mercoledì 18 gennaio 2012

Buon compleanno Umberto Eco Ottant’anni di...




LATRATUS CANIS
versione originaria comparsa sul numero 1/1987 della rivista MicroMega


                                                                               di Umberto Eco


Come, quanto, perché e in che modo abbaiava un cane nel Medio Evo? 
La domanda non è stravagante quanto potrebbe sembrare, tanto che con un gruppo di medievalisti vi abbiamo lavorato a lungo (*). 
Durante le discussioni sul linguaggio che ebbero luogo nel Medio Evo, erano molti i grammatici e i logici che citavano abitualmente, come esempio di pseudo-linguaggio, il latratus canis.
 E non si limitavano al latrato del cane, anzi, vi aggiungevano i suoni del cavallo, del piccione, della mucca e, come c'era da aspettarsi, il linguaggio di pappagalli e gazze. 
Gli animali nel Medio Evo «dicevano» per la verità molte cose, ma in genere non lo sapevano: nei Bestiari compaiono come segni viventi di qualcos'altro, personaggi di un libro scriptus digito dei, che non producono linguaggio ma sono essi stessi «parole» di un lessico simbolico.
Ma i filosofi e i grammatici si interessavano invece al latratus in quanto fenomeno linguistico e lo mettevano in relazione al gemìtus infirmorum e ad altri tipi di interiezioni. 
A stuzzicare la nostra curiosità fu il fatto che — se si prova ad estrapolare da ciascuno di questi discorsi una sorta di albero tassonomico — ci si rende conto che in alcuni di questi alberi il latratus si accompagna al gemitus infirmorum, mentre in altri occupa un nodo diverso. 
Siamo così giunti all'ipotesi che questa questione, pur marginale, avrebbe potuto esserci utile a capire meglio alcune differenze impercettibili nascoste tra le pieghe di queste discussioni che, come spesso succede con materiali medievali, appaiono a prima vista come l'ostinata ripetizione dello stesso modello archetipico. 
Gli studiosi medievali non erano certo sprovvisti di testi sul comportamento animale: anche se l'Historia animalium di Aristotele ebbe solo una circolazione molto tarda, essi erano a conoscenza, attraverso la mediazione di Plinio e Ammonio, delle numerose discussioni sulle caratteristiche naturali dei cani, per non parlare del problema della voce di pesci e uccelli (compresi pappagalli e gazze). 
Analogamente, qualcosa doveva esser trapelato della discussione che vide impegnati Stoici, Accademici ed Epicurei sulla possibilità di un «logos animale». 
Sesto Empirico afferma (Pyrr. 1, 1, 65-67) che il comportamento dei cani dimostra che essi possiedono svariate capacità di riflessione e comprensione. 
Sesto cita un'osservazione di Crìsippo per cui un cane che nell'inseguimento di una preda giunge all'incrocio di tre strade, dopo aver annusato le due vie che la sua vittima non ha percorso, produce un perfetto sillogismo dialettico: «La bestia è passata o di qui, o di lì o da un'altra parte; di qui no, di lì nemmeno, perciò deve essere passata dall'altra parte». 
Non si sa bene se Sesto fosse nato nel Medio Evo, ma è interessante che nel Bestiario di Cambridge compaia lo stesso ragionamento, che non è invece presente né in Isidoro né nel Physiologus, il che significa che una gran parte del dibattito greco fu tramandata per altri canali secondari.
Tutta questa mole di osservazioni «naturalistiche» è sopravvissuta in qualche modo nelle opere di quei filosofi che attraverso la mediazione di Agostino si rifacevano all'eredità stoica. 
In generale, però, ogni comparsa del cane è in diretta dipendenza da quella pagina del De interpretatione di Aristotele (16a e sgg). che ebbe una straordinaria influenza sull'intera discussione medievale a proposito di linguaggio umano ed animale. 
Così il cane, nella letteratura filosofica e linguistica, si aggira essenzialmente come un animale che abbaia, che fa rumore assieme ai pappagalli e ai galli — qualche volta anche assieme al gemitus infirmorum, qualche altra volta in una categoria separata. 
Il latrato del cane, nato topostopos rimane. 
Eppure l'autorità ha un naso di cera, e, al di là di quanto possa apparire alla superficie letterale, ogni volta che il topos viene citato di nuovo è legittimo sospettare che si sia verificato un leggero spostamento di prospettiva.
