martedì 5 novembre 2013




Che cosa significa “rappresentanza” in Kant? E come tutto ciò si collega alla distinzione fra forme di Stato e forme di governo? Ne parla Giuseppe Duso, nel suo recente Idea di libertà e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, (Polimetrica, 2012), di cui pubblichiamo, per sua gentile concessione, un estratto.




Idea di liberta e costituzione repubblicana nella filosofia politica di KantBisogna allora mettere a fuoco ciò che Kant intende per quella rappresentanza che costituisce il nucleo centrale dei principi repubblicani: solo così si eviterà di fraintendere il pensiero kantiano e si potrà comprendere il suo contributo specifico all’interno della storia dei concetti politici moderni, contributo che consiste in una problematizzazione filosofica. In tal modo sarà possibile anche intendere il significato che viene a prendere il termine direspublica. Certo questo non è assimilabile all’uso pre-moderno, che indica ciò che accomuna una pluralità di parti politiche, come evidenzia una copiosa iconografia, in cui la repubblica è raffigurata mediante un corpo femminile le cui diverse membra alludono alle parti della società, principe, senato, milizie ecc.. Neppure il termine si risolve totalmente nel quadro della moderna sovranità, segnato dal dualismo radicale di pubblico – come politico – e privato, in cui l’unica comunanza sta nell’aver riconosciuta la sfera del proprio arbitrio e del proprio interesse dal potere unico. Infine il termine non può essere inteso secondo l’assetto delle moderne costituzioni, nelle quali vi è separazione dei poteri e un principio rappresentativo che si basa sull’autorizzazione che i cittadini esprimono mediante il voto. Nel significato del termine repubblicanoriemerge in Kant una nuova comunanza, non riducibile alla sudditanza e alla difesa della propria sfera privata, una nuova appartenenza, al di là dell’unità realizzata dal potere: è l’appartenenza alla sfera pubblica della ragione, che determina per i cittadini un ambito di partecipazione diverso e ulteriore nei confronti di quello del voto[1].
Nella costruzione hobbesiana il rapporto di rappresentanza è totalmente risolto nella forma a cui dà luogo il processo di autorizzazione: il fatto che la volontà del soggetto collettivo non possa essere espressa se non da colui che lo impersona, che lo rappresenta, significa che la volontà espressa dal rappresentante è immediatamente la volontà del popolo. Non c’è nessuna eccedenza della volontà dell’essere collettivo nei confronti della sua espressione empirica attraverso il rappresentante sovrano. In tal modo la funzione rappresentativa si risolve nell’espressione di una volontà arbitraria, che non ha nessun punto di riferimento e nessun obbligo fuori di sé. Così non è in Kant. Il fatto che il vereinigter Wille des Volkes, in quanto grandezza ideale, debba passare attraverso la mediazione rappresentativa, non significa che si identifichi con l’espressione empirica della volontà comune da parte del rappresentante (chiunque esso sia, a seconda della forma dello stato: il monarca, i pochi o tutto il popolo). Non abbiamo qui un meccanismo procedurale legittimante, sia pure ideale, quello proprio della figura del contratto sociale, che, partendo dalla volontà dei singoli, autorizzi l’espressione della volontà comune da parte del rappresentante. “Autorizzare” significherebbe che ognuno non può che ritenere come propria la volontà del rappresentante in ragione del processo di autorizzazione, senza cioè poter giudicare di volta in volta i contenuti della rappresentazione, cioè i contenuti del comando espresso dalla persona legittimata a ciò. In Kant è invece necessario che colui che dà la legge guardi alla ragione e alle sue leggi, che non dipendono da un semplice gioco degli arbitri.
Un tal modo di intendere il principio rappresentativo emerge già nel momento in cui si identifica in esso l’elemento che caratterizza la costituzione repubblicana, che – Kant si preoccupa di precisare – non deve essere scambiata con quella democratica, dal momento che è piuttosto a quest’ultima opposta. Se si intende bene in che cosa consiste questa contrapposizione e dunque il carattere specifico che Kant ravvisa nella democrazia, si potrà capire come la rappresentanza non possa essere ridotta alle procedure costituzionali della democrazia contemporanea, e dunque come la riflessione kantiana sulla rappresentanza non si esaurisca nell’affermazione della democrazia rappresentativa come modello costituzionale. In Sulla pace perpetua il principio rappresentativo viene introdotto in seguito alla distinzione tra leforme di Stato e la forma o il modo del governo.
