mercoledì 6 novembre 2013

Alla Ricerca dell'Impegno Perduto secondo Camilleri


La tendenza odierna di molti intellettuali italiani appare il disimpegno, contemplata dal rischio di sfociare non di rado nell' aperta indifferenza, le occasioni per ‘sporcarsi le mani’, nell’Italia dei nostri tempi di certo non mancano, ma che funzione svolgono gli intellettuali?


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L’impegno dell’intellettuale è una storia della quale cominciai a sentir parlare nell’immediato dopoguerra, con Sartre e tutti gli altri.
 Allora si chiedeva, da parte della sinistra, ma diciamo pure da parte del Partito comunista, una sorta di integrazione assoluta dell’intellettuale all’interno della politica del partito. 
Insomma, si chiedeva all’intellettuale un impegno civile, ma era un impegno esattamente definito dentro i «paletti» di un’ideologia e di una linea politica: chi sgarrava era fuori. 
Vedi Vittorini. Vedi tanti altri.

Successivamente, con la destalinizzazione e poi il boom, il carattere dell’impegno degli intellettuali è mutato, non più strettamente legato a un’ideologia ma più direttamente ai problemi della società.
C’è stata tutta una letteratura legata alla fabbrica, al boom economico e alla sua critica, prendiamo un autore certamente non «estremo» come Mastronardi…

Poi la critica, il senso politico, anche quello in senso lato sociale, è andato affievolendosi. Perché? Non lo so, eppure dopo l’onda lunga del Sessantotto, parliamo degli anni Ottanta, succede che ci troviamo in una situazione parecchio paradossale: in nove casi su dieci l’intellettuale in Italia non parla del mondo in cui vive, parla d’altro.


Una volta si diceva che la cultura si chiudeva in una sua «torre d’avorio», ed è proprio quello che è successo e che si sta accentuando.
 In peggio, addirittura, perché prima c’era l’impegno, poi il non impegno, e ora un terzo livello, il disinteresse per il mondo in cui si vive, l’indifferenza. 
Gli intellettuali che praticavano un tempo la «torre d’avorio» e magari la teorizzavano, erano consapevoli di questo loro «astrarsi» dalle vicende civili e politiche, ci tenevano a distinguersi, a essere considerati al di fuori, cioè «al di sopra». 
Oggi non c’è neppure questo aristocraticismo. Oggi c’è solo il «particulare»: lo scrittore racconta del suo ombelico, se vi sta bene, bene, altrimenti pazienza. 

Magari qualcuno obietterà che sul proprio ombelico Proust ha scritto un capolavoro in più tomi, che ci sono periodi storici in cui si può parlare ampiamente e splendidamente del proprio ombelico, magari anche oggi. Ma allora avanzo una contro-obiezione e chiedo una «separazione delle carriere»: tu come scrittore parli del tuo ombelico, ma come cittadino non puoi non accorgerti della situazione di disagio e di ingiustizia in cui vive la maggioranza del paese. Almeno come cittadino, ne vuoi parlare? Vuoi spendere una parte del tuo prestigio almeno per «aggregarti» umilmente con chi prende iniziative per combattere quelle ingiustizie? No, neanche questo. Ecco perché siamo a una sorta di grado zero della funzione dell’intellettuale oggi in Italia. Sono pochissimi gli intellettuali che partecipano come cittadini, e questo è un danno, un danno enorme. E anche una colpa. 

Perché se hai una qualche dote, che ti fa in qualche modo distinguere, ritengo un dovere che tu la debba usare impegnandoti come cittadino, è un modo di restituire parte dei privilegi di cui godi. Naturalmente bisogna intendersi sul termine «intellettuale». Mi lamentavo dell’assenza civile degli scrittori, degli artisti, perché altri intellettuali si impegnano, per fortuna. 

Zagrebelsky è un intellettuale, Rodotà è un intellettuale, però nel mio campo, nel campo più vicino al mio, io non trovo un impegno analogo, mentre la situazione del paese imporrebbe l’obbligo più assoluto di una costante par-te-ci-pa-zio-ne!
Il paese vive una situazione grave. La risposta sono le «larghe intese»? Io guardo i 700 mila posti di lavoro persi, denunziati non dalla Fiom ma addirittura dalla Confindustria. Settecentomila posti di lavoro persi in poco tempo, e non è che le immediate prospettive facciano sperare che si recuperino in due o tre anni. In Italia c’è una guerra in atto. Che cosa succede quando avviene una guerra? Spariscono due o tre generazioni, spariscono perché sono morti, rimangono lì sul campo, giovani, belli, di 22, 23, 24, 25 anni, schiattano tutti messi in fila e non hai problemi. Da noi è lo stesso. Noi ci troviamo con due, tre, quattro generazioni alle quali abbiamo levato praticamente ogni speranza di sopravvivenza. Solo che sono vivi.