Segni e parole
A dar ragione dell'imbarazzante posizione assunta dal latratus canis nelle teorie medievali del linguaggio, bisognerebbe tener presente che la semiotica greca, dal Corpus Hippocraticum fino agli stoici, operava una distinzione molto netta tra una teoria del linguaggio verbale (nomi, onomata), e una teoria dei segni (semeia).
 I segni sono fenomeni naturali che funzionano come sintomi o indicatori, e hanno con ciò che designano un rapporto basato su un meccanismo di inferenza (se c'è un certo sintomo, allora c'è una tale malattia; se c'è fumo, allora ci deve essere del fuoco). 
Le parole sono in rapporto diverso rispetto alle cose che designano (o alle passioni dell'animo che esse esprimono, o, in termini stoici, alla proposizione — lekton — che trasmettono), e questo rapporto si basa su una mera equivalenza e bicondizionalità (allo stesso modo che nella autorevole teoria aristotelica della definizione). 
La fusione tra una teoria dei segni e una teoria delle parole (per quanto fosse già stata vagamente prevista dagli stoici), è sanzionata in modo, definitivo soltanto con Agostino, che è il primo a proporre in modo esplicito una «semiotica generale», e cioè una scienza generale dei signa, intendendo per segno il «genere» di cui sia le parole che i sintomi naturali sono «specie». 
Ma nel compiere questa operazione nemmeno Agostino fu in grado di risolvere una volta per tutte la dicotomia tra inferenza ed equivalenza, e così nella tradizione medievale rimasero due linee di pensiero non ancora unificate.
Questa è un'osservazione cruciale per il nostro discorso, dal momento che una delle ragioni principali per cui il latratus canis occupa posizioni diverse nelle diverse classificazioni dei segni dipende proprio dal fatto se esse siano classificazioni dei segni in generale (secondo la concezione stoica o agostiniana) o delle voces, secondo la concezione aristotelica di una teorìa del linguaggio parlato.
Aristotele
Il detonatore della controversia sul latratus canis è quel passo del De interpretatione(16-20a) in cui Aristotele, nell'intento di definire i nomi e i verbi, fa anche alcune affermazioni marginali sui segni in genere.
 Riassumendo qui in breve le conclusioni di un dibattito senza fine tra gli interpreti di questo passo, Aristotele in sostanza dice che i nomi e i verbi sono casi di phoné semantiké katà synthéken, ciò che in termini medievali è vox significativa ad placitum
Aristotele afferma che le parole sono simboli di stati dell'animo (o volendo di concetti), proprio allo stesso modo in cui le parole scritte sono simboli di quelle orali.
 Usa il termine «simbolo» nel senso di Peirce, di uno strumento convenzionale, ragione per cui i simboli non sono identici in tutte le culture, mentre le passioni dell'animo sono le stesse per tutti in quanto immagini (potremmo dire «icone») delle cose. 
Ma parlando delle passioni dell'animo Aristotele aggiunge (abbastanza di sfuggita) che le parole sono «prima di tutto» segni di queste passioni.
Si tratta forse qui di mera ridondanza per cui la parola «segno» è sinonimo di «simbolo»? Certamente no, visto che quando Aristotele parla espressamente di segni (semeia) nella Retorica, intende riferirsi ai sintomi, fenomeni naturali da cui si deduce qualcos'altro. 
Aristotele vuol semplicemente dire che, anche se le parole sono simboli convenzionali, nel momento in cui vengono pronunciate esse possono essere anche(oppure in primo luogo) interpretate come sintomi del fatto evidente che la persona che le pronuncia ha in mente qualcosa che vuole esprimere.
Tutto si fa più chiaro quando, poche frasi più avanti, Aristotele fa notare che, dato che anche i suoni vocali possono essere considerati come segni (o sintomi), pure dei rumori inarticolati come quelli emessi dagli animali possono fungere da sintomi. 
Egli usa «rumori» (agràmmatoi psòphoi) e non suoni, perché, come spiegheranno Ammonio e tutti i commentatori successivi, intende riferirsi anche ad alcuni animali come i pesci che non emettono suoni ma producono dei rumori («quidam enim pisces non voces, sed branchiis sonant — dirà Boezio — et cicada per pectum sonurn mittit»). 
Aristotele afferma che questi rumori rivelano (delousi) qualcosa. Ora, che succede con la prima traduzione autorevole del De interpretatione, quella fatta da Boezio? Boezio traduce sia «simbolo» che «segno» con nota, e in questo modo la sfumatura aristotelica va perduta, ma soprattutto traduce delousi non come «mostrano» ma come significant (significano).
