venerdì 27 maggio 2011

Biografia di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese

(Roma 1914 - Rapallo 1998)
Nata da Oreste Ortese, impiegato governativo in un ufficio finanziario della Prefettura della capitale, e da Beatrice Vaccà, donna di superiore condizione sociale ben presto obliata in favore della famiglia, la piccola Anna Maria frequenta le scuole elementari in Libia fino a che fa ritorno coi genitori in Italia, per stabilirsi a Napoli. 

Scrive la sua prima prosa all'età di diciassette anni e la invia ad “Italia Letteraria” (poi “Fiera Letteraria”), che decide di pubblicarla.

 Dipoi, esordisce nel 1937 con la raccolta di racconti “Angelici dolori, per la quale viene apparentata al “realismo magico” del Bontempelli; nelle opere successive, tuttavia, meglio si delinea la personalità di un'autrice non riconducibile ad alcuna precisa influenza, sensibile ed attenta alla realtà però - a differenza degli scrittori del neorealismo che, parole sue, “si gravavano della cronaca” senza riuscire a dominarla - capace di trasfigurare la medesima attraverso uno sguardo lieve e penetrante. 
L'arco immenso dell'arte sua (oggi in parte riunito nei due splendidi volumi dei “Romanzi”, editi da Adelphi) è contenuto, ad esempio, nelle narrazioni de “Il mare non bagna Napoli (1953, premio Viareggio), ove l'oscillazione fra l'oggettività visionaria del primo racconto

 - “Un paio di occhiali”, nel quale questi ultimi rivelano l'orribilità del mondo ad una bimba carente di vista - e la febbrile soggettività di quello conclusivo

 - “Il silenzio della ragione”, lucido e tagliente ritratto dell'ambiente intellettuale partenopeo del periodo - danno conto della non comune duttilità espressiva ortesiana.

 E’ del 1965 “L’iguana”, il suo debutto nel romanzo, che apre “la stupefacente processione di esseri vilipesi e oscuri, di spoglie zoomorfe, sentimenti umani e virtù celesti, destinati ad accamparsi sul frontespizio dei romanzi a venire” (M.Farnetti);
seguono “Poveri e semplici” (1967, premio Strega),“La luna sul muro” (1968), “L'alone grigio” (1969), “Il porto di Toledo” (1975), “Il cappello piumato” (1979)

Verranno infine le cose più note e mature, Il cardillo addolorato” (1993), “Alonso e i visionari (1996), ove una suggestiva mediazione tra “il risentimento e il sogno di una società felice, la pena di vivere e la proiezione fantastica” (P.Di Stefano) prende corpo e lo sperimentalismo linguistico produce esiti memorabili. 
Appartata ed introversa (“sono sempre stata sola, come un gatto”), lontana dalle conventicole letterarie, segnata per tutta la vita dal dolore e dalla povertà (“si scrive perché si cerca compagnia, poi si pubblica perché gli editori danno un po’ di denaro”), è la maggiore scrittrice - assieme ad Elsa Morante - che il nostro Novecento abbia espresso.
Francesco Troiano








Opere della Ortese: Trilogia Fantastica.









<<Il mare non bagna Napoli>>


Pubblicato nel 1953 da Einaudi, premio Viareggio dell’anno successivo, “Il mare non bagna Napoli” è una delle opere più note di Anna Maria Ortese.

 La raccolta di novelle fece conoscere la scrittrice, ma le valse anche l’ingiusta accusa di antinapoletanità. 

La città che emerge dai racconti, infatti, ha qualcosa d’infernale ed è presentata senza retorica, con sguardo critico e lucido.
La scrittura si fa guida attraverso i vicoli, tra le tragedie familiari della plebe, le condizioni disumane di vita, senza quella “complicità” che aveva caratterizzato gli scrittori della napoletanità come Eduardo De Filippo. 

L’intento della Ortese non è denigratorio, come testimonia la Guida alla lettura pubblicata nell’ultima edizione Adelphi del testo del 1994; è, invece, quello di creare uno schermo su cui proiettare il proprio “doloroso spaesamento, il male oscuro di vivere”. 

Così la sofferenza e l’indignazione della scrittrice prendono corpo nei racconti quali “La città involontaria”, omaggio a Dante che mette a nudo la miseria umana, o “Il silenzio della ragione”, che chiama in causa gli intellettuali e la loro indifferenza.

 Emblematica è la storia di Eugenia, “Un paio di occhiali”, che apre il libro con il dolore della scoperta del mondo da parte di una bambina mezza cieca che finalmente può indossare gli occhiali per vedere “il mondo fatto da Dio” con il vento, il sole, il mare che aveva sempre immaginato e che invece è colta da una vertigine: “ le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia (…) Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava”.

 La realtà è intollerabile “alla vista” per la scrittrice; tolto il velo onirico, resta il male contro il quale si scaglia la sua polemica morale.

 La risposta ad un mondo senza speranza non è, tuttavia, la fuga, perché anche quella lascia un gusto amaro quando inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà, con quegli occhiali che svelano il dolore.

