lunedì 14 ottobre 2013

Se per caso parlassimo di scuola e libertà d'insegnamento: Free o Big Society?


Nella mostra Playing Truant, l’artista italo-libica Adelita Husni-Bey riflette sulla pedagogia libertaria alla luce della liberalizzazione del sistema scolastico introdotta in Inghilterra dalla coalizione Con-Dem. 


Il referendum consultivo sui finanziamenti alle scuole materne private tenutosi lo scorso maggio a Bologna ha riacceso il dibattito tra i difensori dell’articolo 33 della Costituzione e quelli del principio di sussidiarietà. Se per i primi tale finanziamento rappresenta una violazione dell’articolo in questione, che qualifica le scuole private come istituzioni “senza oneri per lo Stato”, per i secondi esso favorisce la pluralità dell’offerta formativa, e costituisce un riconoscimento della funzione compensativa svolta dal servizio privato rispetto a quello pubblico, che da solo non sarebbe in grado di far fronte al carico della domanda.

In realtà i dati dimostrano l’opposto. Come riporta Giorgio Tassinari su Il Manifesto del 27 Maggio in riferimento al caso bolognese, le scuole pubbliche sarebbero state costrette a rifiutare 220 tra le domande ricevute, a fronte di 300 posti disponibili in quelle private. Caduta la giustificazione fondata sull’insufficienza delle risorse pubbliche resta quindi sola la prima, ovvero il poter disporre di strutture scolastiche con un indirizzo ed un’offerta formativa diversi rispetto a quelli proposti dalla scuola pubblica. Ad una scuola pubblica che ambisca a comprendere al suo interno diverse specificità religiose e culturali, i fautori della parità scolastica contrappongono una molteplicità di scuole che rappresentino ciascuna, singolarmente, queste particolarità.

Un dibattito simile è stato suscitato nel 2010 in Gran Bretagna dall’introduzione delle free schools, scuole fondate da gruppi di cittadini, indipendenti dalle autorità locali e tuttavia finanziate dallo stato. Secondo l’attuale Ministro dell’istruzione Michael Gove, la liberalizzazione del sistema scolastico consente ai cittadini di dare una risposta immediata alle proprie esigenze riducendo al minimo la mediazione dello stato, la cui unica funzione sarebbe di controllare la compatibilità tra programmi proposti dalle aspiranti free schools e le linee guida stilate dal ministero. La difformità di metodi ed obiettivi descritti nell’accurato reportage sulle free schools condotto dal giornalista John Harris per il Guardian sembra però suggerire che i parametri a cui ci si debba attenere non siano particolarmente vincolanti.

Durante il suo viaggio-inchiesta Harris ha incontrato i più diversi e stravaganti esperimenti formativi: scuole nel cuore del Kent in cui la matematica viene insegnata in mandarino tramite la tecnica dell’abaco cinese, o strutture come la Maharishi school dove la giornata inizia con quindici minuti di meditazione trascendentale in compagnia del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi. Tale deregulation dell’offerta formativa si accompagna inoltre alla privatizzazione del servizio di gestione. Questo perché nella maggior parte dei casi, le associazioni di genitori o di semplici cittadini non si fanno direttamente carico della amministrazione delle strutture scolastiche, ma la appaltano a grandi società private, che divengono in questo modo responsabili del loro intero funzionamento, dal mantenimento degli spazi alla selezione del personale. Dietro la facciata di una scuola più vicina alle esigenze particolari e locali della popolazione, si cela quindi la longa manus del grande capitale. “Founded by the community, in the community, for the community” è l’insegna che ha accolto John Harris all’ingresso di una scuola di Oakbank gestita da CfBT, colosso del management scolastico operante in tutto il mondo.