Aristotele parlava dei rumori degli animali e distingueva lessicalmente un rumore da un suono, mentre purtroppo da Boezio in poi i commentatori medievali tradussero l'aristotelico phoné (suono) con vox e psophòs (rumore) con sonus.
 Ed è così che, per i commentatori medievali, gli animali senza polmoni emettono suoni ma gli animali dotati di polmoni emettono delle voci e le voces possono essere signifìcativae.
 La via verso un latrato canino significante è ormai aperta.
Boethius latrans
Il latrato del cane compare per la prima volta in Ammonio e nel mondo latino con Boezio come esempio di vox significativa non ad placitum (per convenzione) ma piuttostonaturaliter come si vede dalla figura 1
Così un suono che per Aristotele era un segno finisce sotto l'intestazione di vox significativa, dove sono anche le parole e i simboli. 
Nella stessa categoria Boezio mette il gemitus infirmorurn, il nitrito del cavallo e perfino i suoni di animali senza polmoni che «tantu sonitu quodam concrepant». 
Ma perché questi suoni significano naturaliter? Ovviamente perché attraverso di essi se ne può identificare la causa mediante una inferenza sintomatica.
Boezio trascura però due importanti differenze: 1) la differenza, riconosciuta chiaramente dagli stoici, tra fenomeni naturali che «accadono» ma non sono prodotti dagli esseri umani, come il fumo del fuoco o un sintomo medico, e i suoni prodotti da creature animate; 2) la differenza tra i suoni emessi intenzionalmente e quelli emessi involontariamente (l'infermo geme involontariamente ed è lo stesso per i cani che abbaiano). 
Oppure i cani hanno una volontà di comunicare? Boezio dice del cavallo che «hinnitus quoque eorum saepe alterius equi consuetudinem quaerit», e cioè il cavallo nitrisce per chiamare un altro cavallo, volontariamente e, sospetto, con un preciso scopo sessuale. 
Egli dice anche (intendo Boezio, non il cavallo) che gli animali emettono frequentemente delle voci «aliqua significatione preditas», e cioè suoni investiti di qualche significato.
 Ma investiti da chi? Dall'animale che li emette o dall'uomo che l'ascolta? Boezio trascura questo problema perché ha trascurato la differenza 1). 
Quando si interpreta un fenomeno naturale come un segno è l'intenzione umana che lo considera come qualcosa che significa qualcos'altro.
Così il cane viene messo in una posizione davvero imbarazzante: emette delle voces ma lo fa in modo naturale. 
La sua voce si colloca ambiguamente a metà strada tra il fenomeno naturale e l'emissione volontaria; se abbaia intenzionalmente rimane poco chiaro se nel farlo si rivolga intenzionalmente ad un altro cane o agli uomini. 
Ciò che in termini zoosemiotici non è un problema di scarso peso.
 Inoltre, l'uomo capisce il cane (o il cavallo) in quanto dotato di una disposizione naturale ad interpretare i sintomi, o perché dotato di una disposizione naturale a capire il linguaggio canino?
Tommaso d'Aquino
Tommaso d'Aquino non si allontana dalla classificazione di Boezio: la sua sarà solo una tassonomia ancora più complessa.
 Si occupa del problema in più di una pagina del suo commentario al De interpretatione e lo fa con alcune ambiguità anche perché la sua classificazione risente di diverse influenze. 
In alcuni passi, rifacendosi ad Agostino, l'Aquinate chiama signum ogni vox significativa, in altri passi signum è usato anche nel caso del suono di una tromba militare (tuba) che ovviamente non rappresenta un caso divox vocalis
Sembrerebbe che per lui signum sia qualsiasi emissione investita di significato, che sia vocale o meno, ma non prende in considerazione i signa naturalia (isemeia), pur se i segni naturali giocheranno un ruolo importante sia nella teoria dei sacramenti che nella teoria dell'analogia. 
Proverò comunque a riassumere le sue opinioni attraverso il diagramma della figura 2Per l'Aquinate la differenza principale tra i suoni umani e quelli animali non consiste però nell'opposizione «volontario-involontario», ma piuttosto in un'altra, come sottolinea in un interessante passo del suo commentario alla Politica: sia gli uomini che gli animali dispongono di modi di significare secondo determinate intenzioni (i cani abbaiano e i leoni ruggiscono allo scopo di comunicare con i propri simili) e analogamente gli uomini emettono interiezioni. 
