sabato 25 giugno 2011

Sacro Sviluppo



     di Serge Latouche Saggio pubblicato su Carta numero 13/10
                      qui nella versione completa arricchita dalle note


Nell’era della globalizzazione i governi dei paesi occidentali, così come mostrato da Bertrand Mécheust, utilizzano in modo sistematico «La politica dell’ossimoro» 2.

 Sappiamo che l’ossimoro, figura retorica che consiste nell’accostare due idee opposte, permette ai poeti di farci percepire l’indicibile e di esprimere l’inesprimibile. 

Utilizzato dai tecnocrati, l’ossimoro serve soprattutto a farci prendere lucciole per lanterne.
 La burocrazia vaticana non sfugge alla regola, e si potrebbe anche dire che l’ha anticipata. La chiesa ha una lunga storia di pratica delle antinomie, dagli eretici bruciati per amore, alle crociate e altre guerre sante che anticipano le guerre giuste e pulite di W. Bush. Benedetto XVI, con «Caritas in veritate», ce ne fornisce un nuovo esempio a proposito dell’economia.
Secondo alcuni religiosi, Alex Zanotelli, Achille Rossi, Luigi Ciotti, Raimon Panikkar, così come per Ivan Illich o Jacques Ellul [per non evocare la teologia della liberazione], la società di crescita si basa su una struttura di peccato.
 Questa è condannabile per la perversione intrinseca, poiché favorisce la banalità del male, e non in ragione di un’ipotetica deviazione. 
La diplomazia del Vaticano non intraprende questa strada. Non sono condannati né il capitalismo, né il profitto, né la globalizzazione, né lo sfruttamento della natura, né le esportazioni di capitali, né la finanza, né certamente la crescita e lo sviluppo.

 Solamente i loro «eccessi» sono illeciti. Quindi, accanto agli eccessi e alle perversioni, vi è un profitto «buono», una buona divisione internazionale del lavoro, una buona globalizzazione, una buona finanza e anche un buon capitale.
 Sono, quindi, le deviazioni, gli abusi, le sottrazioni di queste «cose» né buone né cattive a essere riprovevoli. Come ogni istituzione, la chiesa può sopravvivere solo facendo dei compromessi, e noi non gliene faremo una colpa. 
Tuttavia, il compromesso non implica necessariamente una compromissione con la banalità del male generato naturalmente dalla grande macchina tecnico-economica. 
Non si era padroni di condannare la logica del sistema, perché incompatibile con la morale cristiana, riconoscendo che tutti i capitalisti, tutti gli agenti del sistema globalizzato non sono necessariamente cattivi e il loro comportamento non è per forza contrario agli insegnamenti dei Vangeli? 

Fortunatamente è ancora possibile fare buoni affari senza schiacciare il prossimo né distruggere irragionevolmente la natura, né soccombere all’avidità illimitata diffusa dalle business school, anche se questi spazi sono limitati e non costituiscono la regola. Frédric Lordon, economista, coglie il punto quando scrive: «L’impresa capitalista è, per costruzione, il luogo del dispotismo padronale, e da quando Marx l’ha notato non è assolutamente cambiata. È inutile obiettare che, a volte, vi sono dei despoti illuminati, se non addirittura amorevoli, e forse anche dei dirigenti che si preoccupano di non andare fino in fondo al potenziale dispotico che i rapporti sociali di produzione oggettivamente mettono nelle loro mani» 3.