E c’è qualcuno che ai pochi intellettuali che si impegnano ha la faccia tosta di rimproverare di occuparsi di problemi astratti, con cui non «si mangia», tipo la giustizia, il conflitto di interessi, l’ineleggibilità di Berlusconi, l’autonomia della magistratura, gli attacchi contro la procura di Palermo… come se non fossero cose concrete anche queste.

E allora: è vero, io personalmente Andrea Camilleri, nome e cognome, ho difeso la procura di Palermo e al tempo stesso mi sono trovato più volte accanto alla Fiom per ciò che riguarda i problemi del lavoro. Perché sono certo che c’è un nesso, che bisogna avere una visione delle connessioni tra i problemi. È astratto proprio «settorializzare». Il problema della giustizia è in strettissimo rapporto con il problema dei soldi che ci sono, per esempio. L’evasione fiscale gigantesca, il costo gigantesco della corruzione.

Il funzionamento della giustizia (oltre al problema Berlusconi, che resta cruciale), che snellisca e acceleri i processi, compresi quelli della giustizia civile, perché un investitore straniero che voglia venire in Italia, competente il Foro di Roma (ma non solo), si terrorizza all’idea di un qualsiasi contrasto. 



Se non combatti la tangente l’economia non riparte. Una legge come quella attuale sul falso in bilancio che garanzia dà? Sono tutte «perle» che sembrano slegate dalla crisi economica, ma insieme fanno invece una collana. Pensiamo alla prescrizione, basterebbe abolirla dopo il rinvio a giudizio, e i processi sarebbero infinitamente più rapidi. A parte il fatto che una sentenza per prescrizione lascia tutto in quella ambiguità alla quale noi italiani ci rassegniamo, e che è uno degli elementi peggiori della nostra vita associata. In Italia, i misteri d’Italia non si risolvono mai. 

Qualche giorno fa il presidente Napolitano se ne viene fuori che vorrebbe sapere la verità sull’abbattimento di Ustica. Bene, sono passati trent’anni, è davvero sbalorditivo stare dentro al potere per decenni, e poi «chiedere chiarezza». Della strage di Bologna ancora non sappiamo come davvero siano andate le cose. Nell’ambiguità italiana i personaggi del potere ci sguazzano, perché sono personaggi ambigui, tutti. Poi ti accusano di antipolitica.

Non so se Napolitano sappia, so che anche Cossiga faceva il gioco di chiedere chiarezza, ed era addirittura più diretto, perché indicava ipotesi. So soprattutto che quello dell’ambiguità è in Italia lo sport nazionale. Guardiamo il governo della «larghe intese», un capogruppo del Pdl dice che questo governo non funziona, il vicepresidente del Consiglio di questo governo dice che se non si fa una certa legge il governo se ne va a casa, eppure sono al governo e questo signore ne è addirittura il vicepresidente! Se gli amministratori delegati di una società ragionassero e parlassero così, la società in Borsa andrebbe a vacca nel giro di trenta secondi.

Gli intellettuali, in una situazione così, avrebbero di che pascere, e invece non lo fanno. Alcuni per «non sporcarsi le mani» con la politica, altri per un certo timore di perdere qualche privilegio, di non essere invitati in qualche salotto. Magari dirò una sciocchezza, ma se il bianco è il bianco e il nero è il nero, e tu sei il bianco che comincia a combattere il nero, la situazione è chiara, sai chi sono i tuoi alleati, sai chi sono i tuoi nemici. Ma in un mondo melmoso, paludoso, come quello della politica italiana, probabilmente fa già un po’ di ribrezzo perfino entrarci dentro. Eppure si può e ci si deve rimboccare le maniche e combattere con impegno politico contro la politica ridotta a cosa sporca. È inutile chiamare questo impegno «antipolitica», la politica resta essenziale, è indispensabile alla vita di una nazione. Ma se questa politica diventa una cosa putreolente è chiaro che tu…
Ecco perché gli intellettuali dovrebbero impegnarsi in politica: per farla tornare a essere quella che è stata o, meglio ancora, quella che potrebbe essere.

