lunedì 30 maggio 2011

Ermeneutica del Valore: Note a Margine sulle Utopie Distopiche (parte 1)

Accanto al genere filosofico dell'Utopia descrizione della società felice e perfetta,  la migliore possibile, nel nostro secolo è nato il genere letterario della Distopia che presenta i suoi caratteri non più nel sogno ma nell'incubo della peggiore società possibile. 

Dall'osservazione complessiva ne consegue che le distopie riproducono molti tratti delle utopie, tanto che  si potrebbe concludere che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita perversità. 

Ma il rapporto è più complesso di quanto non appaia: se l'utopia descrive una società senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale, totalmente fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le esamina nelle loro ultime conseguenze. 

In entrambi i casi, si tratta comunque di invitare alla Progettazione di un mondo Migliore.
Il complesso intreccio che lega l'utopia alla distopia mi appare quindi come un tema intrigante.
 Come una mano disegna l'altra in un vortice senza fine dando origine a un tutto indivisibile, allo stesso modo l'immagine della città nuova vagheggiata dagli utopisti si unisce alla narrazione della società perversa, rappresentata dalla distopia, componendosi nel medesimo slancio, ovvero nella denuncia di una realtà avvertita come dolorosa e oppressiva, sollecita a porvi rimedio attraverso l'esercizio della razionalità.

Questa finalità ideale è facile da ravvisare nelle celebri utopie della storia della filosofia, purché non si commetta l'errore di proiettare su di esse categorie anacronistiche.

 Ciò è particolarmente vero per la Repubblica di Platone, animata dall'ideale della giustizia; per la Città del Sole di Campanella, che vuole combattere l'ineguaglianza e la povertà; per l'Utopia di More, che propone l'idea delle felicità individuale contro l'arbitrio dei potenti. 

Tutte le distopie o qualcosa di simile ad esse del nostro secolo, potrebbero avere  dunque,  una comune origine nella leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij.
 In essa viene sostenuta l'antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente per l'uomo un peso insopportabile, che  solo un potere assoluto e autoritario è in grado di contrastare, portando gli uomini alla felicità. 

QuestoTema è infatti ripreso dalla letteratura in forme diverse, da tre romanzi che a ragione possiamo definire con molti critici  <<Romanzi Distopici>> stiamo parlando di:  <<Noi>> di Evgenij Zamjatin che sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della felicità. 

De <<Il Mondo Nuovo>> del 1932 di Aldous Huxley, che presenta un totalitarismo fondato sul controllo tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione.

De il <<1984>> George Orwellil cui bersaglio polemico è l'universo totalitario e i pericoli derivanti da un uso distorto della scienza e della tecnologia, che costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell'affermazione di una crudeltà totalmente fine a sé stessa.

Nell'utopia, ovvero nel non luogo fisico, talvolta per nulla geograficamente definito, luogo buono della felice ambiguità del neologismo voluto da Thomas More, diventa il progetto di un società giusta e solidale. 


Nella distopia, invece ovvero nel luogo cattivo, che  si presenta come il modello di un società distorta e malvagia, qualcosa di diverso viene messo in atto.


In entrambe appare interessante indagare da vicino: Quali rapporti legano l'una all'altra? 
  La distopia, disvelamento del carattere perverso, costituisce davvero ciò che si annida nelle utopie: ovvero gli incubi più ricorrenti e comuni dalla cui realizzazione l'antiutopista desidera mettersi in guardia? 
Le promesse utopiche di una Città Rinnovata, Razionale e Beata mascherano in realtà meccanismi perversi per l'individuo e la collettivà?
 Aldous Huxley attraverso le parole di Berdjaev si esprimeva così:
 << Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? (...).  Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. 
E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d'evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno «perfetta» e più libera>>
                             Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Milano 1989, p. 19.

Sono giustificati quindi questi timori delle istanze avanzati dai fautori dell'utopia?
 Ad un'attenta osservazione, parrebbe che, l'idea di Utopia porti in sé al tempo stesso la Distopia; e come se questa, altro non facesse che proclamare l'urgenza di porre fine alla Progettazione Utopica, avvertita come nefasta per il bene dell'umanità, ovvero non corroborata.