Questo è un punto che porta con sé una serie di difficoltà e che bisogna cercare di chiarire. Il problema è molto complesso. Infatti Kant distingue le forme di Stato in relazione alle persone (Personen) che detengono il sommo potere statale (oberste Staatsgewalt). In tal modo egli riprende la distinzione tradizionale delle cosiddette forme di governo. Tuttavia tale ripresa è nell’ottica della moderna sovranità che in realtà, in base al concetto dell’uguaglianza degli uomini, esclude che tra di essi possa razionalmente esistere una relazione basata sulla diversità, come quella esistente tra chi governa e chi è governato. Conseguentemente non essendo più pensabile il governo, nel senso antico del termine, viene a perdere di significato la stessa distinzione tra quelle che sono, in senso proprio, forme di governo[2]. Ora Kant, riferendosi a queste forme di Stato o dell’imperium, pensa di indicare le persone che sono depositarie della sovranità e che possono dunque esprimere il proprio comando come comando del corpo collettivo. Ma nella formalità di questa logica il contenuto del comando dipende unicamente dall’arbitrio dei detentori del potere, dell’imperium o della Herrschaft, di colui o di coloro che si trovano nella situazione di essere Herren, detentori appunto del comando, dell’autorità, del potere.
Non è a questo livello, delle forme di Stato, che Kant parla del principio rappresentativo. La rappresentanza emerge piuttosto nell’ambito della forma di governo (forma regiminis), del modo cioè secondo il quale coloro che detengono il potere nella sua pienezza (Machtvollkommenheit) ne fanno uso. È questa la cosa di maggior rilievo, la modalità dell’esercizio del potere, che può avere due soluzioni: o quella repubblicana, o quella dispotica. Ora la differenza tra dispotismo e repubblicanesimo è tutta giocata sulla distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo. Questa distinzione si riferisce alla modalità dell’uso del potere, che può essere esercitato o come fosse cosa propria, secondo il proprio arbitrio – e allora si ha dispotismo – oppure in modo rappresentativo, cioè riferendosi a regole razionali che indicano la via della legge e che escludono che sia la propria volontà a divenire legge[3].
La distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo non mi pare possa essere identificata con quello che si intende nel momento in cui, in età contemporanea, si parla di divisione dei poteri. Nel contesto kantiano non si tratta di individuare gruppi di persone o corpi dello Stato che, con forme diverse di autorizzazione, esplichino il proprio potere in forma indipendente e tale da poter controllare gli altri poteri. Non è a questo meccanismo costituzionale che Kant allude[4]. Infatti nel testo a cui ci stiamo riferendo si vede come la distinzione del potere legislativo da quello esecutivo si tramuti nell’affermazione del principio rappresentativo: il sistema del governo, se vuole essere repubblicano, e dunque conforme al diritto, non può che essere rappresentativo. Ciò che in questo contesto viene chiamato rappresentativo(ZeF 352-353, M 184-185, G 172-173) o sistema rappresentativo (das repräsentative System) non è legato alla necessità costituzionale che qualcuno eserciti di fatto il potere per tutto il corpo politico, ma piuttosto che l’agire di costui non dipenda dal proprio arbitrio, bensì dalla ragione e dalle sue leggi[5]. Allora la separazione tra esecutivo e legislativo appare consistere in questo: che il detentore del potere (che è colui che di fatto fa le leggi) non si limiti ad esprimere la sua propria volontà, ma piuttosto si riferisca alla volontà legislatrice del popolo.
Allora si può comprendere come, delle tre forme di Stato, quella democratica sia necessariamente dispotica, in quanto si basa sulla assolutizzazione della volontà di tutti: infatti essa stabilisce “un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno, ed eventualmente anche contro uno (che non è d’accordo con loro, e dunque tutti deliberano anche se non sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà”[6]. Naturalmente qui non si tratta semplicemente del potere esecutivo, in quanto la democrazia è una forma di Stato, che implica che il popolo sia legislatore, come appare chiaro nella Rechtslehre, dove vengono distinte le diverse forme in cui si può incarnare il potere sovrano e in cui questo potere si rapporta con il popolo[7]. Il potere sovrano dello Stato (che Kant chiama Beherrschung, Herrschaft, o Souveränität), può avere come depositario o una sola persona, e allora si ha autocrazia, o alcune persone, e allora si ha aristocrazia, o la totalità del popolo, e allora si ha democrazia. In quanto queste tre forme incarnano il potere sovrano, e quest’ultimo si esprime nella formazione della legge, le tre forme imperii costituiscono tre maniere di intendere il potere legislativo e dunque il modo di esprimersi della volontà comune o del comando che costituisce la legge[8]. Conseguentemente le tre forme di Stato implicano anche che i detentori del potere siano coloro che esprimono l’aspetto più alto del potere, quello di fare la legge, riunendo in sé potere legislativo e potere esecutivo. Ciò è da tenere presente, perché quando Kant si riferisce alla forma regiminis, cioè di governo, non si riferisce alle forme diverse che può avere l’esecutivo, ma al modo di esercitare il potere, che può essere o dispotico o repubblicano e cioè rappresentativo.
