domenica 5 febbraio 2012

E IL FUNZIONARIO DISSE: "BASTA"



                                                 di Roberto Escobar


La ferita della guerra è ancora aperta quando, nell'estate del '45, il trentaduenne Albert Camus dà alle stampe la sua "Remarque sur la révolte".

 La lotta contro il fascismo in Europa è appena finita. Il giovane letterato e filosofo ne porta i segni nell'anima e nel pensiero. 
Tre anni prima ha pubblicato "Il mito di Sisifo", riflessione coraggiosa e laica sull'assurdo, inteso come confronto lucido tra la coscienza individuale e l'insensatezza dell'universo. 

È una rivolta, quella compiuta dell'uomo assurdo: una rivolta contro il destino, contro l'inevitabile concludersi nel niente della sua vita, contro ogni cielo assoluto che lo sovrasta e nega.
 E però non si manifesta in essa la dimensione dell'impegno con e per gli altri. 
Tutto sembra ridursi al singolo e alla sua solitudine. 

Poi nel '51, con "L'uomo in rivolta", quella solitudine si aprirà alla pluralità delle vite e alla necessità di «prender partito», anche in senso politico.

C'è un salto fra il pensiero dell'assurdo e quello della rivolta? Oppure c'è una continuità? Quando nel '46 Camus terrà a New York una conferenza sulla «Crisi dell'uomo», questa continuità si manifesterà.
 Combattendo nel Maquis, nella Resistenza - dirà fra l'altro -, noi ci mettevamo contro il nazismo, lo negavamo («le cose erano andate troppo oltre, c'era un limite a quello che si poteva sopportare»), e nello stesso tempo affermavamo «che c'era qualcosa in noi che rigettava l'offesa e che non poteva essere umiliato senza fine». 
Qui è il plurale che spicca, il noi che si rivolta contro una terribile 'insensatezza' storica.

E appunto la pluralità viene in primo piano, nel saggio del '45. Indirettamente, lo fa già all'inizio, con «il funzionario che ha ricevuto ordini per tutta la vita», e che «giudica a un tratto inaccettabile un nuovo comando». 

Da dove viene quel suo no che, mentre nega, afferma che c'è «qualcosa di cui vale la pena prendersi cura»? E perché Camus scrive proprio di un funzionario? 

Perché il funzionario obbedisce, qualunque sia l'ordine e per quanto sia rivoltante. 
E ancora, che cosa interrompe e capovolge questa sua obbedienza, se non l'improvvisa 'scoperta' delle conseguenze?

 Insomma, nelle prime righe della Nota sulla rivolta accanto a un 'io', il funzionario, sta implicito un 'altro', la vittima. 

Più avanti: «la rivolta non nasce solamente e necessariamente nell'oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell'oppressione».

C'è qui però un'incongruenza. Il funzionario non è un oppresso, ma un oppressore al servizio di altri oppressori, più potenti.
 Dunque, la sua rivolta non nasce dalla propria sofferenza, ma dallo 'spettacolo' della vittima che soffre. 

Nel libro del '51 l'incongruenza si scioglierà: la figura ambigua del funzionario lascerà il posto ad altre due.

 La prima sarà appunto la vittima.
 Nell'esordio di "L'uomo in rivolta" è lei, la vittima, a opporre al suo oppressore quel no che è allo stesso tempo un sì, un prender partito. E poi entra in scena l'altra figura: quella del terzo, né oppressore né oppresso, eppure coinvolto nel dolore che si manifesta ai suoi occhi. Ed è qui, nel suo coinvolgimento, che l'uomo assurdo 'trascende' se stesso e prende partito per la solidarietà: l'io si apre all'altro, e in lui scopre qualcosa di cui pensa valga la pena prendersi cura.

 Non si tratta di un nuovo valore assoluto, ma di un valore relativo, che cioè non vive in cielo, ma nella relazione tutta terrena con l'altro.

 Il grido dell'uomo assurdo - mi rivolto, dunque sono - ora si fa ancora più alto: mi rivolto, dunque siamo.


Fonte: "Il Sole 24 Ore"