Tale convinzione nasce evidentemente  dalla constatazione che i livelli sui quali il discorso utopico e distopico si instaurano e da cui muovono la propria critica, sono profondamente eterogenei.
Mentre l'utopia classica si sviluppa operando una cesura incolmabile tra la storia reale e lo spazio riservato alla progettazione utopica  - la scoperta di un territorio lontanissimo, sinora ignorato, nei resoconti sia di More, che di Campanellla nonché di altri filosofi, diviene così il simbolo di una frattura non solo geografica, ma soprattutto storica - la Distopia intende così collocarsi in continuità con il processo storico amplificando e rendendo tangibili quelle tendenze negative operanti nel presente che, non ostacolate, potrebbero condurre, quasi ineluttabilmente, alle società perverse da essa tratteggiate al fine di denunciarne i pericoli per lo sviluppo della civiltà umana.
 Dissimile risulta pertanto la prospettiva da cui gli autori dell'una e dell'altra edificano le loro costruzioni.
Nell'Utopia la società culturale e politica quale si è venuta configurando storicamente, è assunta dalla riflessione esclusivamente per essere superata attraverso l'immagine della Città ideale, la quale, una volta instaurata, le si sovrappone normativamente.
 In tal senso è esemplare l'adozione da parte di molti utopisti del racconto, i quali narrano di un viaggio avventuroso che conduce il narratore ad approdare in una terra sconosciuta. 
Tale presenza riveste nell'utopia un ruolo fondamentale: segna quella frattura spazio-temporale che permette l'esistenza stessa della rappresentazione utopica.
 Il lungo percorso permette al narratore di lasciare dietro di sé la propria esperienza sociale, politica, religiosa, economica per giungere in un mondo il cui isolamento geografico e conseguentemente storico e culturale ha dato vita a istituzioni, costumi che nulla hanno in comune con la realtà da cui il viaggiatore si è distaccato. 
Siamo così posti di fronte ad una società radicalmente diversa; ma tale differenziazione nell'utopia diventa contrapposizione speculare: alla struttura negativa dell'organizzazione umana esistente si sovrappone quella benefica della Città Nuova immaginata. 
In tal maniera, l'utopista cerca di superare la realtà contingente proponendo come sua alternativa una società perfetta in quanto razionalmente fondata.
Al contrario, nella distopia la realtà non soltanto si accoglie quale che sia, ma le sue attitudini e tendenze negative, sviluppate e ingigantite, forniscono il materiale con il quale edificare la struttura di un mondo distorto. 
Insomma, è proprio la varietà dell'assunzione della dimensione storica a determinare il diverso atteggiamento dell'utopia e della distopia: il luogo felice vagheggiato, è realmente un non luogo nel senso che esso non si colloca spazialmente nella storia, quale che chi scrive si trova a vivere; pur se vi rimanda come attraverso un gioco di specchi; appunto perché ciò a cui mira l'utopista è «mostrare» agli uomini l'immagine di un mondo beato e razionale, in virtù del quale essi si sentano spinti ad imprimere energicamente alla storia uno svolgimento diverso da quello a cui invece l'inerzia avrebbe condotto. 
Diversamente lo scrittore di distopie presenta la propria costruzione ideale come il risultato, più o meno vicino nel tempo, di strutture, condizioni già insidiatesi nella società contemporanea; di conseguenza la descrizione puntuale e minuziosa del «luogo cattivo» rivela come suo intento principale quello di indurre il lettore a stabilire un rapporto di filiazione, di causalità tra il mondo reale e quello rappresentato nella creazione letteraria, in qualità di suo effetto. 
Tutto ciò per concretare  nell'individuo l'urgenza di mutare quelle strutture e quegli atteggiamenti che, altrimenti lasciati liberi di attecchire e proliferare, consegnerebbero l'umanità ad uno scenario infernale.
La distopia determina quindi il suo campo d'azione nella rappresentazione degli aspetti che la società assumerebbe se continuasse a percorrere la via intrapresa, mentre il discorso utopico adempie la sua vocazione se tende, attraverso il paradigma della Città felice e giusta, a elevare gli animi verso mete più luminose, orientando l'immaginario sociale in direzione di idee-forza in grado di fecondare l'azione spingendola ad individuare processi alternativi, razionalmente fondati, come risposta ad una situazione storica avvertita come dolorosa.
Tuttavia la constatazione della diversità dei procedimenti narrativi messi in atto, dei differenti moduli espressivi adottati dagli autori dell'uno e dell'altro genere non conducono assolutamente il lettore in direzioni opposte e contraddittorie, in quanto il fine, il messaggio che è a fondamento delle loro opere è il medesimo; in ambedue i casi il paragone con la realtà effettuale, seppur attraverso modalità diverse, rivela l'intento di spronare gli uomini a mutare e migliorare le condizioni storiche esistenti: l'utopia con l'immagine della Città ideale a cui tendere e la distopia con il modello della società deviata da cui fuggire.
 Pertanto l'utopia si pone di fronte alla distopia carica della sua forza normativa ed è al contempo da essa richiamata prepotentemente, poiché  la distopia, con la vivacità della sue rappresentazioni, induce nel lettore la consapevolezza dell'urgenza di ispirare il proprio pensiero e la propria azione ad un paradigma ideale, risultato dell'esercizio razionale e della riflessione umana, in grado di deviare il corso della storia che, altrimenti immutato, avrebbe come esito la situazione delineata dagli antiutopisti.
In definitiva mi sembra che il vero pericolo che si prospetti all'umanità, lungi dall'essere rappresentato dalla realizzazione delle utopie, risieda invece proprio nella mancata capacità dell'uomo di proporre percorsi «altri» rispetto a quelli esistenti, capaci di mirare effettivamente ad una società giusta e fraterna. 
Pertanto ritengo auspicabile considerare, come scrive Lewis Mumford, che l'Utopia come l'altra metà della storia dell'uomo:
<< Per lungo tempo utopia è stato un altro nome per definire l'irreale e l'impossibile. Noi l'abbiamo posta in antitesi al mondo; in realtà sono le nostre utopie che ci rendono il mondo tollerabile: sono le città e gli edifici che la gente sogna, quelli in cui finalmente vivrà. Più gli uomini reagiscono alla propria condizione e la trasformano secondo modelli umani, tanto più intensamente vivono nell'utopia. (...) L'uomo cammina con i piedi in terra e la testa in aria; e la storia di ciò che è accaduto sulla terra (...) è solo una metà della storia dell'uomo
                             Lewis Mumford, Storia dell'utopia, Bologna 1968, pp. 9-10.