La critica della democrazia, che qui è intesa come democrazia diretta, non dipende tanto da una mancata distinzione di carattere empirico e fattuale tra potere legislativo e potere esecutivo: in questo caso basterebbe che il popolo legislatore affidasse ad un esecutore, al principe, l’esecuzione delle leggi, alla maniera di Rousseau. Il problema consiste piuttosto nel fatto che, se il popolo è inteso come soggetto empiricamente presente, tende ad esercitare il potere a proprio arbitrio, essendo il soggetto collettivo e non secondo le leggi della ragione: non ha nessun punto di riferimento ideale al di fuori del suo arbitrio eil suo arbitrio viene scambiato per volontà generale. È allora escluso ilprincipio rappresentativo, in quanto ognuno (e tutti insieme) vuole essere sovrano (Herr sein will)[9]. La democrazia, in quanto dispotismo, è caratterizzata dalla mancanza del principio rappresentativo, risultando, in tal modo, priva di forma (Unform). Qui non viene detto che la democrazia corre il rischio di essere dispotica, ma piuttosto che in quanto tale è dispotica: incarna il dispotismo nella forma più pura, si potrebbe dire, in relazione alle altre forme. In quanto il popolo, inteso come reale soggetto della politica trova in sé una volontà che è assoluta, che da niente può essere vincolata.
Il senso della critica alla democrazia e il vero significato del principio rappresentativo possono essere compresi se ci si chiede in quale senso il principio rappresentativo sia principio di forma e perché le tipologie non democratiche (intendendo in questo caso la democrazia come democrazia diretta) non siano, in senso pieno, rappresentative. L’affermazione kantiana che ogni forma di governo che non sia rappresentativa (e dunque il dispotismo, in cui si riassume un uso del potere non  repubblicano, in quanto non ispirato al principio rappresentativo o – e ciò sembra essere la stessa cosa – alla distinzione tra legislativo ed esecutivo) è priva di forma potrebbe suggerire una riflessione basata sul principio rappresentativo quale è nato con Hobbes ed è venuto a caratterizzare lo Stato moderno: solo attraverso il rappresentante la volontà generale può prendere forma e dunque presentarsi in modo determinato[10]. Ma non è tale il senso dell’affermazione kantiana. La forma richiede che colui che detiene il potere non possa esprimersi in modo arbitrario, ma si debba rivolgere alla razionalità della volontà generale e a quell’idea del popolo legislatore che eccede colui che di fatto deve esprimerla, rappresentarla. Se la volontà generale fosse immediatamente quella che il detentore del potere rappresenta, ci sarebbe arbitrio, mancanza di razionalità e di forma. Ritroviamo in tal modo quella sfera della ragione, come superiore alla emanazione della legge, che si è presentata nel Gemeinspruch attraverso la libertà di penna.
Per comprendere cosa Kant intenda per rappresentanza è necessario capire il vero senso della critica alla democrazia e il perché non siano considerate rappresentative monarchia e aristocrazia, cioè l’esercizio del potere pubblico da parte di uno o di pochi. Chiediamoci innanzitutto come mai, se il dovere del legislatore è quello di riferirsi all’idea del contratto originario e dunque al principio di fare le leggi come se (als ob) tutto il popolo le facesse, Kant rifiuti la possibilità che sia tutto il popolo, insieme riunito e concorde[11], a poter legittimamente decidere e ad esercitare il sommo potere. Può sembrare paradossale che si ravvisi nella volontà del popolo il vero sovrano e si rifiuti nello stesso tempo l’idea democratica dell’esercizio del potere da parte del popolo. La ragione non consiste tanto, in questo caso, nella difficoltà di pensare il popolo, nell’accezione dell’insieme di tutti, come empiricamente presente, quanto piuttosto nel fatto che ci si troverebbe di fronte ad un soggetto che può intendere il suo arbitrio – qualunque esso sia – come volontà generale, solamente per il fatto che è costituito dalla totalità dei cittadini. In tal modo andrebbe persa l’eccedenza ideale e razionale della volontà comune nei confronti di chi esercita il potere e si trova ad esprimere la volontà del soggetto collettivo. Si avrebbe identità di potere legislativo e potere esecutivo, nel senso in cui ne parla Kant. Perciò il pensiero del popolo come soggetto empiricamente presente offrirebbe una modalità immanente di legittimazione che perde quel necessario rapporto con la ragione che è principio di forma e che caratterizza un governo repubblicano. Il popolo cioè, in quanto soggetto collettivo,  costituirebbe una fondamento immanente della politica, autosufficiente e perciò assoluto, negando proprio quella eccedenza dell’idea che vedremo essenziale per il pensiero kantiano della prassi.


