di Serge Latouche Saggio pubblicato su Carta numero 13/10
qui nella versione completa arricchita dalle note
Nell’era della globalizzazione i governi
dei paesi occidentali, così come mostrato da Bertrand Mécheust, utilizzano in
modo sistematico «La politica dell’ossimoro» 2.
Sappiamo che l’ossimoro, figura retorica che consiste nell’accostare
due idee opposte, permette ai poeti di farci percepire l’indicibile e di
esprimere l’inesprimibile.
Utilizzato dai tecnocrati, l’ossimoro serve
soprattutto a farci prendere lucciole per lanterne.
La burocrazia vaticana non
sfugge alla regola, e si potrebbe anche dire che l’ha anticipata. La chiesa ha
una lunga storia di pratica delle antinomie, dagli eretici bruciati per amore,
alle crociate e altre guerre sante che anticipano le guerre giuste e pulite di
W. Bush. Benedetto XVI, con «Caritas in veritate», ce ne fornisce un nuovo
esempio a proposito dell’economia.
Secondo alcuni religiosi, Alex Zanotelli,
Achille Rossi, Luigi Ciotti, Raimon Panikkar, così come per Ivan Illich o
Jacques Ellul [per non evocare la teologia della liberazione], la società di
crescita si basa su una struttura di peccato.
Questa è condannabile per la
perversione intrinseca, poiché favorisce la banalità del male, e non in ragione
di un’ipotetica deviazione.
La diplomazia del Vaticano non intraprende questa
strada. Non sono condannati né il capitalismo, né il profitto, né la
globalizzazione, né lo sfruttamento della natura, né le esportazioni di
capitali, né la finanza, né certamente la crescita e lo sviluppo.
Solamente i
loro «eccessi» sono illeciti. Quindi, accanto agli eccessi e alle perversioni,
vi è un profitto «buono», una buona divisione internazionale del lavoro, una
buona globalizzazione, una buona finanza e anche un buon capitale.
Sono,
quindi, le deviazioni, gli abusi, le sottrazioni di queste «cose» né buone né
cattive a essere riprovevoli. Come ogni istituzione, la chiesa può sopravvivere
solo facendo dei compromessi, e noi non gliene faremo una colpa.
Tuttavia, il
compromesso non implica necessariamente una compromissione con la banalità del
male generato naturalmente dalla grande macchina tecnico-economica.
Non si era
padroni di condannare la logica del sistema, perché incompatibile con la morale
cristiana, riconoscendo che tutti i capitalisti, tutti gli agenti del sistema
globalizzato non sono necessariamente cattivi e il loro comportamento non è per
forza contrario agli insegnamenti dei Vangeli?
Fortunatamente è ancora possibile
fare buoni affari senza schiacciare il prossimo né distruggere
irragionevolmente la natura, né soccombere all’avidità illimitata diffusa dalle
business school, anche se questi spazi sono limitati e non costituiscono la
regola. Frédric Lordon, economista, coglie il punto quando scrive: «L’impresa
capitalista è, per costruzione, il luogo del dispotismo padronale, e da quando
Marx l’ha notato non è assolutamente cambiata. È inutile obiettare che, a
volte, vi sono dei despoti illuminati, se non addirittura amorevoli, e forse
anche dei dirigenti che si preoccupano di non andare fino in fondo al
potenziale dispotico che i rapporti sociali di produzione oggettivamente
mettono nelle loro mani» 3.
Infatti, ciò che colpisce nel testo
dell’enciclica, è la predominanza della doxa economica sulla doxa evangelica.
La colonizzazione dell’immaginario papale da parte dell’economia è quasi
totale.
L’economia, invenzione moderna per eccellenza, è posta come un’essenza
che non può essere messa in discussione.
«La sfera economica non è né
eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale» [p. 57]. Partendo
da ciò, ne deriva che questa può essere buona, così come tutto ciò che implica.
Così, per quanto riguarda il profitto: «Il profitto è utile se, in quanto
mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo
quanto sul come utilizzarlo».