Infatti, ciò che colpisce nel testo dell’enciclica, è la predominanza della doxa economica sulla doxa evangelica. 
La colonizzazione dell’immaginario papale da parte dell’economia è quasi totale.
 L’economia, invenzione moderna per eccellenza, è posta come un’essenza che non può essere messa in discussione.
 «La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale» [p. 57]. Partendo da ciò, ne deriva che questa può essere buona, così come tutto ciò che implica. 
Così, per quanto riguarda il profitto: «Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo». 
Certamente va ricordato: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà». 
Stesso trattamento per il capitale e per il [4 Maggio 2010] lavoro, la cui mercificazione non è né denunciata né condannata. 
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ricordiamo che Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore».
 È vero anche per la cassiera del supermercato? [p. 65]. 
Sembra l’umorismo involontario e sinistro di Stalin [ma è un
caso?]: «Con il socialismo anche il lavoro diventa più leggero». Ma, soprattutto e prima di tutto, sono la crescita e lo sviluppo a venire ipostatizzati. Lo sviluppismo dell’enciclica è incredibile. Secondo i miei calcoli, la parola sviluppo appare direttamente o in locuzione 258 volte in 127 pagine, ossia in media due volte per pagina. Certo, questo sviluppismo è fortemente umanista: «sviluppo di ogni persona», «personale», «umano» e «umano integrale», «veramente umano», «autentico», «di tutto l’uomo e di tutti gli uomini», e ancora «autentico sviluppo umano integrale» [p. 110]. Per la morale, è opposto allo sviluppo disumanizzato [solo incremento dell’avere]. Ma, lo sviluppo è assimilato al benessere sociale, all’«adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l’umanità» [p. 7]. 
Questo eccesso non è sfuggito ai sostenitori del papa che ne traggono delle argomentazioni a suo favore. «Lo ‘sviluppo umano integrale’ è il concetto fondamentale di tutta l’enciclica, usato ben ventidue volte per amplificare il tradizionale concetto di ‘dignità umana’» 4 .
 Si assiste a una vera ipostasi dello sviluppo. «Se l’uomo... non avesse una natura destinata a trascendersi... si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo». È la feticizzazione/sacralizzazione dello sviluppo. Si parla dello sviluppo di popoli, come «vocazione». «Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo», perché rivela l’uomo a se stesso. Con, naturalmente, la garanzia di Paolo VI.
 Ricorda la «Populorum progressio»: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» [p. 24]. E’ un ammiccamento alla famosa formula del suo predecessore: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
«In ogni caso, secondo François de Ravignan, il ventesimo anniversario dell’enciclica Populorum progressio, nel 1987, per i cristiani avrebbe dovuto essere l’occasione di porsi delle domande sullo ‘sviluppo’ che questo testo pontificio giustificava e celebrava. In particolare, le sofferenze e le ingiustizie del mondo contemporaneo erano attribuite agli abusi e non alle concezioni economiche produttiviste e libero-scambiste dominanti» 5