Il convincimento che la distopia annunci la necessità di porre fine alla costruzione utopica credo sia stato il frutto di paragoni superficiali tra luoghi simili ricorrenti sia nella produzione utopica classica che nella distopia contemporanea quali, ad esempio, l'educazione pianificata, la riduzione o l'abolizione del ruolo della famiglia, l'egualitarismo, la ricerca dell'uniformità negli orari che scandiscono la quotidianità e nel vestiario, l'influenza capillare del potere sociale e politico. 
Tutto quello che genera in qualunque modo una sorta di conclusione è in ultima analisi ciò che il totalitarismo rappresenta attraverso il carattere specifico dell'antiutopia contemporanea, quale effettivamente è.
 I suoi tratti perciò sono rintracciabili pienamente nell'utopia classica, accusata anche essa di essere totalitaria.
Il vizio concettuale è forse rintracciabile nell'operare una netta separazione tra l'analisi dei mezzi impiegati dall'utopista per realizzare la sua Città nuova, e la finalità ideale che esso si propone; ispirandolo a realizzare così, un paragone che si rivela non solo parziale, ma quasi del tutto fuorviante.
 È questo il caso delle accuse mosse alla Repubblica di Platone, all'Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella.
Per ciò che riguarda il filosofo ateniese, Cosimo Quarta nel suo eccellente studio L'Utopia platonica fornisce un quadro dettagliato ed esauriente del progetto politico della Repubblica, evidenziandone i rapporti di continuità e rottura rispetto alla tradizione storica e a quella culturale greca.