Certamente va ricordato: «L’esclusivo obiettivo
del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia
di distruggere ricchezza e creare povertà».
Stesso trattamento per il capitale
e per il [4 Maggio 2010] lavoro, la cui
mercificazione non è né denunciata né condannata.
Per quanto riguarda
quest’ultimo aspetto, ricordiamo che Paolo VI insegnava
che «ogni lavoratore è un creatore».
È vero anche per la cassiera del supermercato? [p. 65].
Sembra
l’umorismo involontario e sinistro di Stalin [ma è un
caso?]: «Con il socialismo anche il lavoro
diventa più leggero». Ma, soprattutto e prima di tutto, sono la crescita e lo
sviluppo a venire ipostatizzati. Lo sviluppismo dell’enciclica è incredibile.
Secondo i miei calcoli, la parola sviluppo appare direttamente o in locuzione
258 volte in 127 pagine, ossia in media due volte per pagina. Certo, questo
sviluppismo è fortemente umanista: «sviluppo di ogni persona», «personale»,
«umano» e «umano integrale», «veramente umano», «autentico», «di tutto l’uomo e
di tutti gli uomini», e ancora «autentico sviluppo umano integrale» [p. 110].
Per la morale, è opposto allo sviluppo disumanizzato [solo incremento
dell’avere]. Ma, lo sviluppo è assimilato al benessere sociale, all’«adeguata
soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l’umanità» [p. 7].
Questo eccesso non è sfuggito ai sostenitori del papa che ne traggono delle
argomentazioni a suo favore. «Lo ‘sviluppo umano integrale’ è il concetto
fondamentale di tutta l’enciclica, usato ben ventidue volte per amplificare il
tradizionale concetto di ‘dignità umana’» 4 .
Si assiste a una vera ipostasi dello sviluppo. «Se l’uomo... non
avesse una natura destinata a trascendersi... si potrebbe parlare di incremento
o di evoluzione, ma non di sviluppo». È la feticizzazione/sacralizzazione dello
sviluppo. Si parla dello sviluppo di popoli, come «vocazione». «Il Vangelo è
elemento fondamentale dello sviluppo», perché rivela l’uomo a se stesso. Con,
naturalmente, la garanzia di Paolo VI.
Ricorda la «Populorum progressio»: «I
popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli
dell’opulenza» [p. 24]. E’ un ammiccamento alla famosa formula del suo
predecessore: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
«In ogni caso, secondo François de
Ravignan, il ventesimo anniversario dell’enciclica Populorum progressio, nel
1987, per i cristiani avrebbe dovuto essere l’occasione di porsi delle domande
sullo ‘sviluppo’ che questo testo pontificio giustificava e celebrava. In
particolare, le sofferenze e le ingiustizie del mondo contemporaneo erano
attribuite agli abusi e non alle concezioni economiche produttiviste e
libero-scambiste dominanti» 5.
Contrariamente
alla formula infelice dell’enciclica «Populorum progressio», lo sviluppo non è
il nuovo nome della pace, bensì quello della guerra [in particolare per il
petrolio o le risorse naturali che stanno scomparendo].
Non ci sarà mai più
pace e giustizia nella società di crescita.
Al contrario, una società di
decrescita riporterebbe la pace e la giustizia al centro.
La via della
decrescita significa l’abbandono della religione della crescita. Implica la
necessità di una «de-credenza» [«décroyance»].
È necessario abolire la fede
nell’economia, rinunciare al rituale del consumo e al culto del denaro 6.
Certamente non si tratta di ricadere
nell’illusione di una mitica società perfetta, dalla quale il male sarebbe
definitivamente sradicato, ma di costruire una società in tensione che affronta
le sue ineluttabili imperfezioni e contraddizioni dandosi una prospettiva di
bene comune, piuttosto che lo scatenamento dell’avidità.
Non solo il papa non
prende la via della decrescita, ma una piccola frase, a pagina 20, [«L’idea di
un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio»] sembra proprio
mirare agli «obiettori di crescita».