Contrariamente alla formula infelice dell’enciclica «Populorum progressio», lo sviluppo non è il nuovo nome della pace, bensì quello della guerra [in particolare per il petrolio o le risorse naturali che stanno scomparendo]. 
Non ci sarà mai più pace e giustizia nella società di crescita. 
Al contrario, una società di decrescita riporterebbe la pace e la giustizia al centro. 
La via della decrescita significa l’abbandono della religione della crescita. Implica la necessità di una «de-credenza» [«décroyance»].
 È necessario abolire la fede nell’economia, rinunciare al rituale del consumo e al culto del denaro 6.
 Certamente non si tratta di ricadere nell’illusione di una mitica società perfetta, dalla quale il male sarebbe definitivamente sradicato, ma di costruire una società in tensione che affronta le sue ineluttabili imperfezioni e contraddizioni dandosi una prospettiva di bene comune, piuttosto che lo scatenamento dell’avidità. 
Non solo il papa non prende la via della decrescita, ma una piccola frase, a pagina 20, [«L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio»] sembra proprio mirare agli «obiettori di crescita». 
Ritroviamo tutti i luoghi comuni evoluzionisti dello sviluppismo. Lo sviluppo è fondamentalmente positivo. «È vero che lo sviluppo c’è stato e continua a essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale» [p. 30].
 Affermazione superficiale e decontestualizzata ripresa, probabilmente, dal suo «esperto» il professore Stefano Zamagni, in un’intervista pubblicata in «Un Mondo possibile» 7 intitolata «’Caritas in veritate’ e nuovo ordine economico», che, dopo aver evocato l’incredibile crescita dei paesi emergenti, dichiara: «Prestando la dovuta attenzione all’incremento dei livelli di popolazione, si può dire che il tasso dei poveri assoluti nel mondo è passato dal 62 per cento nel 1978 al 29 per cento nel 1998».
 Non so dove Zamagni abbia trovato questi dati. Se, effettivamente i rapporti della Banca mondiale mostrano un calo statistico della percentuale della povertà assoluta [che non vuol dire molto] a causa dell’effetto meccanico della crescita cinese, si tratta di una diminuzione molto modesta e non di una riduzione così spettacolare che può alimentare le fantasie degli sviluppisti impenitenti.
 Si riprende così la visione gradualista ed evoluzionista di Rostow. Perciò si parla di «una fase iniziale o poco avanzata del loro processo di sviluppo economico» [p. 100]. O ancora: «In alcuni paesi poveri persistono modelli culturali e norme sociali di comportamento che rallentano il processo di sviluppo» [p. 32]. 
Qui si ritrova un luogo comune dello sviluppismo contro le sopravvivenze.
 La «riprogettazione globale dello sviluppo» e il «ripensamento» non cambiano gran che... anche se parla di una «equa riforma agraria nei paesi in via di sviluppo» [p. 40] e dell’«alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani», questa audacia viene fermata dall’astrattezza delle dichiarazioni. A partire da qui, la globalizzazione è presentata fondamentalmente come qualcosa di buono così come il libero scambio, avvicinandosi molto alle posizioni di Banca mondiale e Fondo monetario, il cui precedente direttore, il signor Michel Camdessus, è diventato consigliere di Giovanni Paolo II. 
Effettivamente in un libro intitolato «Notre foi dans le siècle», di Michel Albert, Jean Boisonnat, Michel Camdessus [Arlea, Paris 2002], questi esperti cristiani vedono nella globalizzazione «l’avvento di un mondo unificato e più fraterno» 8.
 E azzardano addirittura una formula: «La globalizzazione è una forma laicizzata di cristianizzazione del mondo» 9.
 L’apostolo Matteo, secondo François de Ravignan, aveva ragione: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi. 
Ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori... il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte» [Mt 24, 7-30].
Il protezionismo dei ricchi è giustamente condannato; sarebbe questo ad impedire ai paesi poveri di esportare i loro prodotti e di accedere ai benefici dello sviluppo, ciò che poi sarebbe la causa della loro miseria.
 «Il principale aiuto di cui hanno bisogno i paesi in via di sviluppo è quello di consentire e favorire il progressivo inserimento dei loro prodotti nei mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena partecipazione alla vita economica internazionale». [p. 98]. «La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno» [p. 68], e comporta aspetti positivi come «inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da esso offerte» [p. 68].
 La globalizzazione è, quindi, giudicata complessivamente come positiva.
 «Essa è stata il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo» [p. 50]. «Non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria» [p. 64]. 
E’ la delocalizzazione felice. «Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del paese che la ospita» [p. 64]. 
Lo sviluppismo spiega quest’incredibile giudizio positivo sulla globalizzazione.
Accanto a tutto ciò, vi è un grande silenzio sull’ingiustizia e sull’immoralità del libero scambio imposto ai poveri. E’ sufficiente aiutarli ad adattarsi. «E’ pertanto necessario aiutare tali paesi a migliorare i loro prodotti e ad adattarli meglio alla domanda» [p. 98].
 Ci troviamo sempre più vicini a Bm, Fmi e Wto. Anche il turismo internazionale, «che può costituire un notevole fattore di sviluppo economico e di crescita culturale» [p. 102], è visto in modo positivo. Ci sembra di sognare. Il turismo organizzato, anche non sessuale, sarebbe il prolungamento delle peregrinazioni di San Paolo e degli apostoli?
Grazie alla confusione alimentata dall’ideologia dominante, tra «mercati» e «Mercato», ossia tra lo scambio tradizionale e la logica dell’onnimercificazione, neanche l’economia di mercato è condannata: «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani». 
Secondo una retorica ben rodata, sono unicamente le devianze a essere condannabili. «E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso» [p. 57]. Ed eccoci rassicurati.
Per quanto riguarda la distruzione dell’ambiente, il problema è sollevato dalla forza delle cose, ma risolto molto rapidamente. Infine ci si appella a «un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate, in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita» [p. 84].
 Viene, quindi, data fiducia alla tecnica e a Dio.
 Sembra un po’ poco. Dov’è la carità in tutto questo? Senza dubbio dimenticata per strada. Eppure, fin dall’inizio si è detto: «La fede è insieme apage e logos, carità e verità, amore e parola» e «la giustizia è la prima via della carità» [p. 8]. 
I disastri dell’economia mondiale capitalista non portano alla condanna dei suoi agenti, senza dubbio responsabili, ma non colpevoli, se il profitto è stato estorto per una «buona ragione».
 Come per la tortura inquisitoria, la quadratura del cerchio tra la logica economica e l’etica cristiana sta, senza dubbio, nel concetto che ritroviamo nei manuali dei grandi inquisitori: «che questo sia fatto senza odio». E anche con amore. 
L’economicizzazione del mondo può realizzarsi sotto il segno della carità. E’ in questo la grande riconciliazione di Dio e di Mammona. La favola degli interessi ben compresi è ampiamente sviluppata. «C’è una convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche costi economici» [p. 48]. 
Siamo salvi! Si possono servire due padroni. E poi tutto ciò deve essere bagnato nell’acqua benedetta dei buoni sentimenti: il buonismo. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento» [p. 75], dell’etica della carità.
 Che meraviglia! Troviamo un vigoroso appello alla «responsabilità sociale» dell’impresa. Tuttavia, poiché questo potrebbe non essere sufficiente, per essere generosi si introduce, come sostegno, l’economia della carità [p. 5]. 
«Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» [p. 58]. 
Ed è qui che gli amici del Mauss [Movimento anti-antiutilitarista nelle scienze sociale] Jacques Godbout e Alain Caillé, sfarzosamente invitati al Vaticano, a sostegno di Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Leonardo Becchetti, Pier Paolo Becchetti e di qualche altro si riveleranno utili, a loro insaputa, nel caso in cui ce ne fosse bisogno. Si porta nelle acque ghiacciate del freddo calcolo economico il dolce calore della Logica del dono e del perdono. «Le relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione sono prime i rapporti di diritti e di doveri».
 Siamo d’accordo che con la globalizzazione l’ibidrazione del mercato da parte della logica politica e di quella del dono sono ancora più necessarie [p. 59]. «Oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» [p. 60], ciò che, tra parentesi, è un controsenso nell’interpretazione del dono maussiano. L’economia di comunione e il settore non profit, il terzo settore, l’economia civile, sono esplicitamente menzionati ed esaltati. L’ibridazione, cara a Jean-Louis Laville, permetterà al profitto di diventare «uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società» [p. 77]. 
«È la stessa pluralità delle forme instituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo» [p. 78].
 Siamo sempre nel mito della buona azione/buon affare. Si ha comunque diritto a essere un po’ sorpresi dal vedere il terzo settore che, nel tentativo di sopravvivere al riparo della concorrenza, diventa uno dei suoi strumenti.
La concorrenza [quella della volpe libera nel libero pollaio] promossa da Bruxelles è riuscita, al contrario, a smantellare l’economia sociale e mutualistica e una gran parte del settore pubblico.


