaria che è l'olandese Etty Hillesum (1914-1943) o il matematico francese Jacques Feldbau (1914-1945) che studiò gli spazi fibrati: ambedue, ebrei, morirono nei Lager. Insieme a loro il capitano tedesco Rudolf Jacobs (1914-1944) che disertò, si unì ai partigiani italiani e fu ucciso in azione. E, perché no, la russa Irina Sebrova (1914-2000), pilota dell'aviazione sovietica durante la seconda guerra mondiale nella squadriglia di sole aviatrici chiamata le Streghe della Notte (non mi risulta che nessun altro paese al mondo avesse una squadriglia di pilote donne). E insieme a lei l'asso della Luftwaffe, il tedesco Erich Schmidt (1914-1941) che abbatté 47 aerei nemici.
O, per tornare a noi, i due scrittori francesi che caddero sul fronte della Marna nel primo anno di guerra: il cattolico Charles Peguy (1873-1914) e Alain Fournier (1886-1914) autore di un solo, ma stupendo romanzo, Il grande Meaulnes.

Sarebbe forse il caso di ricordare che la Grande Guerra segna la nascita di un simbolo del nazionalismo il cui centenario ci fa riflettere: infatti è in onore dei morti nella prima guerra mondiale che ogni paese eresse un monumento al Milite ignoto. L'Inghilterra nell'Abbazia di Westminster (1919), la Francia sotto l'arco di Trionfo a Parigi (1920), l'Italia nel Vittoriano a Roma (1921), gli Stati uniti ad Arlington (Virginia, 1921), la Germania su Unter den Linden (1931) a Berlino. Benedict Anderson ha scritto pagine memorabili sul valore fondamentale che ha per il nazionalismo moderno la “sconosciutezza” di quel cadavere in quella tomba: il suo anonimato è garanzia di collettività, per cui la nazione si riconosce nei suoi caduti “sconosciuti”, e perciò interamente suoi. Tra parentesi: oggi il Milite non potrebbe più restare ignoto, sarebbe identificato dall'analisi del Dna. Un'altra istituzione che sembrava dover durare millenni e invece finisce al macero in meno di un secolo.

Ci sarà modo di riparlare delle enormi, durature conseguenze che ebbe la Grande Guerra. Ma atteniamoci al tema del ricordo. Due elementi risaltano. Il primo è la memoria totalmente asimmetrica che ne hanno tedeschi da un lato e francesi, italiani, inglesi dall'altro. Per i tedeschi la guerra più devastante del XX secolo è stata la Seconda: quella è per la Germania la “Grande Guerra”: tra il 1939 e il 1945 furono uccisi 7 milioni di tedeschi, mentre nella prima guerra erano stati “solo” 2 milioni 40 mila (morirono anche 1,2 milioni di sudditi dell'impero austro-ungarico). Il contrario avviene negli altri paesi. Tenendo conto che nella seconda guerra mondiale morirono molti più civili (per bombardamenti, retate, occupazione, deportazioni), mentre nella prima le perdite furono quasi tutte militari, morirono 1,4 milioni francesi nella prima guerra e solo 610.000 nella seconda; 654.000 italiani nella prima e 415.000 nella seconda, 750.000 inglesi nella prima e 512.000 nella seconda. Anche il numero dei morti divide le coscienze europee.

Un secondo aspetto curioso del ricordo della Grande Guerra è la filmografia, in particolare quella americana. Se uno osserva la produzione di Hollywood, trova una caterva sconfinata di film sulla guerra civile (1861-1865) e altrettanti sulla seconda guerra mondiale, ma trova pochissimo sulla prima guerra mondiale, come se non ci fosse stata o come se non avesse lasciato tracce nella memoria collettiva. E infatti anche la produzione libraria statunitense per il centenario della Grande guerra è assai più povera di quella europea.

PS. Aspettando gli anniversari dell'anno prossimo, mi sia consentito augurare che in questo 2013, qualcuno celebri il tricentenario di uno degli intellettuali che hanno più contribuito a combattere l'asservimento e a rendere più civili la nostra società, quel Denis Diderot che nacque nel 1713. Senza di lui e senza le sue battaglie, non ci sarebbe neanche un giornale come quello in cui appare quest'articolo.

                                                              Marco d'Eramo

 







Fonte: Die Tageszeitung  del 27 Ottobre 2013