Ritroviamo tutti i luoghi comuni
evoluzionisti dello sviluppismo. Lo sviluppo è fondamentalmente positivo. «È
vero che lo sviluppo c’è stato e continua a essere un fattore positivo che ha
tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti paesi
la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale» [p.
30].
Affermazione superficiale e decontestualizzata ripresa, probabilmente, dal
suo «esperto» il professore Stefano Zamagni, in un’intervista pubblicata in «Un
Mondo possibile» 7 intitolata «’Caritas in veritate’ e nuovo
ordine economico», che, dopo aver evocato l’incredibile crescita dei paesi
emergenti, dichiara: «Prestando la dovuta attenzione all’incremento dei livelli
di popolazione, si può dire che il tasso dei poveri assoluti nel mondo è
passato dal 62 per cento nel 1978 al 29 per cento nel 1998».
Non so dove
Zamagni abbia trovato questi dati. Se, effettivamente i rapporti della Banca
mondiale mostrano un calo statistico della percentuale della povertà assoluta
[che non vuol dire molto] a causa dell’effetto meccanico della crescita cinese,
si tratta di una diminuzione molto modesta e non di una riduzione così spettacolare che può
alimentare le fantasie degli sviluppisti impenitenti.
Si riprende così la
visione gradualista ed evoluzionista di Rostow. Perciò si parla di «una fase
iniziale o poco avanzata del loro processo di sviluppo economico» [p. 100]. O
ancora: «In alcuni paesi poveri persistono modelli culturali e norme sociali di
comportamento che rallentano il processo di sviluppo» [p. 32].
Qui si ritrova
un luogo comune dello sviluppismo contro le sopravvivenze.
La «riprogettazione
globale dello sviluppo» e il «ripensamento» non cambiano gran che... anche se
parla di una «equa riforma agraria nei paesi in via di sviluppo» [p. 40] e
dell’«alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli
esseri umani», questa audacia viene fermata dall’astrattezza delle
dichiarazioni. A partire da qui, la globalizzazione è presentata
fondamentalmente come qualcosa di buono così come il libero scambio,
avvicinandosi molto alle posizioni di Banca mondiale e Fondo monetario, il cui
precedente direttore, il signor Michel Camdessus, è diventato consigliere di
Giovanni Paolo II.
Effettivamente in un libro intitolato «Notre foi dans le
siècle», di Michel Albert, Jean Boisonnat, Michel Camdessus [Arlea, Paris
2002], questi esperti cristiani vedono nella globalizzazione «l’avvento di un
mondo unificato e più fraterno» 8.
E azzardano
addirittura una formula: «La globalizzazione è una forma laicizzata di
cristianizzazione del mondo» 9.
L’apostolo
Matteo, secondo François de Ravignan, aveva ragione: «Si solleverà popolo
contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari
luoghi.
Ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori... il sole si oscurerà, la
luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei
cieli saranno sconvolte» [Mt 24, 7-30].
Il protezionismo dei ricchi è giustamente
condannato; sarebbe questo ad impedire ai paesi poveri di esportare i loro
prodotti e di accedere ai benefici dello sviluppo, ciò che poi sarebbe la causa
della loro miseria.
«Il principale aiuto di cui hanno bisogno i paesi in via di
sviluppo è quello di consentire e favorire il progressivo inserimento dei loro
prodotti nei mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena
partecipazione alla vita economica internazionale». [p. 98]. «La
globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone
ne faranno» [p. 68], e comporta aspetti positivi come «inserirsi nelle
molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte» [p. 68].
La globalizzazione
è, quindi, giudicata complessivamente come positiva.
«Essa è stata il
principale motore per l’uscita dal sottosviluppo» [p. 50]. «Non c’è motivo per
negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero
piuttosto che in patria» [p. 64].
E’ la delocalizzazione felice. «Non c’è
nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti
e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del paese che la ospita» [p.
64].
Lo sviluppismo spiega quest’incredibile giudizio positivo sulla
globalizzazione.
Accanto a tutto ciò, vi è un grande
silenzio sull’ingiustizia e sull’immoralità del libero scambio imposto ai
poveri. E’ sufficiente aiutarli ad adattarsi. «E’ pertanto necessario aiutare
tali paesi a migliorare i loro prodotti e ad adattarli meglio alla domanda» [p.