Così una persona inferma può gemere (involontariamente) e può emettere intenzionalmente delle interiezioni che significhino la sua sofferenza. 
Ma la vera opposizione è quella tra le interiezioni (che non possono esprimere dei concetti) e i suoni linguistici che sono in grado di trasmettere delle astrazioni, ed è questa la ragione per cui soltanto attraverso il linguaggio gli uomini sono in grado di fondare le istituzioni sociali («domum et civitatem»). 
L'eredità stoica: Agostino
Dell'imbarazzo che abbiamo riscontrato negli interpreti del De Interpretatione sono invece totalmente privi quei pensatori che, come è il caso di Agostino, non erano soggetti a quel tipo di influenza ed erano invece più direttamente legati alla tradizione stoica.
 Nel De doctrina Christiana Agostino (dopo aver esposto la sua famosissima definizione «signum est enim res praeter speciem, quam ingerii sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire») istituisce una distinzione tra signa naturalia e signa data.
 I segni naturali sono quelli che «sine voluntate atque allo appetita significandi praeter se aliquid aliud ex se cognoscere faciunt» (come il fumo che rivela presenza del fuoco o il volto di una persona arrabbiata che ne svela l'ira senza che quello ne abbia intenzione). Isigna data sono quelli che gli esseri umani si scambiano per esprimere i «motus animi» (non si tratta necessariamente di concetti e possono essere sensazioni come stati psicologici).
Con un colpo di genio Agostino mette tra i signa data, senza un attimo di esitazione, sia le parole delle Sacre Scritture che i segni prodotti dagli animali (vedi la figura 4): «Habent enim bestiae inter se signa, quibus produnt appetitus animi sui. Nam et gallo gallinaceus reperto cibo dat signum vocis gallinae, ut accurrat; et columba gemitu columbam vocat, vel ab ea vicissim vocatur». Tuttavia Agostino rimane in dubbio sulla natura di questa intenzionalità animale.
Abelardo
Il problema verrà risolto in modo originale da Abelardo. Nella Dialectica la sua classificazione dei segni può essere ricondotta a quella di Boezio anche nella divisione che egli introduce tra le voces significativae: quelle che significano naturaliter e quelle che significano ex impositione (per convenzione). Ma nella Summa Ingredientibus Abelardo inserisce una nuova opposizione, come si vede dalla figura 5: quella tra voces signiflcativae e voces significantes, opposizione data dalla differenza che ci sarebbe nel parlare ex institutione o sine institutione.
 L'institutio non è una convenzione (come l'impositio): è piuttosto una decisione che precede sia la convenzione umana che la significatività naturale dei suoni animali. Questa «istituzione» può essere considerata molto vicina ad un'intenzione. 
Le parole acquistano un significato ad opera dell'istituzione della volontà umana che le ordina ad intellectum constituendum (per provocare nella mente di chi ascolta qualcosa, forse meno di un concetto, come sosteneva Agostino). 
Allo stesso modo il latrato del cane ha un significato, pur se naturale, e l'istituzione (l'intenzionalità) della sua espressione gli è fornita da Dio, o dalla natura. In questo senso il latrato canino è tanto significativus quanto la parola umana, ed è in questo senso che va distinto da quei fenomeni che sono soltanto significantia e pertanto puramente sintomatici.
 Lo stesso latrato può essere emesso ex institutione (ed essere perciò significativus), oppure essere udito da lontano, offrendo così semplicemente la possibilità di dedurne che «laggiù c'è un cane».
È così chiaro come Abelardo, nel filone agostiniano, si trovi a seguire quella linea di pensiero di derivazione stoica che distingue tra segni (significantia) e parole o parole psuedo-naturali (significativa).
 Lo stesso latrato può fungere da sintomo (quando l'intenzionalità è preente soltanto dalla parte dell'interprete e l'evento non è stato istituito a questo scopo) oppure essere un'emissione naturalménte significante che il cane emette al fine di constituere intellectum. Questo non vuol dire che il cane «voglia» fare ciò che sta facendo: l'intenzione (institutio) non è sua, ma è piuttosto un'intenzione «naturale» impressa dalla natura, per così dire, nei circuiti neurologici dell'intera specie.
 Curiosamente, ci troviamo davanti alla proposta di una Volontà Agente, sul modello dell'Intelletto Agente di Avicenna, un'interpretazione questa che può trovar conferma in una formulazione analoga presente nel De Anima di Alberto Magno.