So che quando pubblico un libro ho un certo numero di lettori. E che nei confronti di un romanzo circa il 99 per cento dei lettori si ferma alla «prima lettura», alla superfice. Però qualcuno va più a fondo. E allora so che anche nel mio piccolo, anche attraverso Montalbano, posso parlare dei problemi dell’Italia di oggi. Se i miei colleghi non vogliono far questo nei loro romanzi, almeno, visto che hanno la possibilità di scrivere sui giornali, di apparire in televisione eccetera, da cittadini esprimano le loro idee, che voglio sperare (anzi ne sono certo) non saranno quelle di una politica di basso conio. 


Lavorare per orientare l’opinione pubblica nel senso di più «giustizia e libertà», per educarla a questi valori, dovrebbe per un intellettuale, per uno scrittore, essere sentito come un dovere. Sentirsi responsabili per la formazione dell’opinione pubblica e, se non si fa nulla, sentirsi come un maestro di scuola che non fa lezione, che viene meno ai suoi doveri.

È triste dirlo, ma effettivamente pochi scrittori e pochi intellettuali lo fanno. Firmare un appello, partecipare a un’iniziativa, significa come dicevo prima «aggregarsi» con chi si è fatto carico di un problema, lo ha individuato meglio di te, lo espone e organizza la lotta per risolverlo. Significa partecipare alla vita sociale. Quelli che dicono che un intellettuale che firma un appello viene meno al suo ruolo non sanno quello che dicono: si può accusare un intellettuale perché partecipa alla vita sociale?

Forse se oggi sono così pochi gli intellettuali impegnati è anzi perché non si può impegnarsi, diciamo così, «in carrozza», con licenza dei superiori, avendo alle spalle un partito. Oggi se ti impegni, devi farlo a nome tuo e basta, ma io trovo che sia più stimolante, avere dietro la rete del partito la trovavo un’esercitazione da circo equestre per bambini. Impegnarsi in prima persona è assai più stimolante e, se mi è concesso, assai più dignitoso.

C’è anche un modo più sottile di evitare l’impegno, restare sul generico, in modo che non sia scomodo per nessuno. Chi è che non aderisce a un manifesto contro la mafia? Perfino Totò Riina aderirebbe… Quando vai all’atto pratico e devi trarre le conseguenze concrete, allora le cose cambiano, devi difendere dei magistrati con nome e cognome, quelli della procura di Palermo, tanto per dire. E allora a impegnarsi con coerenza rimangono in tre o quattro. 

Ci sono atteggiamenti che non capisco. A proposito di procura di Palermo, ad esempio. Non parlo neppure dell’atteggiamento di Napolitano, mi colpisce perfino di più l’atteggiamento della gran parte della stampa italiana rispetto a un atto fatto dal presidente della Repubblica: sono rimasto sinceramente molto turbato che chi ha criticato il presidente sia stato accusato, o poco ci mancava, di lesa maestà, quasi che il presidente della Repubblica fosse «Sua Maestà». E questo mentre non si fa una piega nei confronti di manifestazioni di piazza contro una sentenza, con tanto di parlamentari berlusconiani e con Berlusconi che qualche giorno dopo viene ricevuto dal Quirinale! 

Questo atteggiamento unanime, di conformismo dei media non è che mi ha sconcertato, mi ha quasi spaventato: mi ha atterrito sentire e leggere che non appena si sentisse la voce dell’Altissimo bisognava chiudere immediatamente le registrazioni, bruciarle… Significa confondere il rilievo, la dignità, l’importanza di una carica, che è pur sempre una carica, con una sorta di cattolica infallibilità della medesima. Ripeto: questo mi spaventa.

Un tale atteggiamento di sudditanza a Napolitano è perfino più inquietante delle stesse scelte fatte dal presidente. Posso ripetere qui quanto ho detto in un confronto pubblico con Massimo Ciancimino: per l’amor del cielo, cerchiamo di essere persone concrete, la trattativa è innegabile, no? Non è difficile da immaginare: da questa parte del tavolo siede Totò Riina e Ciancimino (il padre) dall’altra il generale Mori; è chiaro lo squilibrio di forze, da una parte due generalissimi, Riina e Ciancimino, dall’altra sì e no un caporalmaggiore.