Senza un cambiamento di sistema, avverrà lo stessa cosa con tutte le forme economiche alternative. 
Come osserva l’economista Pierre Dockes: «La competizione degli interessi stimati che dinamizza nelle fasi di espansione economica, nelle crisi diventa scontro di avidità» 10.
 E si può aggiungere, con Philippe Thureau-Dangin: «Nella misura in cui la concorrenza, dapprima circoscritta nell’ambito economico, invade tutte le sfere della vita sociale e della vita privata, nulla può impedire né moderare la crudeltà che può esprimere a piacimento con la scusa di dover raggiungere un risultato obiettivo» 11.

Ha ragione Franco Totaro quando commenta criticamente Luigino Bruni a proposito del suo libro «L’economia, la felicità e gli altri». «In questo libro – scrive Bruni – non ho ceduto alla tentazione di definire che cosa sia la felicità, e spero solo di avere mostrato, da una parte, che non è possibile oggi occuparsi di teoria economica, con lo scopo di contribuire alla ricchezza o al benessere, senza fare i conti con i paradossi della felicità, e dall’altra di aver indicato alcuni meccanismi che, una volta individuati, potrebbero essere portati allo scoperto e magari evitati» [p. 201]. 
«E allora – commenta Totaro – sarebbe importante esplicitare che gli elementi di ‘gratuità, di apertura sincera e non strumentale all’altro’, fonti di felicità ma storicamente espulsi dall’economica contratta nel rapporto oggettivo di mezzi e fini, non possono emergere in virtù di una semplice conversione relazionale dell’economia considerata in se stessa e cioè nel suo codice produttivistico» 12.