 E’ il caso di Anastasia Finzio, una donna rassegnata alla solitudine e alla povertà che sogna un’altra vita quando scopre che è tornato a Napoli il suo spasimante di gioventù, Antonio Laurano, e pensa di poter cambiare “come un viottolo che sembra morire in un campo sterrato, e invece, a un tratto, si apre in una piazza piena di gente, con la musica che suona”. 
Ma Antonio è fidanzato con un’altra, non resta che l’amarezza del reale: “Un sogno era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita…era una cosa strana, la vita.
 Ogni tanto sembrava di capire che fosse e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno”.


IL Cardillo Addolorato





Romanzo organizzato in cinquanta capitoli divisi in sette parti, “Il cardillo addolorato” è il pannello centrale del trittico del fantastico, delle “bestie – angelo”, che include “L’iguana” e “Alonso e i visionari”.
 Favola metafisica d’ambientazione vagamente storica (siamo in una Napoli di fine Settecento), l’opera è animata da una pluralità di voci e di personaggi le cui vicende si svolgono in una dimensione onirica tale da fondere i momenti reali e quelli sognati. 
I punti di vista del racconto sono molteplici e si sovrappongono in una struttura narrativa complessa che poggia su una lingua letteraria elegante, appena connotata d’elementi dialettali.

Un gruppo di viaggiatori “di genere fantastico, viaggiatori nelle nuvole” giunge da Liegi nella città partenopea, “la città dal golfo fatato”: il principe Ingmar Neville, uomo dal carattere duro e malinconico, principale protagonista della storia; lo scultore Albert Duprè; il commerciante Alphonse Nidier. 
I tre stranieri sono ospiti del guantaio di Santa Lucia, don Mariano Civile, la cui famiglia ha una storia misteriosa.
 La figlia Elmina nasconde un segreto legato al ricordo di un uccellino morto a causa sua.
 Il cardillo Dodò era la passione di Floridia, sorella di Elminia che, da bambina, per farle dispetto, l’aveva lasciato morire.
 Per il dolore, la piccola Floridia morì ed Elminia diventò fredda e ruvida “come una pietra”.
 La giovane risveglia nel principe sentimenti contrastanti: egli è consapevole che la sua bellezza cela “un mistero non buono” e tenta di opporsi al matrimonio della ragazza col suo giovane amico scultore che se ne è subito invaghito.
 Gli sforzi di Neville saranno vani e i due giovani sposi convoleranno a nozze senza amore.
 Il contegno di Elminia sarà sempre più strano, come “una giovane capra” la donna non fingerà nemmeno di amare il marito. 
Taciturna e cupa, ossessionata dalla presenza – assenza del cardillo, entità fantastica che diventa “padrone malinconico” delle vite dei personaggi, la donna causerà anche la morte del figlio Alì Babà per “l’orrore di ombre” che infligge al piccolo. 
Dopo molti anni, il principe di Neville farà ritorno a Napoli dove troverà Elminia vedova, provata dalla solitudine e dall’indigenza, che si aggira tra i vicoli di Napoli “luogo di pena” insieme alla figlia Sasà e ad un piccolo deforme, muto e cieco, su cui riversa un amore insensato.






Alonso e i visionari





Romanzo conclusivo della trilogia fantastica di Anna Maria Ortese, che consolida la scelta poetica della scrittrice per la rarefazione del linguaggio e le suggestioni oniriche (“…ritengo che l’Universo non sia circolare come si tende a definirlo, ma ellittico, ed esso perde di là, da quella sua deviazione – ancora, fortunatamente, splendente – tutto il suo sangue o sostanza, tutto ciò che chiamiamo tempo”), “Alonso e i visionari” s’incentra su un piccolo puma dell’Arizona intorno al quale ruotano le vicende dei personaggi, “i visionari”, cui tocca in sorte di incontrarlo.

La vicenda si sviluppa per rivelazioni che ogni volta sembrano negare le verità precedenti, tra poliziesche e metafisiche, in merito ad un delitto accaduto, in una certa notte, in una casa vicino Prato.

Tremenda storia “di assassini, di visionari e di complici”, l’opera narra “una vera storia italiana” di cui la narratrice è testimone.
I protagonisti sono tutti legati da una sorta di pazzia che è come “un buco nell’intelligenza, nell’azzurro, dal quale entrano il freddo e la cecità degli spazi stellari”.
 Un noto professore d’italiano ispiratore di terroristi e di altri “uomini del lutto”, i suoi figli circondati dal mistero, un professore americano segnato dalla debolezza di voler capire e compatire, seguono le tracce del puma Alonso, oggetto ora di un odio irragionevole, ora di un amore inerme, in una storia intricata, un giallo che sorge sull’incessante “sgarbo agli dei” da cui ogni altro delitto ha origine, quel peccato molto comune agli uomini che è “il più grave di tutti i peccati: il disconoscimento dello Spirito del mondo”.