I due avranno chiesto a Mori: «Quali sono le sue commendatizie, Signore? Chi la manda? Chi l’autorizza a venire a trattare? Perché altrimenti noi “nni susemo e nni nni iemo” [qui Camilleri ripete l’espressione in romanesco: “S’alzamo e se n’annamo”, n.d.c.], in quanto lei non ha nessuna voce in capitolo, nessuna autorità». È chiaro che a questo punto i nomi sono stati fatti, ma non solo i nomi, sono state portate le prove che quei nomi corrispondevano a volontà precise. Chiaro? Perché altrimenti non ci sarebbe stata nessuna trattativa. Insomma, troppe volte si dice che si vuole chiarezza ma in realtà di preferisce mantenere la nebbia. È come quando dicevano: Andreotti e Coso si sono baciati? Ma figurati! Non è possibile! Eppure la risposta vera è stata data dall’attore comico siciliano Ciccio Ingrassia: se si sono incontrati, allora si sono anche baciati. Il punto cruciale è in quel se. Il bacio viene di conseguenza e non è neppure essenziale.

Perciò, se la trattativa c’è stata, vuol dire che il caporalmaggiore Mori aveva dietro di se i capi di Stato maggiore che gli avevano dato l’incarico, e aveva la possibilità di dimostrare di averlo effettivamente ricevuto. Perché allora oggi tutti, tranne qualche magistrato sempre più solo e nel mirino, sembrano preferire la nebbia? Non voglio arrivare a dire perché sono tutti coinvolti. Non lo so. Questa voglia di servilismo, questa servitù volontaria, io infatti non riesco a spiegarmela. 
Tra le tante cose che mi preoccupano dell’Italia di oggi, quella che più mi preoccupa è lo stato dell’informazione. L’ambiguità dell’informazione, il detto e non detto, il non chiarire, il tenersi la nebbia. Del resto, la trattativa Stato-mafia, che c’è stata, è una cosa gravissima, ma non ci fu a suo tempo la trattativa Stato-Brigate rosse? 

Tirare fuori la trattativa con la mafia costringe a diverse domande inquietanti, alle quali probabilmente non ci sono risposte. Comunque io non credo che un ministro della Giustizia decida motu proprio l’alleggerimento del 41 bis senza consultare gli altri membri del governo, queste sono fantastorie che possono andare a raccontare agli altri. In realtà i tentativi di accordo ci furono, ed è grave che uno Stato tratti con la mafia. Ma, lo ripeto, questo stesso Stato la prova generale di trattativa con la criminalità organizzata l’aveva fatta con il caso Ciro Cirillo. «Mai trattare con i terroristi» e poi si trattò per la sua liberazione. È stata la prova generale.

Con la mafia non può essere andata diversamente. Oltretutto, quel tavolo di trattativa in cui sedeva Mori era talmente importante che la mafia vi operò addirittura un cambio di «rappresentanza»: poiché l’irragionevolezza di Riina tagliava la strada a qualsiasi trattativa, allora si sono venduti Riina ed è subentrato il «diplomatico» Bernardo Provenzano. Quindi vuol dire: la trattativa c’era ed era seria.

Di fronte a fenomeni così gravi, non capisco il silenzio di troppi intellettuali. Non so come spiegarmelo. In alcuni è pura imbecillità, diciamolo francamente. In altri è assoluto disinteresse, in altri è una sorta di… continuare a convivere con quell’ambiguità di cui parlavamo prima. Poi ci sono quelli che arrivano a dire «ma è storia vecchia, dai, è passata in giudicato, non interessa più». Perché sembra che ormai in Italia le «storie» abbiamo una scadenza di ventiquattr’ore. Dopo ventiquattr’ore spariscono, dalla stampa, dalla televisione, dalla memoria dell’opinione pubblica, spariscono da tutto. 


Eppure una delle funzioni dell’intellettuale è coltivare la memoria. Brutta storia questa perdita di memoria. Anche quando i processi si fanno, dopo trenta o quarant’anni, quante testimonianze non sono più possibili, quanto prove sono state opportunamente perse, e tutto finisce nel dimenticatoio.

