venerdì 27 gennaio 2012

Studenti ’sfigati’ o futuri disoccupati?



di Guglielmo Forges Davanzati

Il Governo Monti si è presentato con il volto austero della “buona borghesia” italiana: nessuna caduta di stile, sobrietà, dedizione al lavoro, competenza. E si è presentato come il Governo che avrebbe salvato l’Italia. Ma, a distanza di tre mesi dal suo insediamento, si può affermare che né si è salvata l’Italia, né i Ministri che lo compongono hanno sempre dato segni di discontinuità rispetto alle dichiarazioni ‘fuori le righe’ dei Ministri del precedente Governo. Battezzare la prima manovra finanziaria del nuovo Esecutivo “decreto salva Italia” non è stata probabilmente un’idea felice: gran parte dei problemi del Paese dipende dalla crisi dell’eurozona, rispetto alla quale contano in massima misura le decisioni prese a Bruxelles. Il differenziale di rendimento fra titoli del debito pubblico italiano e bund tedeschi – considerato il termometro della tenuta dei conti pubblici italiani – ha subìto, nei mesi scorsi, oscillazioni di entità pari a quelle registratesi a partire dall’agosto scorso, nell’ultima fase del Governo Berlusconi.

Pochi giorni fa, il Financial Times ha fatto notare ciò che per molti economisti è diventato palese da almeno un triennio, ovvero che la crisi europea non si risolve con politiche di austerità. Il recente declassamento da parte di Standard and Poors dei titoli del debito pubblico di nove Paesi europei ha la medesima motivazione ufficiale: aumentare l’imposizione fiscale e ridurre la spesa pubblica genera una spirale deflazionistica che accresce il rapporto debito pubblico/PIL, anziché ridurlo. Esattamente il contrario di quanto i nostri tecnici (italiani ed europei) si aspettano. Non si è salvata l’Italia anche perché le politiche di austerità – che hanno visto la loro massima accelerazione nel “decreto salva Italia” – hanno semmai prodotto la paralisi dell’economia italiana, con un’ondata di scioperi che non ha precedenti nella storia recente del Paese.

E’ evidente che il problema dell’economia italiana consiste nel fatto che il suo tasso di crescita si approssima allo zero e che, anche per effetto di queste misure, è destinato ulteriormente a ridursi, come previsto dall’OCSE. E non vi è dubbio che l’elevata disoccupazione giovanile è parte integrante del problema. Violando lo stile comunicativo che questo Governo ha inteso darsi, è intervenuta la sintetica e chiara dichiarazione del vice ministro al Welfare, prof. Michael Martone, che legge la questione nei seguenti termini: “se a 28 anni non sei laureato, sei uno sfigato”.

Le numerosissime critiche rivolte al professore hanno fatto riferimento al suo (a quanto pare discutibile) percorso professionale e al fatto che, presa alla lettera, questa dichiarazione non tiene conto del fatto che si arriva tardi alla laurea per la riduzione dei fondi per il diritto allo studio, perché molti studenti, privi di sostegno delle famiglie, sono costretti a finanziarsi gli studi con impieghi occasionali, precari e spesso in nero, e perché le Università sono frequentate anche da studenti-lavoratori. Osservazioni, queste, condivisibili che andrebbero più propriamente inquadrate in uno scenario più ampio che attiene ai rapporti fra Università e mercato del lavoro. L’Università italiana ha anche svolto il ruolo (improprio) di “parcheggio”, e continua a svolgerlo. Il che, a differenza di ciò che il prof. Martone pensa, è difficilmente riconducibile al fatto che, in media, i giovani italiani sono poco inclini a sacrifici, e poco motivati allo studio.

La causa è semmai da ricercarsi nell’elevata disoccupazione e, conseguentemente, nella bassa probabilità di trovare impiego, che genera una condizione per la quale al crescere del tasso di disoccupazione cresce il tasso di scolarizzazione. Questa correlazione regge su un fondamento di ‘razionalità’ delle scelte. Si consideri il caso di un singolo individuo posto di fronte alla decisione se iscriversi o meno all’Università, in un contesto nel quale la probabilità di trovare impiego (e un impiego coerente con le qualifiche acquisite) è prossima allo zero. Dato il reddito a sua disposizione, può essere conveniente iscriversi all’Università, dal momento che un titolo di studio aggiuntivo può conferirgli un “vantaggio posizionale” rispetto ai suoi potenziali concorrenti. Nel momento in cui questa scelta è fatta da un numero elevato di individui, la probabilità di trovare impiego resta, per tutti, quella precedente all’acquisizione del titolo di studio. In più, la rapidità del percorso di studi diventa sempre meno rilevante quanto più gli studenti cominciano a maturare aspettative pessimistiche in merito alla loro collocazione nel mercato del lavoro, ovvero quando verificano che i posti disponibili sono molto limitati e i potenziali candidati sono molto numerosi. La certezza di ottenere, nella migliore delle ipotesi, un contratto precario – spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale - costituisce un ulteriore fattore che motiva il ritardo dell’acquisizione del titolo di studio. In fondo, se non altro per ragioni di “status”, può essere preferibile essere studente (anche se fuori corso) piuttosto che disoccupato.

Sul piano empirico, si rileva – su fonte Almalaurea – che il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Ovviamente nel computo dei “residenti al Nord” si includono anche i giovani meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Viene anche certificato che al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro, che due laureati su tre, nel Mezzogiorno, non hanno trovato occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo di studio e che la probabilità di trovare impiego è molto più bassa per le donne.

A ciò si aggiunge che, poiché gli studi universitari sono in larga misura finanziati dalle famiglie, le lauree tardive erodono in misura significativa i risparmi e, a seguire, ciò genera una condizione per la quale si rendono disponibili meno fondi per gli investimenti privati. Il che dà luogo a una spirale viziosa: l’aumento della disoccupazione accresce la popolazione studentesca; il che riduce i risparmi e gli investimenti, dunque il tasso di crescita accrescendo, in ultima analisi, ulteriormente la disoccupazione.

Considerando che ben difficilmente le esortazioni del prof. Martone possono avere effetto (dal momento che, al di là di quanto egli esterna, la politica economica fatta con le parole non è molto efficace, o non lo è per nulla), il problema lo si può risolvere in due modi: ponendo le condizioni per un aumento della domanda di lavoro – il che presuppone l’attivazione di politiche per la crescita – o abolendo il valore legale del titolo di studio – se e in quanto si assume che, così facendo, si disincentivino le iscrizioni. Il Governo si sta movendo lungo quest’ultima linea, di fatto accentuando il fenomeno della riduzione delle immatricolazioni già in atto da almeno un triennio. Se anche l’abolizione del valore legale del titolo di studio (o l’”attenuazione” della sua rilevanza, come il Governo si appresta a fare) ha effetti significativi di disincentivo alle immatricolazioni, ci si trova di fronte a una politica miope. A fronte dell’invecchiamento della popolazione (il numero di 19enni si è ridotto del 38% negli ultimi 25 anni), è arduo sperare che la crescita economica – nel lungo periodo – si attivi con una forza-lavoro in età avanzata e poco scolarizzata.





fonte MicroMega