E’ proprio sull’ambivalenza del concetto di free school che riflette l’artista italo-libica Adelita Husni-Bey attraverso una serie di opere esposte all’interno della sua prima monografica Playing Truant, presso lo spazio Gaswork di Londra. Pedagogia radicale ed autorganizzazione sono da tempo temi cari a Husni-Bey, ma in questa mostra l’artista li inscrive per la prima volta all’interno del contesto politico inglese, combinando sapientemente lavori di carattere informativo (la timeline Policy, Benchmark, Criteria) con materiali d’archivio (i documentari Imagine a School…Summerhill, A Holidays from Rules) ed opere più espressive come l’installazione The Living House e il video Postcard From the Desert Island. 

Si tratta una mostra eterogenea e ricca, in cui le fonti della ricerca sono continuamente messe in relazione con i suoi esiti. E’ questo il caso della giustapposizione del videoImagine a School…Summerhill di William Tyler Smith (2006) alla timeline Policy, Benchmark, Criteria, dove Husni-Bey riassume i principali decreti approvati dal Ministero dell’istruzione inglese dagli anni settanta fino ai giorni nostri. Tramite la disposizione cronologica, l’artista mette in evidenza come le riforme della coalizione al governo non siano che l’ultima tappa di un lungo processo di demolizione della scuola pubblica iniziato più di trent’anni fa con Margaret Thatcher.

E’ la Thatcher infatti, ci ricorda Husni-Bey nella timeline, che a partire dalla fine degli anni ’70 impone una severa riduzione dei finanziamenti alla istruzione pubblica, decidendo, tra le altre cose, l’abolizione della fornitura gratuita di latte alle scuole primarie. Da allora, per buona parte dei cittadini inglesi, la Thatcher divenne l’invisa “milk snatcher”. Negli anni ottanta sarà poi la volta dell’adozione del modello aziendale: con l’education act n.2 del 1986 le scuole dovranno dotarsi di un governing body simile al consiglio di amministrazione di società private, e, solo qualche anno dopo, un nuovo decreto le solleciterà a scegliere i propri presidi tra gli esperti del management.

Nel mezzo della timeline minuziosamente compilata da Husni-Bey, campeggia il documentario Imagine a School…Summerhill realizzato nel 2006 da William Tyler Smith. Il video ripercorre la vicenda di Summerhill, scuola progressista inglese che negli anni ’90 viene inclusa tra le istituzioni “to be watched”, e successivamente minacciata di chiusura. La giustapposizione del documentario di Tyler Smith all’ultima parte della timeline, quella in cui vengono tratteggiate le ultime riforme di Michael Gove, induce a domandarsi se l’eccentricità dei programmi delle nascenti free school non sia che un falso indicatore del grado di libertà effettivo concesso agli spazi formativi.

Mettere in discussione l’idea di free school promossa dal governo britannico significa per Husni-Bey anche rimarcare la differenza che la separa dalla pedagogia anarchica, e da quelle scuole in cui, ancora oggi, proprio sulla scorta di questa tradizione, si cerca di ripensare la trasmissione di saperi ed esperienze. Attraverso l’installazione The Living House Husni-Bey riporta quindi alla luce la storia della Modern School di Stelton, una delle prime scuole anarchiche fondate nel New Jersey da seguaci del pensatore anarchico Francesc Ferrer i Guàrdia. L’opera si compone di una proiezione di diapositive ritraenti immagini della comunità Ferrer e di un’installazione sonora, risultato di un workshop tenuto dall’artista insieme agli attori del Living Theatre, compagnia nota per l’approccio partecipativo e anti-autoritario alla pratica teatrale.

