giovedì 2 febbraio 2012

Restare Umani nella Zona Grigia


                                                                


I lager nazisti furono per Primo Levi, scrittore e testimone  che aveva una formazione scientifica, “laboratori” del male assoluto.


  La parola “laboratorio” viene usata dallo scrittore torinese nel senso proprio, non è soltanto una metafora. 


Leggendo le cronache dei lager è come se ci trovassimo in mezzo ad alambicchi e provette, in un luogo orribile di sperimentazione e drammatico palesamento di alcuni fenomeni tipici della debolezza umana.


 Con questo piglio analitico, Levi ha elaborato il concetto di «zona grigia» tra il male e il bene Ne «I sommersi e i salvati», la sua ultima opera, descrive con questo termine lo spazio confuso che nei campi di concentramento separava i carnefici dalle vittime, i padroni dagli schiavi, i colpevoli dagli innocenti.




 Le parole di Levi sono precise e non è difficile, fatto qualche distinguo, capire che non stiamo parlando di un caso specifico ma di un modello che tende, in situazioni e intensità diverse, a riproporsi: “Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile – scrive Levi – non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il ‘noi’ perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno.




 Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua.




Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere”.




Nei campi di concentramento succedeva tragicamente che anche tra i reclusi si creassero gerarchie e forme di collaborazione coi nazisti, per guadagnarsi lo status di “prigioniero privilegiato”.




 Secondo l’imprescindibile lezione di Levi, il nazionalismo non si limitava a produrre vittime, arrivava a degradarle, assimilarle, “e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale”.




È lui per primo a ricordarci come questo accada anche in altre situazioni.


 Così scrive più avanti: “Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film.




 Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale”.




Dunque, la lezione dell’Olocausto ha una valenza generale, produce una specie di legge che nei momenti di crisi delle forme di appartenenza collettiva e forte oppressione, è utile tenere presente: più si abbassa la soglia della dignità umana più è impossibile distinguere il male dal bene, più appare normale che le vittime si concedano ai loro carnefici diventando conniventi senza considerarsi responsabili.


 Nelle zone grigie, peraltro, ognuno si sente svincolato da qualsiasi responsabilità collettiva, si sente autorizzato a cavarsela da solo, farsi gli affari propri, trovare una forma di sopravvivenza.


 Levi dimostra così come non esistano “il male” e “il bene” come categorie cristallizzate ma che l’orrore che ci sta attorno ci trasforma in peggio, e questo “peggio” lo si deve riconoscere e combattere, e che allo stesso tempo invece gli spazi di libertà e comunanza che sappiamo costruirci ci rendono più forti, ci allontanano dalla zona grigia.




Ce ne accorgiamo ogni volta che ci pare normale che esistano centri di detenzione per migranti che non hanno commesso alcun reato. 


Ce lo ricorda l’assuefazione col quale leggiamo i titoli della stragrande maggioranza dei giornali e l’appartenenza etnica diventa inconsciamente un marchio: Schettino stava con la moldava, i killer erano maghrebini, l’autista-pirata era un nomade. 


La vera sfida, in mezzo a questo orrore, è quella che ci ha insegnato Vittorio Arrigoni: restare umani.




                                                                  Giuliano Santoro




fonte: MicroMega