 Certamente, questa «buona» economia dovrebbe essere esportata al Sud. «Per molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati», ma la «Populorum progressio» ha cambiato tutto. In particolare, i benefici della finanza etica e del microcredito si fanno sentire «nelle aree meno sviluppate della terra» [p. 76].
 Ritroviamo l’eco delle analisi di Leonardo Becchetti, uno dei responsabili di Banca etica. Lo slogan di Banca etica è: «L’interesse più alto è quello di tutti» 13

Tuttavia, dire che «Banca etica ha completamente capovolto la logica dell’homo oeconomicus» significa confondere i desideri per realtà 14. Tutto si basa sull’idea che «Ethics is a good business». «Dobbiamo prendere atto che la realtà di oggi è questa e partire dalla partnership, il dialogo o la pressione sulle imprese per realizzare l’obiettivo dello sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile o quello della felicita economicamente sostenibile» 15


L’obiettivo della felicità economicamente sostenibile non è propriamente un ossimoro? Certamente, la finanza e l’economia che dovrebbero diventare etiche «per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura». Come? Non ne sapremo di più, rimaniamo in un registro incantatore che lascia trasognati.

 Il fatto di reclamare una «rivalorizzazione» o una «rivalutazione» che somiglia a quella reclamata dagli obiettori di crescita non modifica in nulla la questione.
Infine, si notano i silenzi che pesano tanto quanto le parole scritte e che ci raccontano molto sulla visione pontificia.
 Non una sola parola è spesa per denunciare la perversità della pubblicità, l’indecenza del marketing o il crimine del nucleare. Si deve concludere che vi siano anche una «buona» pubblicità, un «buon» marketing e un «buon» nucleare? Il richiamo obbligato alla dottrina sociale della chiesa non fa alcuna differenza.

Certamente, sarebbe ingiusto accusare il papa e il Vaticano di non vedere le ingiustizie e l’immoralità dell’economia mondiale attuale, ma, in fin dei conti, queste condanne verbali vanno
meno lontano di quelle del G20 di Londra e del presidente Sarkozy, che denunciano gli eccessi della finanza e del neoliberismo e richiamano a una moralizzazione del capitalismo, o di quelle di Barak Obama, che critica violentemente l’oscenità dei bonus e dei superprofitti delle banche. 
Alla fine, il Grande Inquisitore di Dostoevskij ne «I fratelli Karamazov», aveva ragione a dire a Cristo: «Vattene e non tornare più».

NOTE
1 Tutte le citazioni dell’enciclica si riferiscono all’edizione italiana «Benedetto XVI, Caritas in veritate», Libreria editrice Vaticana. 2009.
 2 Bertrand Méheust «La politique de l’oxymore», La découverte, Paris 2009. 
3 Frédéric Lordon «La crise de trop. Reconstruction d’un monde failli. Fayard», 2009, p. 276. 
4 Margaret Archer «L’enciclica di Benedetto provoca la teoria sociale» Vita e Pensiero, n.5 settembre ottobre 2009. Milano.
5 François de Ravignan «L’économie à l’épreuve de l’Évangile. A plus d’un titre éditions», Lyon, réed. 2008, p. 90.
 6 «Le veau d’or est  vainqueur de Dieu. Essai sur la religion de l’économie». Rivista Mauss n. 27, primo semestre 2006
7 settembre 2009, n. 22, p. 6. 
8 François de Ravignan, op. cit, p. 161. 
9 Ibid, p. 162. 
10 Dockes Pierre, Fukuyama Francis, Guillaume Marc, Sloterdijk Peter, «Jours de colère. L’esprit du capitalisme. Descartes et Cie», 2009, p. 128.
11 Philippe Thureau-Dangin «La concurrence et la mort», Paris 1995, p. 213.
12 Franco Totaro «I rischi dell’economicismo buono. Una critiqua etico-filosofica» in Etica e forme di vita, a cura di Antonio Da Re, V&P, Milano 2007, p. 215.
13 Leonardo Becchetti «Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni» Città Nuova, Roma 2009, p. 222. 15 Ibid. p. 226