Husni-Bey non si limita però ad indagare la genealogia della filosofia di Ferrer, ma cerca, al contempo, di cogliere cosa resta oggi di quella tradizione, recandosi nella scuola autogestita Vitruve di Parigi, dove conduce un workshop per tre settimane. L’esito di questa esperienza è un video ricco di momenti rivelatori, tanto della incredibile vivacità intellettuale del gruppo di bambini coinvolti, quanto della loro (e più in generale della nostra) difficoltà ad infrangere i limiti immaginativi (Postcard From the Desert Island). Ispirandosi al Signore delle Mosche di William Golding, Husni-Bey chiede ai partecipanti di dare forma ad una comunità su un’isola deserta, metaforicamente rappresentata dalla hall della scuola. Muniti di carta, legno, forbici e scotch, gli alunni dell’École Vitruve si ingegnano così a fabbricare tutti gli strumenti e le strutture necessarie alla sopravvivenza sull’isola: canne da pesca, tende, reti, lance.

Ma il momento topico del workshop sopraggiunge una volta terminata la fase di costruzione, quando i bambini si interrogano sull’ordinamento da assegnare alla propria comunità. Tutto d’un tratto si trovano così a dover decidere di questioni normalmente relegate al mondo dei grandi, come la definizione del confine tra spazio pubblico e privato, la scelta del baratto o della moneta, l’istituzione della prigione e la presenza di un potere sovrano. Si discute, si propone, si vota a mano alzata, si tracciano schemi e mappe nel tentativo di dare una forma stabile alla nuova vita sull’isola. E di fronte alla volontà di parte del gruppo di istituire un municipio, un bambino esorta gli altri compagni a protestare, gridando in coro: “pas de rois!”. Ma per quanto inventivi ed acuti si dimostrino i partecipanti al workshop, la loro immaginazione rimane in gran parte condizionata dal mondo reale, e finisce per riprodurne, anche se in parte, i contenuti e le forme. Il video di Husni-Bey mette quindi in luce come qualsiasi scuola “alternativa” resti inevitabilmente legata a doppio filo a quella realtà esterna di cui cerca di mettere in discussione le regole. Questo non significa, però, che congetturare nuovi mondi possibili sia uno sforzo vano. Come ci insegna Frederic Jameson, il pensiero utopico è un esercizio necessario, proprio perché serve a renderci consapevoli dei nostri limiti immaginativi.

L’espediente narrativo dell’isola deserta, dove ripensare un nuovo modo di stare insieme senza poter disporre di regole già prestabilite, riappare nel documentario A Holiday From Rules di William H. Murray, collocato all’ingresso della mostra. L’autogoverno sembra però qui avere esiti catastrofici. Qualsiasi attività, dal gioco alla condivisione del cibo, diviene fonte di incomprensioni e insolubili conflitti. E a seguito di continui tentativi di cooperazione falliti, una voce fuori campo ricorda ai bambini che questi sono gli inevitabili effetti del vivere un mondo senza regole. Presto quindi i protagonisti riacquisiscono fiducia nei confronti di tutte le limitazioni fino a poco prima mal tollerate, e decidono di portare a termine il viaggio immaginario in quell’isola foriera di pericoli. L’inclusione nella mostra del video di Murray, realizzato nel 1956, mette implicitamente in risalto l’apparente polarità tra un modello educativo disciplinante come quello passato, e l’attuale, in cui la possibilità di ritagliarsi una formazione su misura è concessa a patto che questa si accompagni ad un severo autogoverno.

E mentre la coalizione Con-Dem premia incondizionatamente tutti coloro che decidono di aprire scuole, a prescindere dalla loro reale necessità, essa progetta di inasprire le sanzioni verso chi, per qualsiasi ragione, sceglie di non andarvi. L’assenteismo scolastico (in inglese playing truant, come il titolo della mostra) verrà presto punito attraverso multe salate, automaticamente detratte dai “child benefit”, i sussidi erogati a tutti i genitori fino al compimento del sedicesimo anno dei propri figli. La pluralità di scelte promossa del governo sembra quindi non contemplare quella del rifiuto.

La prossima tappa del lavoro di Adelita Husni-Bey è Meeting Points 7, curato da Ana Devic, Ivet Curlin, Natasa Ilic, Sabina Sabolovic (What, How &for Whom/WHW) presso il MHKA di Anversa.



                                                                  Luisa Lorenza Corna