Uno storico potrebbe divertirsi a scrivere un’autentica storia d’Italia, una storia del non detto, una storia d’Italia per omissioni, sarebbe interessantissima. Dal delitto Moro a Ustica, dalla stazione di Bologna all’Italicus, dalla Banca dell’Agricoltura a Milano a quella di piazza della Loggia a Brescia, se li mettiamo tutti in fila la storia d’Italia è un continuo succedersi di bombe e di attentati, e di ruolo di alte cariche e perfino presidenti della Repubblica. Stranamente negli ultimi 20-25 anni le stragi cessano, dopo la famosa trattativa, come se tanti anni di bombe avessero provocato dei crateri melmosi dentro i quali affondare e controllare il paese. Attenzione, però, perché l’intellettuale che crede di salvarsi con la non partecipazione rischia di affondare in questa stessa melma.

Perché la mancanza di partecipazione è contagiosa. Se ci sono intellettuali che partecipano, dibattono, polemizzano, si mantiene viva la ricerca delle soluzioni ai problemi. Se gli intellettuali smettono di partecipare, tutto torna nella nebbia e nel silenzio.



 Se ci fosse un Pasolini, oggi magari il Corriere accanto al suo articolo ne pubblicherebbe un altro per smussarne le punte, ma comunque Pasolini lo pubblicherebbe. Ma oggi non c’è un Pasolini, uno Sciascia, neppure un Moravia, che in più momenti è stato lucidissimo e bravissimo sui problemi italiani. Quando manca questo sprone continuo, anche l’intellettuale che si impegna finisce per trovarsi isolato, ha la sensazione che il suo diventi solo uno sfogo di malumore, perché manca il confronto, chi ti controbatte, magari, ma senza eludere i problemi.

La cattiva salute dell’Italia è data oggi anche da questa sorta di melassa dentro la quale tutti ci rotoliamo e dall’omologazione che ne consegue.


 Un giovane intellettuale che comincia a emergere oggi, non emerge perché rappresenta una voce fuori dal coro ma proprio perché sa raccogliere meglio di tutti un desiderio dominante di non impegno, di non partecipazione. Per questo Antonio Tabucchi ci pareva una voce rara. Ma ai tempi di Sciascia e Pasolini, non era una voce rara. Poi è diventata una voce rara, Antonio, perché era ormai l’unico che dicesse le cose con chiarezza e anche con il necessario sdegno. Dopodiché, fine. In realtà gli intellettuali – non vorrei pronunciare parole per cui domani mi diranno «da dove arriva questo a farci lezioni?», ma lo devo dire, con molto dispiacere – gli intellettuali oggi non hanno coscienza neanche del loro tradimento.

Talvolta si concedono un impegno blando, pro forma, sempre tenendosi sulle generali, ma è come fare l’elemosina. Mentre ci sarebbe bisogno che gli intellettuali avessero oggi il coraggio di impegnarsi in prima persona, parlando chiaro, facendo j’accuse concreti, rispondendo solo alle proprie idee, poi se il partito x pensa y non me ne frega niente e se anche il salotto x e il giornale y, io vado avanti comunque…

Non so perché gli intellettuali non lo facciamo, se non in pochi. Cos’hanno da perdere? Eppure molti pensano di essere impegnati, di essere coraggiosissimi. Ma si limitano ai valori generali, e dunque non colpiscono nessuno. Mentre se vuoi lottare contro la mafia devi schierarti con quelli che la mafia la combattono davvero.

Perché mi sono schierato con Caselli, Ingroia, Scarpinato e con tanti altri magistrati che lavorano per sconfiggere la mafia? Ma perché se io voglio essere contro la mafia, quei magistrati ho il dovere di considerarli un prolungamento di questa mia scelta, un braccio mio (e di tutti i cittadini che pensano che con la mafia non si debba convivere), e dunque non posso rinnegare il mio braccio, devo difenderlo.


 Ecco perché ho difeso Ingroia nelle recenti polemiche e non esiterò se qualcun altro si troverà nella stessa posizione. A restare sul generico siamo tutti bravi. Ma l’impegno si dimostra andando nel concreto. Sei contro la disoccupazione, per la difesa dei posti di lavoro? Ma chi è che questa lotta la fa davvero? Landini e la Fiom. E allora devi stare con la Fiom e con Landini, non è che rimani nel generico. 

Ma è proprio questo passo, quello della coerenza e della concretezza, che ripugna a molti intellettuali. O li spaventa.


                                                             Andrea Camilleri



Fonte: MicroMega 6/2013 numero dedicato al tema <<L'Intellettuale e L'Impegno>>.