                                                                                      GIUSEPPE DUSO










NOTE
[1] Sulla funzione regolativa del senso comune al di là della sua riduzione al piano empirico dell’accordo delle opinioni, cfr. F. Menegoni, L’a-priori del senso comune in Kant dal regno dei fini alla comunità degli uomini, “Verifiche 19 (1990), pp. 13-50; per il significato politico del senso comune e del giudizio è da tenere presente la nota proposta di H. Arendt, specialmente inThe Life of the Mind, Chicago 1958, tr. it., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.
[2] È da notare che, quando ci si riferisce alla distinzione tra le forme di governo che troviamo nei Greci e in tutto lo sviluppo del pensiero politico fino a Hobbes, senza avere consapevolezza della distinzione tra l’antico principio del governo e il moderno concetto del potere, si interpretano le forme di governo come indicanti il numero diverso delle persone che possiedono il potere supremo, la possibilità della decisione sovrana: in questo modo si intendono tali forme alla luce di quel concetto di sovranità che nasce invece proprio nel tentativo di negazione del fatto che ci sia tra gli uomini chi governa e chi è governato. Quando i termini di monarchiaaristocrazia edemocrazia emergono nel quadro della sovranità, essi non possono venire a indicare altro che diverse forme rappresentative di esercizio del potere sovrano. Le affermazioni qui fatte si possono comprendere nella loro motivazione solo grazie alla radicale distinzione tra governo e potere, per la quale rimando ai miei lavori: La logica del potere, cap. III, La rappresentanza politica, sp. pp. 69-92, e Il potere e la nascita dei concetti politici moderni, ora in S. Chignola e G. Duso, Storia dei concetti e filosofia politica,Franco Angeli 2008, cap. V.
[3] ZeF 352 (M 183, G 172). I problemi relativi alla terminologia kantiana sono sempre assai ardui, anche perché i termini non sempre sono usati in senso rigoroso nel significato che Kant puntigliosamente determina. I problemi aumentano poi nelle traduzioni, in cui si ha spesso un uso poco oculato dei termini, che rende difficile o fa deviare la comprensione concettuale. In M 183 si ha il riferimento alle “tre forme di governo”, mentre in realtà il testo tedesco parla coerentemente delle tre Staatsformen. Infatti Kant aveva appena distinto le forme della Beherrschung o imperii, dal modo del governo (der Regierung oregiminis), ed ora vuole giudicare come le tre forme in cui si esprime la sovranità dello Stato si rapportano, o si possono rapportare, al modo di governo. Se entra nel ragionamento la possibilità che ci siano forme di governo diverse, autocratica, aristocratica e democratica non si riesce più ad intendere il testo che parla di due modalità dell’uso di governo, quella dispotica e quella rappresentativa o repubblicana. Da ciò si può intendere che tale distinzione non è traducibile in termini formali e costituzionali, ma coinvolge piuttosto il problema del concreto agire politico.
[4] Cfr. il saggio di Rametta citato alla nota 25.
[5] Si tenga ben presente ciò quando si leggerà (si veda l’ultimo paragrafo del presente lavoro), nel § 52 della Rechtslehre, che “la vera repubblica non può essere altro che un sistema rappresentativo del popolo”.
[6] ZeF 352 (M. 183, G 172).
[7] Cfr. RL § 51, p.338 (tr. it. 173), dove è chiaramente affermato che autocrazia, aristocrazia e democrazia di distinguono tra loro a seconda di chi è il legislatore.
[8] Per questa distinzione e per la terminologia usata da Kant, oltre al passo cit. di ZeF, e al § 51 della RL, anche i §§ 45 e 49.
[9] ZeF 353, M 184, G 172.
[10] Da questo punto di vista Schmitt afferma il carattere formante della rappresentazione, che è l’elemento di forma nella forma politica, in quanto non c’è costituzione senza l’elemento rappresentativo (cfr. G. Duso,Rappresentanza e unità politica nel dibattito degli anni Venti: Schmitt e Leibholz, in La rappresentanza politica cit., pp. 145-173).
[11] “Soltanto dunque la volontà concorde e collettiva di tutti (der übereinstimmende und vereinigte Wille Aller), in quanto ognuno decide la stessa cosa per tutti e tutti la decidono per ognuno, epperò soltanto la volontà generale collettiva del popolo può essere legislatrice” (RL § 46, 313-314; tr it. 143). Sulla rilevanza dell’als ob insiste anche V. Fiorillo, La concezione politica del Zumenigen Frieden, in La filosofia politica di Kant cit. pp. 45-50.









Giuseppe Duso è stato Professore ordinario di Filosofia politica all’Università degli Studi di Padova. Ha recentemente pubblicato  Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna (ed.), Roma 1999, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma 1999, La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con Gaetano Rametta), Milano 2000, La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Milano 2003.








Fonte: MicroMega Il Rasoio di Occam - Filosofia