98].
Ci troviamo sempre più vicini a Bm, Fmi e Wto. Anche il turismo
internazionale, «che può costituire un notevole fattore di sviluppo economico e
di crescita culturale» [p. 102], è visto in modo positivo. Ci sembra di sognare.
Il turismo organizzato, anche non sessuale, sarebbe il prolungamento delle
peregrinazioni di San Paolo e degli apostoli?
Grazie alla confusione alimentata
dall’ideologia dominante, tra «mercati» e «Mercato», ossia tra lo scambio
tradizionale e la logica dell’onnimercificazione, neanche l’economia di mercato
è condannata: «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo
di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente
umani».
Secondo una retorica ben rodata, sono unicamente le devianze a essere
condannabili. «E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo
negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo
può indirizzare in tal senso» [p. 57]. Ed eccoci rassicurati.
Per quanto riguarda la distruzione
dell’ambiente, il problema è sollevato dalla forza delle cose, ma risolto molto rapidamente. Infine ci si
appella a «un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a
profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate, in modo che essa possa degnamente accogliere e
nutrire la popolazione che la abita» [p. 84].
Viene, quindi, data fiducia alla tecnica e a Dio.
Sembra
un po’ poco. Dov’è la carità in tutto questo? Senza
dubbio dimenticata per strada. Eppure, fin dall’inizio si è detto: «La fede è insieme apage e logos,
carità e verità, amore e parola» e «la giustizia è la prima via della carità» [p. 8].
I disastri
dell’economia mondiale capitalista non portano alla condanna dei suoi agenti, senza dubbio responsabili, ma
non colpevoli, se il profitto è stato estorto per una «buona ragione».
Come per
la tortura inquisitoria, la quadratura del cerchio tra la logica economica e
l’etica cristiana sta, senza dubbio, nel concetto che ritroviamo nei manuali
dei grandi inquisitori: «che questo sia fatto senza odio». E anche con amore.
L’economicizzazione del mondo può realizzarsi sotto il segno della carità. E’
in questo la grande riconciliazione di Dio e di Mammona. La favola degli
interessi ben compresi è ampiamente sviluppata. «C’è una convergenza tra
scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche costi
economici» [p. 48].
Siamo salvi! Si possono servire due padroni. E poi tutto
ciò deve essere bagnato nell’acqua benedetta dei buoni sentimenti: il buonismo.
«L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento»
[p. 75], dell’etica della carità.
Che meraviglia! Troviamo un vigoroso appello alla «responsabilità sociale» dell’impresa. Tuttavia, poiché questo potrebbe non essere sufficiente, per essere generosi si introduce, come sostegno, l’economia della carità [p. 5].
«Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» [p. 58].
Che meraviglia! Troviamo un vigoroso appello alla «responsabilità sociale» dell’impresa. Tuttavia, poiché questo potrebbe non essere sufficiente, per essere generosi si introduce, come sostegno, l’economia della carità [p. 5].
«Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» [p. 58].
Ed è qui che
gli amici del Mauss [Movimento anti-antiutilitarista nelle scienze sociale]
Jacques Godbout e Alain Caillé, sfarzosamente invitati al Vaticano, a sostegno
di Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Leonardo Becchetti, Pier Paolo
Becchetti e di qualche altro si riveleranno utili, a loro insaputa, nel caso in
cui ce ne fosse bisogno. Si porta nelle acque ghiacciate del freddo calcolo
economico il dolce calore della Logica del dono e del perdono. «Le relazioni di
gratuità, di misericordia e di comunione sono prime i rapporti di diritti e di
doveri».
Siamo d’accordo che con la globalizzazione l’ibidrazione del mercato
da parte della logica politica e di quella del dono sono ancora più necessarie
[p. 59]. «Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare
nemmeno la giustizia» [p. 60], ciò che, tra parentesi, è un controsenso
nell’interpretazione del dono maussiano. L’economia di comunione e il settore
non profit, il terzo settore, l’economia civile, sono esplicitamente menzionati
ed esaltati. L’ibridazione, cara a Jean-Louis Laville, permetterà al profitto
di diventare «uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del
mercato e della società» [p. 77].