 Percorrendo la stessa via sostenuti dallo studioso,è  infatti possibile comprendere a fondo le novità introdotte da Platone e la loro carica utopica a dispetto dei notevoli fraintendimenti a cui l'opera è stata sottoposta; tacciata di proporre un sistema politico e sociale totalitario.
Accusa, questa, frutto di un processo metodologico illegittimo, come fortemente denuncia Quarta:
<< Occorre subito rilevare che tale difficoltà sorge soprattutto da un equivoco di fondo: quello di proiettare il «nostro», ossia il «moderno» concetto di classe (o concetti similari) sul modello di società tratteggiato da Platone nella Repubblica. Operazione che, essendo sotto ogni profilo scorretta, non poteva non generare giudizi altrettanto scorretti. Donde il «luogo comune» di un Platone, di volta in volta, conservatore, reazionario, classista, fascista e perfino razzista. Di qui la necessità di chiarire perché alcune moderne categorie sociologiche, politiche, economiche, giuridiche non possano, in modo corretto e legittimo, essere applicate all'organizzazione societaria delineata nella Repubblica, pena, appunto, l'insorgere di colossali equivoci >>

                                 Cosimo Quarta, L'utopia platonica, Milano 1985, p. 83.
Ed è proprio un tale indebito procedimento di analisi storica, accompagnato dalla scarsa duttilità a comprendere quelle istanze universali che, al di sotto delle diversità culturali, costituiscono la validità perenne di ogni autentica riflessione filosofica; che si trova a fondamento dell'incapacità di intendere il messaggio innovatore e liberatorio dell'utopia, quale è appunto il caso dell'opera di More e Campanella.
Anche le accuse mosse a Campanella di aver schiacciato l'individuo sotto il peso dell'assolutismo statale attraverso l'adozione dell'eugenetica, del lavoro obbligatorio, dell'educazione generalizzata, dell'abolizione della proprietà privata, dei legami familiari, dell'organizzazione dello spazio urbano, e quanto altro; che ciascuno di essi "crolla", quando si pone mente al contesto storico e alla filosofia sociale campanelliana, la quale muove dal principio che non il tutto è per la parte,  causa questo dell'amor sui, dell'egoismo; ma la parte è per il tutto, in cui ciò che si intende non è l'annullamento del singolo nella comunità, ma il suo inveramento in essa.


L'importanza attribuita alla generazione, all'educazione, al lavoro, alla cultura dell'uomo, testimoniano la consapevolezza che il rinnovamento della società poggia necessariamente sul rinnovamento dell'essere umano, nella certezza che universale e particolare si devono compenetrare.
Nella Città del Sole viene quindi esaltata l'uguaglianza degli uomini quando la società era divisa in classi gerarchiche, il comunismo dei beni quando il diritto di proprietà schiacciava i miseri e i deboli, il lavoro manuale quando questo nella realtà veniva disprezzato ed elogiato l'ozio.


 Campanella richiese l'educazione generale mentre le masse versavano nell'ignoranza e nello sfruttamento, la generazione controllata per ovviare alla prolificazione nella miseria: in definitiva fece valere la razionalità, di contro allo sfruttamento e alla reificazione umana; e costituendo proprio queste ultime, come le realtà davanti alle quali si leva l'accusa della distopia, risulta del tutto inesatto interpretare l'antiutopia come negazione della capacità utopica dell'uomo.


Analoghe considerazioni possono essere estese anche al De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia di T. More, le cui istituzioni e usanze sono state considerate da taluni oppressive, crudeli e, come è stato scritto, anche noiose in quanto comportano la vita in comune, l'abolizione della proprietà privata, il divieto di alcuni giochi, l'uniformità nel vestiario e negli orari della giornata, l'adozione di una medesima architettura in tutta l'isola. 
Questi ordinamenti non sono affatto fine a se stessi, la loro ragion d'essere si chiarisce alla luce della ragione e in contrasto a situazioni storiche caotiche e dolorose a cui l'utopista intende porre riparo con la propria riflessione. 


Questo compito di comprensione, si rivela piuttosto facile, essendo sufficiente la lettura del I libro del libellus vere aureus, premesso appositamente da More alla descrizione della sua isola al fine di rendere più manifeste le corrispondenze che legano situazioni storiche determinate, all'articolarsi della progettazione utopica, tendente alla instaurazione della giustizia e - per quanto possibile - della felicità individuale, di contro all'arbitrio e alla ricchezza dei potenti e, conseguentemente, alla miseria dei più.