 In questo modo l'agente non è individuale ma è tuttavia intenzionale.
Bacone
Ancora nella linea della provocazione di Agostino arriviamo ora a Ruggero Bacone. La classificazione che possiamo estrapolare dal De signis non è davvero omogenea (figura 6): i suoi segni naturali assomigliano a quelli di Agostino, in quanto sono emessi senza intenzione, ma sarebbe una bella perdita di tempo mettersi ad indagare sui criteri che hanno presieduto alla costituzione della parte sinistra della classificazione.
 Per quanto concerne il nostro discorso, ci basti rilevare che, come in Abelardo, i segni della parte destra sono quelli prodotti da un'intenzione dell'animo, e che da questa parte, ancora come in Abelardo, ritroviamo la distinzione tra un'intenzione volontaria e una naturale. 
È decisamente interessante notare che, ancora una volta, esiste una differenza tra il canto del gallo considerato come un sintomo della presenza del gallo, oppure considerato come un suono in qualche modo intenzionale emesso allo scopo di comunicare.
 Quando compare tra i segni ordinata ab anima si chiama cantus galli, mentre se compare tra isigna naturalia viene definito attraverso una costruzione infinitiva: gallum cantare, il fatto che il gallo canti. 
Si tratta, come avrebbero detto gli stoici, di un «incorporeo», una sequenza sintomatica di eventi, e come tale può essere interpretata dagli esseri umani: «Cantus galli nihil proprie nobis significat tamquam vox significativa sed gallum cantare significat nobis horas». Bacone non si spinge fin dove aveva osato Agostino, e cioè non mette il latrato del cane e la parola di Dio sotto la stessa intestazione, ma, come Abelardo, non considera la voce emessa dagli animali (nel caso che l'animale comunichi per impulso naturale) soltanto come un mero sintomo. 
La sua descrizione del linguaggio animale è altrettanto attenta che quella di Agostino: i cani, le galline e i piccioni non sono, nei suoi esempi, puri topoi ma animali «reali» osservati con interesse naturalistico nel loro comportamento abituale.
 La classificazione baconiana riflette un nuovo atteggiamento verso la natura e l'esperienza diretta. Bacone avverte con grande acutezza la relatività dei linguaggi umani ma anche la necessità di imparare le lingue, ed è profondamente convinto che i galli cantino e i cani abbaino per comunicare con il loro simili.
 Potrebbe essere che noi non ne comprendiamo il linguaggio proprio allo stesso modo in cui un greco non capisce un latino e viceversa, ma certo l'asino è compreso dall'asino e il leone dal leone. Basterebbe così che l'uomo si esercitasse un po' e, come i latini capiscono i greci, sarebbe possibile capire il linguaggio degli animali: a questa conclusione si arriverà un po' più tardi con lo Pseudo-Marsilio di Inghen.
Così la notte del Medio Evo pare infestata da una folla di cani che abbaiano e di infermi che si lamentano: lo scenario descritto in tante pagine teoriche non può fare a meno di evocare uno scenario più reale di cani randagi aggirantisi per le strade delle città medievali mentre la gente, non ancora soccorsa dall'aspirina, celebrava con lamentazioni incontrollate l'avvicinarsi del Giorno Estremo.
 In questo scenario razzolano galline e pappagalli ma, a quanto ne so, non compare alcun gatto: erano probabilmente riservati a sabba più esclusivi e non potevano essere identificati come abitanti normali della città «ufficiale». 

(*)La ricerca è stata condotta nel corso di un seminario all'Università di Bologna da me, Andrea Tabarroni, Costantino Marmo, Roberto Lambertini (A. A. 1982-83). Una redazione, firmata dai quattro autori, è stata presentata come Latratus canis al convegno tenutosi a Spoleto nel 1983 sugli animali nel Medioevo, e ora appare negli atti del convegno stesso (L'uomo di fronte al mondo animale nell'Alto Medioevo, Spoleto 1985). Una seconda versione inglese appare come «On Animai Language in the Medieval Classification of Sìgns», in Versus, n. 38-39, maggio-dicembre 1984. In entrambi i casi sì tratta di lavori di una sessantina di pagine ciascuno. Il  presente articolo riproduce una conferenza tenuta da me a Lovanio e alla Yale University nel 1984. Appare a firma mia perché rappresenta una sintesi degli altri lavori citati, ma per quanto riguarda le idee che vi sono esposte ritengo debba essere considerato opera collettiva che deve essere accreditata anche agli altri tre autori.