«È la stessa pluralità delle forme instituzionali
di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo»
[p. 78].
Siamo sempre nel mito della buona azione/buon affare. Si ha comunque diritto a essere un po’ sorpresi dal vedere il terzo settore che, nel tentativo di sopravvivere al riparo della concorrenza, diventa uno dei suoi strumenti.
Siamo sempre nel mito della buona azione/buon affare. Si ha comunque diritto a essere un po’ sorpresi dal vedere il terzo settore che, nel tentativo di sopravvivere al riparo della concorrenza, diventa uno dei suoi strumenti.
La concorrenza [quella della volpe libera
nel libero pollaio] promossa da Bruxelles è riuscita, al contrario, a smantellare l’economia
sociale e mutualistica e una gran parte del settore pubblico.
Senza un cambiamento di sistema, avverrà lo stessa cosa con tutte le forme economiche alternative.
Come osserva l’economista Pierre Dockes: «La competizione degli interessi stimati che dinamizza nelle fasi di espansione economica, nelle crisi diventa scontro di avidità» 10.
E si può aggiungere, con Philippe Thureau-Dangin: «Nella misura in cui la concorrenza, dapprima circoscritta nell’ambito economico, invade tutte le sfere della vita sociale e della vita privata, nulla può impedire né moderare la crudeltà che può esprimere a piacimento con la scusa di dover raggiungere un risultato obiettivo» 11.
Ha ragione Franco Totaro quando commenta
criticamente Luigino Bruni a proposito del suo libro «L’economia, la felicità e
gli altri». «In questo libro – scrive Bruni – non ho ceduto alla tentazione di
definire che cosa sia la felicità, e spero solo di avere mostrato, da una
parte, che non è possibile oggi occuparsi di teoria economica, con lo scopo di
contribuire alla ricchezza o al benessere, senza fare i conti con i paradossi
della felicità, e dall’altra di aver indicato alcuni meccanismi che, una volta individuati, potrebbero essere
portati allo scoperto e magari evitati» [p. 201].
«E allora – commenta Totaro –
sarebbe importante esplicitare che gli elementi di ‘gratuità, di apertura
sincera e non strumentale all’altro’, fonti di felicità ma storicamente espulsi
dall’economica contratta nel rapporto oggettivo di mezzi e fini, non possono
emergere in virtù di una semplice conversione relazionale dell’economia
considerata in se stessa e cioè nel suo codice produttivistico» 12.
Certamente, questa «buona» economia
dovrebbe essere esportata al Sud. «Per molto tempo si è pensato che i popoli
poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e
dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati», ma la
«Populorum progressio» ha cambiato tutto. In particolare, i benefici della
finanza etica e del microcredito si fanno sentire «nelle aree meno sviluppate
della terra» [p. 76].
Ritroviamo l’eco delle analisi di Leonardo Becchetti, uno
dei responsabili di Banca etica. Lo slogan di Banca etica è: «L’interesse più
alto è quello di tutti» 13.
Tuttavia,
dire che «Banca etica ha completamente capovolto la logica dell’homo
oeconomicus» significa confondere i desideri per realtà 14. Tutto si basa sull’idea che «Ethics is a
good business». «Dobbiamo prendere atto che la realtà di oggi è questa e
partire dalla partnership, il dialogo o la pressione sulle imprese per
realizzare l’obiettivo dello sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile
o quello della felicita economicamente sostenibile» 15.
L’obiettivo della felicità economicamente sostenibile non è propriamente un ossimoro? Certamente, la finanza e l’economia che dovrebbero diventare etiche «per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura». Come? Non ne sapremo di più, rimaniamo in un registro incantatore che lascia trasognati.
L’obiettivo della felicità economicamente sostenibile non è propriamente un ossimoro? Certamente, la finanza e l’economia che dovrebbero diventare etiche «per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura». Come? Non ne sapremo di più, rimaniamo in un registro incantatore che lascia trasognati.
Il fatto di reclamare una «rivalorizzazione» o una
«rivalutazione» che somiglia a quella reclamata dagli obiettori di crescita non
modifica in nulla la questione.
Infine, si notano i silenzi che pesano
tanto quanto le parole scritte e che ci raccontano molto sulla visione
pontificia.
Non una sola parola è spesa per denunciare la perversità della pubblicità,
l’indecenza del marketing o il crimine del nucleare. Si deve concludere che vi
siano anche una «buona» pubblicità, un «buon» marketing e un «buon» nucleare?
Il richiamo obbligato alla dottrina sociale della chiesa non fa alcuna
differenza.
Certamente, sarebbe ingiusto accusare il
papa e il Vaticano di non vedere le ingiustizie e l’immoralità dell’economia mondiale
attuale, ma, in fin dei conti, queste condanne verbali vanno
meno lontano di quelle del G20 di Londra e
del presidente Sarkozy, che denunciano gli eccessi della finanza e del
neoliberismo e richiamano a una moralizzazione del capitalismo, o di quelle di
Barak Obama, che critica violentemente l’oscenità dei bonus e dei superprofitti
delle banche.
Alla fine, il Grande Inquisitore di Dostoevskij ne «I fratelli Karamazov», aveva ragione a dire a Cristo: «Vattene e non tornare più».
Alla fine, il Grande Inquisitore di Dostoevskij ne «I fratelli Karamazov», aveva ragione a dire a Cristo: «Vattene e non tornare più».
NOTE
1 Tutte le citazioni dell’enciclica si
riferiscono all’edizione italiana «Benedetto XVI, Caritas in veritate»,
Libreria editrice Vaticana. 2009.
2 Bertrand Méheust «La politique de l’oxymore», La découverte, Paris 2009.
3 Frédéric Lordon «La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli. Fayard», 2009, p. 276.
4 Margaret Archer «L’enciclica di Benedetto provoca la teoria sociale» Vita e Pensiero, n.5 settembre ottobre 2009. Milano.
2 Bertrand Méheust «La politique de l’oxymore», La découverte, Paris 2009.
3 Frédéric Lordon «La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli. Fayard», 2009, p. 276.
4 Margaret Archer «L’enciclica di Benedetto provoca la teoria sociale» Vita e Pensiero, n.5 settembre ottobre 2009. Milano.
5 François de Ravignan «L’économie à
l’épreuve de l’Évangile. A plus d’un titre éditions», Lyon, réed. 2008, p. 90.
6 «Le veau d’or est vainqueur de Dieu. Essai sur la religion de l’économie». Rivista Mauss n. 27, primo semestre 2006
7 settembre 2009, n. 22, p. 6.
8 François de Ravignan, op. cit, p. 161.
9 Ibid, p. 162.
10 Dockes Pierre, Fukuyama Francis, Guillaume Marc, Sloterdijk Peter, «Jours de colère. L’esprit du capitalisme. Descartes et Cie», 2009, p. 128.
6 «Le veau d’or est vainqueur de Dieu. Essai sur la religion de l’économie». Rivista Mauss n. 27, primo semestre 2006
7 settembre 2009, n. 22, p. 6.
8 François de Ravignan, op. cit, p. 161.
9 Ibid, p. 162.
10 Dockes Pierre, Fukuyama Francis, Guillaume Marc, Sloterdijk Peter, «Jours de colère. L’esprit du capitalisme. Descartes et Cie», 2009, p. 128.
11 Philippe Thureau-Dangin «La concurrence
et la mort», Paris 1995, p. 213.
12 Franco Totaro «I rischi
dell’economicismo buono. Una critiqua etico-filosofica» in Etica e forme di
vita, a cura di Antonio Da Re, V&P, Milano 2007, p. 215.
13 Leonardo Becchetti «Oltre l’homo oeconomicus.
Felicità, responsabilità, economia delle relazioni» Città Nuova, Roma 2009, p.
222. 15 Ibid. p. 226